Magistratura democratica

Persone dietro i numeri.
Un’analisi del rapporto tra sistemi penitenziari e recidiva

di Daniele Terlizzese

Un’analisi statistica di come i modelli penitenziari influiscano sui tassi di recidiva. Per dimostrare, sul piano empirico e non ideologico, che un carcere aperto, responsabilizzante e rispettoso dei diritti dei detenuti abbatte la recidiva e riduce il tasso di criminalità.

In Italia, come in molti altri Paesi, una frazione rilevante degli arrestati in un anno – tra il 40 e il 60 per cento, a seconda del modo di definire il fenomeno – ha alle spalle una precedente condanna: si tratta cioè di detenuti recidivi. Se riuscissimo a ridurre il tasso di recidiva, quindi, avremmo una riduzione del tasso di criminalità, con benefici sociali e meno pressione sulle carceri.

Ma che cosa riduce la recidiva? Condizioni carcerarie dure e punitive, che lascino un segno indelebile nella coscienza del carcerato e scoraggino la ripetizione del crimine, o un carcere che miri a riabilitare il detenuto, responsabilizzandolo e dandogli strumenti per reinserirsi nella convivenza civile? Il confronto tra queste due posizioni alternative è spesso ideologico, condotto in un vuoto empirico; parti politiche diverse sostengono l’una o l’altra, paesi diversi scelgono l’una o l’altra strada, senza preoccuparsi di guardare con serietà e in modo rigoroso ai dati.

La nostra Costituzione dà un’indicazione chiara: vieta condizioni nelle carceri contrarie al senso di umanità e chiede opportunità di rieducazione; privilegia quindi la seconda tra le due alternative. È il riflesso di una scelta ideale, di civiltà giuridica, o ha anche una giustificazione utilitaristica, nel senso che così facendo si ridurrebbe la recidiva?

Questa è la domanda che affrontiamo nella ricerca, condotta con Giovanni Mastrobuoni (università di Essex e Collegio Carlo Alberto) e riassunta in questo articolo.

In modo più specifico, ci chiediamo se condizioni carcerarie che assicurino la dignità del detenuto e offrano occasioni di rieducazione abbiano un effetto causale nel ridurre la recidiva.

Prima di esporre la risposta a questa domanda e di indicare il modo con cui la otteniamo, è opportuna una digressione metodologica che chiarisca quali sono le difficoltà da affrontare per rispondere (e il perché ho messo l’enfasi sull’aggettivo causale).

Si potrebbe pensare che trovare una risposta non sia difficile: basterebbe confrontare la recidiva di detenuti che hanno scontato la propria pena in un carcere che offre condizioni dignitose, responsabilizzanti e rieducative – come il carcere di Bollate, su cui baseremo la nostra analisi – con la recidiva di detenuti che hanno scontato la propria pena in un carcere tradizionale, più duro e punitivo. Questo confronto però non sarebbe in grado di dirci quasi nulla dell’effetto causale sulla recidiva dello scontare la pena a Bollate.

Per capire perché, consideriamo un esempio apparentemente scollegato. Supponiamo di confrontare il tasso di mortalità di due gruppi: coloro che lo scorso anno sono stati ricoverati in ospedale e coloro che non lo sono stati. Osserviamo che la mortalità dei primi è notevolmente superiore. Ne potremmo concludere che è l’ospedale a causare la morte dei pazienti? L’intuizione ci porta ovviamente a negare questa conclusione, ma cerchiamo di capire meglio perché essa sarebbe infondata. Il problema sta nel fatto che la differenza tra il tasso di mortalità di coloro che sono stati in ospedale e quello di coloro che non ci sono stati assomma e confonde due aspetti: la differenza, per coloro che sono andati in ospedale, tra il tasso effettivo di mortalità e quello che avrebbero avuto se non ci fossero andati — questo, e solo questo, è l’effetto causale dell’ospedale, poiché confronta gli stessi soggetti, con e senza il trattamento di cui ci interessa misurare l’effetto — e la differenza tra la mortalità di coloro che sono andati in ospedale, se non ci fossero andati, e la mortalità di coloro che non ci sono andati — e questa differenza non è in genere zero, perché va in ospedale chi già sta male! Essa riflette il cosiddetto l’effetto selezione: andare o meno in ospedale è il risultato di una scelta, e chi la fa è in genere diverso da chi non la fa.

Per verificare che la commistione tra l’effetto causale e quello della selezione può essere realmente fuorviante, supponiamo che il tasso di mortalità di coloro che sono andati in ospedale sia del 20%, e che quello di coloro che non ci sono andati sia del 5%; supponiamo anche che la mortalità dei primi, se non ci fossero andati, sarebbe stata del 40%. Abbiamo quindi che la differenza tra la mortalità dei due gruppi, 20% e 5%, cioè 15%, può essere scomposta nella somma di due differenze: la differenza tra 20% e 40%, che è un numero negativo, -20%, e la differenza tra 40% e 5%, che è un numero positivo, +35% (e infatti, -20%+35% = +15%). La prima differenza, una riduzione di 20 punti percentuali del tasso di mortalità, è l’effetto causale dell’essere andati in ospedale: andare in ospedale riduce il tasso di mortalità. La seconda è l’effetto della selezione: sceglie di andare in ospedale chi è già malato, ed è quindi naturale che la sua mortalità, se non ci fosse andato, sarebbe stata superiore a quella di chi ha scelto di non andarci perché non è malato. La conclusione che trarremmo dal confronto tra 20% e 5% sarebbe quindi del tutto fuorviante: ci porterebbe a ritenere che l’effetto dell’ospedale è di aumentare il tasso di mortalità di 15 punti percentuali, mentre in realtà è quello di ridurla di 20!

Si noti però che tanto il 20% quanto il 5% sono numeri facilmente osservabili: il primo è la mortalità media di coloro che sono andati in ospedale, il secondo la mortalità media di coloro che non ci sono andati. Il 40%, e cioè la mortalità media di coloro che sono andati in ospedale se non ci fossero andati, non è invece osservabile: poiché quelle persone sono andate in ospedale, non sapremo mai quale sarebbe stata la loro mortalità nel caso che non ci fossero andati. Siamo di fronte a quello che si chiama un controfattuale: un’osservazione che potremmo fare solo se potessimo tornare indietro nel tempo e far prendere ai soggetti in questione una decisione diversa.

In modo simile, il confronto della recidiva tra i detenuti di Bollate e gli altri non sarebbe appropriato, perché, come nell’esempio, assomma e confonde tra loro due aspetti: l’effetto causale sulla recidiva dell’andare a Bollate (per coloro che vanno a Bollate, qual è la differenza tra la loro recidiva effettiva e quella che avrebbero avuto se non ci fossero andati) e l’effetto della selezione, derivante dal fatto che i detenuti che vanno a Bollate non sono scelti a caso; sono invece selezionati attraverso un processo di valutazione abbastanza complesso, che mira a identificare detenuti che con maggiore probabilità risponderebbero positivamente alle sollecitazioni riabilitative che verranno loro offerte. Per questo, la recidiva che i detenuti che vanno a Bollate avrebbero avuto, se non ci fossero andati, non è in genere la stessa (ed è presumibilmente inferiore) di quelli che non sono scelti per andare a Bollate. La difficoltà, come nel caso dell’ospedale, sta nel fatto che entra in gioco un controfattuale: la recidiva che i detenuti “trattati” da Bollate avrebbero avuto se non fossero stati trattati; poiché sono stati trattati, non potremo mai realmente osservare che cosa sarebbe successo se non lo fossero stati.

La soluzione ideale a questo problema sarebbe quella di considerare un gruppo sufficientemente numeroso di detenuti, sceglierne a caso una parte e inviarla a Bollate (e la parte restante lasciarla in un carcere tradizionale) e poi confrontare la recidiva di questi due sottogruppi; il vantaggio di scegliere a caso i detenuti inviati a Bollate sta nel fatto che così facendo tra i due sottogruppi non ci sarebbero differenze sistematiche, cioè differenze derivanti da qualche aspetto specifico che caratterizza l’uno o l’altro gruppo: e poiché differenze non sistematiche in media si compensano (purché il gruppo sia sufficientemente numeroso), il detenuto “medio” nell’uno e nell’altro gruppo sarebbe sostanzialmente lo stesso, salvo che in un caso avrebbe scontato la pena a Bollate e nell’altro l’avrebbe fatto in un carcere tradizionale. Avremo cioè riprodotto la condizione ideale (ma controfattuale) di osservare lo stesso soggetto allo stesso momento in due condizioni diverse.

L’assegnazione casuale del carcere, però, porrebbe problemi di natura giuridica ed etica (sebbene, io credo, non insormontabili; problemi analoghi sono spesso efficacemente risolti in campo medico). Comunque non abbiamo dati che corrispondono a tale situazione, e dobbiamo in alternativa utilizzare tecniche statistiche che ci avvicinino alla condizione ideale di “trattamento casuale”.

La soluzione che noi diamo a questo problema si compone di due parti.

Innanzi tutto, spostiamo l’attenzione dal confronto tra detenuti che vanno a Bollate e detenuti che non ci vanno al confronto, per i detenuti che vanno a Bollate, tra coloro che, a parità di pena complessiva, ne scontano a Bollate una parte maggiore e coloro che ne scontano una parte minore; stimiamo quindi l’effetto sulla recidiva del rimpiazzare un periodo scontato in un carcere tradizionale con un periodo di uguale durata scontato in un carcere aperto, come il carcere di Bollate. È un po’ come se, nello studiare l’efficacia di un farmaco, invece di confrontare il tasso di guarigione dei soggetti a cui il farmaco è stato dato con quello di coloro a cui non è stato dato, confrontassimo il tasso di guarigione di soggetti a cui sono state date dosi diverse del farmaco.

Anche la lunghezza del periodo passato a Bollate, però, potrebbe essere il risultato di una scelta, e quindi quel confronto continuerebbe a risentire dell’effetto selezione. In particolare, è verosimile pensare che il processo di selezione possa concludersi più rapidamente, e quindi il trasferimento a Bollate avvenga prima e la pena residua da scontare a Bollate sia più lunga, per detenuti che mostrano con maggiore evidenza segnali di suscettibilità agli interventi riabilitativi; detenuti, cioè, che possiamo a priori pensare avrebbero comunque una minore propensione a recidivare. Se così fosse, non sapremmo quanta parte della loro minore recidiva sia l’effetto causale dell’aver scontato una parte maggiore della loro pena a Bollate e quanta parte derivi da loro caratteristiche intrinseche e indipendenti dal “trattamento Bollate”.

Fortunatamente però – e questa è la seconda parte, più innovativa, della nostra soluzione – possiamo sfruttare per l’analisi quei detenuti che, inizialmente carcerati in istituzioni tradizionali, tipicamente sovraffollate, sono stati successivamente sfollati a Bollate per ridurre l’affollamento nelle carceri di provenienza, senza passare per il processo di selezione che identifica i detenuti intenzionalmente trasferiti a Bollate; in particolare confrontiamo la recidiva futura di detenuti sfollati a Bollate che scontano la stessa pena totale e che però differiscono per la rapidità con cui è avvenuto il loro sfollamento (quelli sfollati più rapidamente scontano dunque una parte maggiore della loro condanna a Bollate). L’aspetto cruciale per la validità della nostra analisi è che le differenze nella rapidità di sfollamento siano casuali, o più esattamente che non siano correlate con le caratteristiche individuali dei detenuti sfollati (caratteristiche che possono essere a loro volta correlate con la loro “propensione a recidivare” intrinseca). Questa casualità è garantita dalle modalità amministrative con cui avviene lo sfollamento.

Infatti, una volta ricevuta la sentenza, i detenuti ospitati in un carcere sovraffollato entrano, in ordine cronologico, in una lista di potenziali sfollabili, da cui il carcere pesca, seguendone l’ordine[1], ogni volta che riceve dal Provveditorato regionale un’autorizzazione a sfollare un certo numero di detenuti. Le differenze nella rapidità di sfollamento dipendono dunque dalle differenze nella lunghezza della coda d’attesa di detenuti “sfollabili” che diversi detenuti si trovano di fronte quando ricevono la propria sentenza e dalla frequenza con cui il Provveditorato regionale consente ai vari carceri di provenienza di sfollare verso Bollate. Entrambe queste differenze sono evidentemente incorrelate con le caratteristiche individuali dei detenuti sfollati. Ciò che invece potrebbe dipendere da queste caratteristiche è il ritardo con cui ricevono la sentenza (cioè il momento in cui entrano nella lista). Questa però è un’informazione che abbiamo potuto raccogliere e di cui teniamo conto nella stima (la stima cioè confronta la recidiva di detenuti sfollati a parità di ritardo nel ricevere la sentenza).

Prima di esporre i risultati dell’analisi, riassumo brevemente il tipo di dati utilizzati e richiamo alcune caratteristiche del carcere di Bollate.

Per quel che riguarda i dati, abbiamo considerato tutti i detenuti (maschi, italiani, a esclusione di quelli incarcerati per crimini di natura sessuale, i cosiddetti sex-offenders) passati per Bollate dal 2001 al 2009; abbiamo ricostruito la loro storia carceraria precedente e l’eventuale nuovo ingresso in carcere nei 3 anni successivi alla scarcerazione da Bollate[2]; ne conosciamo la lunghezza della pena residua all’arrivo a Bollate e l’effettiva permanenza; abbiamo informazioni sui crimini commessi, su aspetti demografici e socioeconomici.

Abbiamo escluso gli immigrati perché è più difficile misurarne la recidiva, dal momento che una volta scarcerati possono più facilmente far perdere le proprie tracce. Abbiamo escluso le donne perché nel nostro campione sono molto poche, e i sex-offender perché le loro condizioni carcerarie sono particolari, e questo li rende più difficilmente confrontabili con gli altri.

Per quel che riguarda Bollate, si tratta del principale esempio italiano di «carcere aperto», una tipologia di carcere soprattutto diffusa in alcuni Paesi nordici. A Bollate le celle sono aperte tutto il giorno, i detenuti possono muoversi liberamente entro le mura del carcere, non c’è sovraffollamento, le giornate sono operose, fatte di lavoro, studio, formazione professionale, attività ricreative e sportive, in occasione delle visite di familiari è garantita l’intimità con il partner e i bambini hanno sale per giocare ben attrezzate; i detenuti sono chiamati alla responsabilità e all'autodeterminazione, firmano un “patto di responsabilità” che li impegna a comportamenti non violenti e rispettosi delle regole, possono dire la loro su molti aspetti della vita carceraria; c’è un’attenzione particolare a favorire un progressivo reinserimento nella società, e una frazione non trascurabile dei detenuti è, nel tempo, destinataria di benefici carcerari e fruisce di misure alternative alla detenzione. La sorveglianza è condivisa tra tutti gli operatori (non solo le guardie carcerarie): a fronte di circa 1.200 detenuti, si contano solo circa 450 guardie carcerarie, meno di una guardia per ogni due detenuti, mentre la media nazionale è di due guardie per ogni tre detenuti. Ciò implica che i costi sono molto inferiori: nel 2012, 65 euro al giorno per detenuto, contro una media di circa 115 euro al giorno[3].

Confrontando Bollate con San Vittore (da cui provengono molti dei detenuti che finiscono a Bollate) oppure Opera (un altro carcere vicino) abbiamo che il sovraffollamento è mediamente del 30-40% a San Vittore e Opera, è un sotto-affollamento del 20% a Bollate, le lesioni autoinflitte riguardano circa il 10% dei detenuti a San Vittore, sono meno dell’1% a Bollate, lavorano fuori dal carcere o per datori di lavoro diversi dall’Amministrazione carceraria meno dell’1% per cento dei detenuti di San Vittore, poco più del 5% quelli di Opera, quasi il 30% quelli di Bollate.

Si tratta, in buona sostanza, di due modi di vivere il carcere radicalmente diversi. Che cosa implicano per la recidiva?

A seconda del metodo di stima statistico adottato, otteniamo che la sostituzione di un anno in un carcere “chiuso e duro” con un anno in un carcere “aperto e umano” riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali (tra il 15 e il 25 per cento della recidiva media dei detenuti sfollati a Bollate); l’effetto è maggiore per detenuti con più bassi livelli di istruzione e per detenuti alla loro prima esperienza carceraria. Ricordo che i detenuti sfollati a Bollate non sono passati per il processo di selezione con cui invece vengono scelti i detenuti “regolari” di Bollate; sono quindi molto più simili al detenuto medio nelle carceri italiane e questo rafforza la cosiddetta “validità esterna” dei nostri risultati.

Nella ricerca ripetiamo l’analisi sui detenuti “regolari” (e cioè selezionati); in questo caso, va riconosciuto, è opinabile che la rapidità con cui avviene la selezione (che a sua volta determina la lunghezza della parte di pena scontata a Bollate) sia incorrelata con le caratteristiche individuali dei detenuti, il che rende i risultati per i detenuti “regolari” più soggetti alla distorsione dovuta alla selezione e suggerisce maggiore cautela nel farvi affidamento. Poiché però la distorsione porta verosimilmente a sovrastimare l’effetto causale del passare più tempo nel carcere aperto, e poiché la stima numerica che otteniamo per i detenuti selezionati è analoga a quella ottenuta per gli sfollati, possiamo ragionevolmente concludere che l’effetto sui secondi non è inferiore all’effetto sui primi.

Questo è interessante, perché i detenuti sfollati sono meno coinvolti nelle fasi più esplicitamente rivolte alla riabilitazione e al reinserimento offerte da Bollate (per esempio, sono meno frequentemente offerte loro opportunità di lavoro o di formazione); si tratta quindi di detenuti per i quali l’esperienza di Bollate è, fondamentalmente, l’esperienza di un carcere che, pur limitandone la libertà, non li umilia, li responsabilizza, lascia loro spazi di autodeterminazione. I risultati suggeriscono che questo basti per innescare un processo di riabilitazione. Il rispetto della dignità del detenuto finisce dunque per produrre sicurezza.

I dati che abbiamo potuto utilizzare non ci consentono di identificare in modo chiaro il meccanismo o, più verosimilmente, i meccanismi, sottostanti il risultato che troviamo. È importante capirlo, per orientare gli interventi di politica carceraria.

Qualche indicazione sui meccanismi ci viene dalle differenze di risposta al trattamento.

Il fatto che l’effetto sia maggiore per i detenuti con minore istruzione suggerisce che possa essere particolarmente efficace, tra gli aspetti del trattamento Bollate, l’offerta ai detenuti di occasioni di formazione professionale e di lavoro esterno al carcere, che meglio li attrezza a rientrare nella società. La maggiore efficacia sui detenuti alla loro prima esperienza in carcere segnala l’importanza di agire per tempo.

Che l’offerta di opportunità di lavoro riduca la recidiva è una cosa ragionevole e prevedibile. Non sembra però che sia l’unico canale attraverso il quale il trattamento Bollate influenza la recidiva. Come già ricordato, la riduzione della recidiva è almeno altrettanto grande per i detenuti sfollati, a cui però sono con molta minore frequenza offerte occasioni di lavoro.

La riduzione della recidiva misurata dalla nostra analisi suggerisce l’opportunità di estendere le modalità di espiazione della pena incarnate da un carcere come Bollate, sia aumentando le carceri con quelle caratteristiche sia rendendo meno selettivo il processo di ammissione in quelle carceri. C’è però una possibile obiezione a tale estensione: se la riduzione della recidiva derivasse da un meccanismo imitativo, dall’influenza benefica esercitata da compagni di carcere “migliori” (con una minore propensione intrinseca a recidivare), riducendo la selettività del processo di ammissione e comunque estendendo la quota di popolazione carceraria ammessa a quelle condizioni, potrebbe indebolirsi l’effetto positivo dei migliori (il cosiddetto peer effect).

Per capire se questo meccanismo è all’opera possiamo verificare se la recidiva degli sfollati è influenzata dalla presenza di altri sfollati nel periodo in cui si trovano a Bollate. Poiché gli sfollati non sono selezionati, possiamo usare la loro presenza a Bollate come misura della “qualità” dei peers: se il meccanismo sottostante la riduzione della recidiva fosse quello di peer effect, confrontando due detenuti che hanno passato lo stesso tempo a Bollate ma interagendo (nel carcere, nella sezione, nella cella) con un maggiore o minore numero di sfollati, rispettivamente, la riduzione della recidiva dovrebbe essere minore per il primo. Troviamo però che l’effetto sulla recidiva non è influenzato dalla maggiore o minore presenza di sfollati.

In conclusione: non è vero che, nel ridurre la recidiva, niente funzioni. Un’analisi rigorosa dell’esperienza di Bollate conferma che si può fare. Il meccanismo è ancora da chiarire: il lavoro all’esterno certamente facilita il reingresso nella società; ma il lavoro non si crea per legge. È interessante osservare che anche solo condizioni dignitose, in un contesto responsabilizzante e operoso, sembrano efficaci. E queste condizioni sono certamente realizzabili dalla politica carceraria.

[1] Ci possono essere delle limitate eccezioni all’ordine cronologico, di cui però teniamo conto. Per i dettagli rinvio al lavoro Rehabilitation and recidivism: Evidence from an open prison (G. Mastrobuoni-D. Terlizzese, 2014), in questa Rivista on line, www.questionegiustizia.it/doc/Rehabilitation_and_Recidivism_Evidence_from_an_Open_Prison_G_Mastrobuoni_D_Terlizzese_September_2014.pdf.

[2] Questa è la nostra definizione di recidiva; sul piano giuridico avremmo dovuto attendere una nuova sentenza definitiva, piuttosto che il semplice nuovo ingresso in carcere, ma sul piano operativo questo ci avrebbe costretto a tenere una finestra di osservazione dopo la prima scarcerazione troppo lunga.

[3] Il dato nazionale è una stima che corregge, sia pure grossolanamente, per i costi attribuibili all’amministrazione centrale, in modo da aumentare la confrontabilità del dato di Bollate, che esclude tali costi.