Introduzione.
Persone con disabilità: diritti e strumenti di tutela
1. Il rapporto tra disabilità e diritto è uno di quegli argomenti che appartengono strettamente a quella “questione giustizia” su cui la nostra Rivista per scopo e vocazione si interpella, ed interpella i propri lettori.
Intanto, perché il binomio evoca in termini di (drammatica) immediatezza il più generale tema della declinazione dell’uguaglianza e della ricerca della sua realizzazione, soprattutto laddove la condizione di partenza del soggetto è in sé un banco di prova per la verifica della tenuta del programma di cui al comma 2 dell’articolo 3 della Costituzione.
E poi, perché costringe tutti, e soprattutto gli operatori pratici del diritto, a mettersi a confronto con le proprie convinzioni, la propria visione del fenomeno, più in generale con l’idea che ognuno coltiva del modello di società che vuole contribuire a plasmare.
2. Il tema della disabilità va affrontato a partire dal piano del linguaggio e della consapevolezza della sua centralità: perché come ci insegna Paolo Heritier[1] nel suo bel saggio a cui affidiamo il compito di aprire questo obiettivo, la pretesa di cristallizzare in una immutabile definizione una “galassia di situazioni profondamente differenti tra loro” nasconde il pericolo di un sostanziale distacco dalla complessità del fenomeno e di una negazione del dovere stesso della ricerca di risposte differenti, mirate verso un unico scopo, quello della costruzione di una società che non lascia indietro nessuno.
Ed ha perfettamente ragione Benedetta Marziale[2] quando ci spiega in termini generali che il nome che si dà ai fenomeni attiene strettamente alla rappresentazione sociale che degli stessi si vuole dare: attribuire al disabile un deficit non significa altro che misurare la sua mancanza rispetto al modello di pienezza e di integrità, secondo una «visione “medicalizzata” dell’essere umano, tesa a curare e a conformare le diversità indesiderate». Rappresentarne invece l’handicap equivale piuttosto a mettere al centro dell’attenzione l’insieme degli impedimenti e dei limiti incontrati da ogni persona disabile nel partecipare alle attività sociali: ciò che è invece un fattore decisamente variabile, e che chiama in causa le responsabilità dell’attore pubblico per il concreto impegno nella rimozione di quei limiti, e per consentire la piena partecipazione del disabile alla vita della società.
3. Negli articoli che compongono questo obiettivo viene più volte citata, come pietra miliare di quel salto culturale che ha fatto del disabile invece di un malato da proteggere, un soggetto che merita rispetto per la sua dignità e piena accettazione[3], in quanto “parte della diversità umana e dell’umanità stessa” (articolo 3, comma 1, lettera “d”), una fonte internazionale: quella Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, firmata dall’Italia il 30 marzo 2007 e ratificata con legge 3 marzo 2009, n. 18, che secondo quanto scrive il prof. Tucci[4] nel suo contributo che pubblichiamo postumo, «rappresenta la prima grande iniziativa del XXI secolo in materia di diritti umani e si ispira non più alla sola idea della protezione del disabile dalle discriminazioni, di cui è stato vittima nei secoli, ma a quella della partecipazione del disabile alla vita sociale e dell’inclusione dello stesso in tutti i rapporti interindividuali come strumento di effettiva salvaguardia dell’equilibrio fisico e psichico dello stesso».
Notevoli le ricadute sugli istituti e soprattutto sul “metodo” (come scrive Giorgio Latti[5]) che la Convenzione Onu ed i suoi testi applicativi ispirano, basato su un accostamento unitario alla questione della disabilità a partire della sua considerazione del disabile come persona, a cui si oppone quello spesso adottato dalla giurisprudenza, e dall’amministrazione, in cui essa viene considerata frammentariamente, alla stregua di una tra le molteplici norme positive da applicare rispettando i vincoli della misurazione economica (e dunque implicitamente dimenticando la “questione di giustizia connessa alla posizione del disabile”).
4. Dunque, la costruzione di un “diritto della disabilità” che muova dall’approccio basato sulle capacità e dunque sulla universale dignità umana, non è solo frutto di una teoria morale fondata sui valori, ma, come insegnano gli studi di Marta Nussbaum, rappresenta una dottrina politica che concerne i diritti fondamentali. La Convenzione Onu si ispira a questa dottrina: potrà constatare il lettore attraversando i diversi contributi che compongono questo obiettivo come essa riesca a orientare e condizionare il legislatore nazionale ed in molti casi ormai la giurisprudenza, chiamata a fornire risposte alla domanda di giustizia (che mai come in questa materia per usare ancora un’espressione di Nussbaum, corrisponde con la “giustizia di base”, visto che i diritti dei disabili devono ritenersi impliciti nella vera e propria nozione di dignità umana e di vita umanamente dignitosa). In questo fascicolo – e proprio nella prospettiva di un concreto ragionamento su una giustizia di base – viene dedicata una particolare attenzione al diritto alla mobilità, poiché il diritto ad una vita autonoma passa anche – e talora soprattutto – attraverso la semplice possibilità di esercizio di un diritto alla autonomia nei movimenti nei luoghi pubblici e privati[6].
5. Non solo. Si deve alla fonte sovranazionale (nella specie, alle direttive europee) un altro fondamentale impulso all’affermazione dell’eguaglianza attraverso la lotta alle discriminazioni: quelle nei confronti del disabile entrano in ritardo a far parte del catalogo, e ancora più tardi vengono comprese nel raggio di azione del legislatore nazionale. Viene ricordato ancora nel saggio del prof. Tucci[7], e in quello di Olivia Bonardi[8], come il divieto di discriminazioni per disabilità in ambito europeo acquisisca piena forza giuridica con la direttiva 2000/78/Ce. Il divieto si completa con la previsione dell’obbligo per il datore di lavoro di adottare gli accomodamenti/soluzioni ragionevoli «per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione». L’obbligo specifico viene recepito nell’ordinamento italiano solo a seguito di condanna da parte Ue, dal momento che il testo originario del d.lgs n.216/2003 non vi faceva cenno. La giurisprudenza sta incominciando solo ora a prendere atto del potenziale ampliamento del sindacato nei confronti dell’agire dell’imprenditore che la previsione implica, e proprio la sentenza n. 6798/2018 oggetto di commento costituisce un esempio di quella presa di consapevolezza che pur sempre discende dalla soggezione solo alla legge in capo al giudice[9]. La disposizione legislativa oggi vigente individua un diverso punto di equilibrio nel bilanciamento tra il diritto al lavoro del disabile e quello dell’imprenditore alla libera gestione della propria attività: e l’importanza del passaggio merita di essere sottolineata, intanto perché ci si muove in quel solco sensibile e sottile che la nostra Costituzione lascia aperto tra il 1° ed il 2° comma dell’articolo 41; e poi perché il lavoro rappresenta un fattore potente di inclusione e di riconoscimento della dignità della persona, indipendentemente dalle sue disabilità.
6. Lo stesso sistema del collocamento obbligatorio, disciplinato dalla legge n.68/1999 (pur modificata nel 2012, con la legge n. 92 – cd. legge Fornero –, nel 2015 e nel 2016, con i decreti attuativi del Jobs act), se letto nel quadro normativo comunitario ed internazionale di cui si è detto, dovrebbe rappresentare un efficiente e concreto strumento di inserimento ed integrazione del disabile nel mondo del lavoro.
Nei fatti, esso risulta tuttora ancorato a limiti burocratici e subordinato alla richiesta comunque proveniente dal datore di lavoro, che rappresenta il presupposto di legittimità dell’atto di avviamento. Anche per quel che riguarda il cd. “collocamento mirato” di cui all’articolo 2 della legge n.68/1999, se l’obbiettivo è quello di porre in essere una serie di strumenti che consentano di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, va detto però che anche in questo caso tutto risulta subordinato all’adempimento datoriale. Non solo, quando poi l’avviamento sia stato disposto, è pur sempre facoltà del datore di lavoro rifiutare l’assunzione non solo di un lavoratore con una qualifica che risulti diversa in base all’atto di avviamento, ma anche di un lavoratore con qualifica “simile” a quella richiesta, in mancanza di un suo previo addestramento o tirocinio da svolgere secondo le modalità previste dall’articolo 12 della stessa legge n. 68. L’articolo 9 attribuisce al datore di lavoro la facoltà di indicare nella richiesta di avviamento la qualifica del lavoratore disabile da assumere a copertura dei posti riservati, in un sistema di cd. avviamento mirato. Indubbiamente la previsione risponde alla ratio di realizzare una collocazione della persona disabile nella organizzazione aziendale che sia utile all’impresa, e al contempo tale da valorizzarne la professionalità: ma è da rilevare come il sistema non implichi alcun obbligo di ragionevole adattamento dell’organizzazione suddetta alla particolarità del soggetto, alla sua specifica condizione, e dunque arrivi ad un bilanciamento dei contrapposti interessi secondo l’individuazione di un punto di equilibrio che non pare tenere conto dei principi dettati dalla normativa sovranazionale.
7. A partire da questo esempio, e poi via via nell’esame delle specifiche declinazioni di un diritto della disabilità[10] che appunto parta dalla consapevolezza della necessità di un cambio di prospettiva, che muova dalla valorizzazione della centralità della persona e dei suoi diritti, Questione giustizia ha voluto offrire ai suoi lettori l’esame di un ventaglio di tematiche che senza ambizioni di esaustività, offrono lo spaccato della ricchezza, in uno con la problematicità, del terreno su cui lo sforzo si deve compiere.
Avendo ben presente, anche in questo caso, che la realtà concreta, con i suoi drammatici bisogni e l’ineludibilità delle scelte che seguono alla negazione dei diritti, spesso resta fuori dalle aule di giustizia. Abbiamo pubblicato qualche mese fa sulla pagina dell’on line la lettera scritta da Loris Bertocco prima di suicidarsi, perché ci è sembrata, oltre che una testimonianza di profonda umanità, un documento politico che avrebbe dovuto innescare una riflessione collettiva non più rinviabile[11], che tra l’altro tirava in ballo anche l’inaccessibilità del rimedio giurisdizionale al venir meno dei sostegni di fronte alle prevalenti “ragioni di bilancio”[12]. Sotto la spinta emotiva di quel tragico evento, ci siamo riproposti di ritornare ad occuparci di un argomento così profondamente intriso del bisogno di ricerca di giustizia che sempre deve continuare ad animare la nostra attività di magistrati, e più in generale quella degli operatori di diritto. Questo obiettivo non vuole certo mettere un punto finale né al dovere di approfondimento, né ovviamente, all’impegno sul piano della ricerca dell’affermazione dell’eguaglianza ed all’attuazione dei diritti, soprattutto in favore dei più fragili.
[1] P. Heritier, Clinica legale della disabilità, terzietà e giustizia, in questo numero di questa Rivista trimestrale.
[2] B. Marziale, Sordità: una disabilità in diverse prospettive. La lingua dei segni come strumento di cittadinanza, in questo numero di questa Rivista trimestrale.
[3] È testimonianza di questa necessità di piena considerazione della dignità della persona disabile il saggio di M. Riverditi, Disabilità e diritto penale, in questo numero di questa Rivista trimestrale, che esclude – con riferimento all’ambito penale – l’indispensabilità di una predisposizione di uno specifico apparato di tutela penalistica delle persone disabili; in altri termini: non è necessario creare un diritto speciale di protezione delle persone disabili; talora – osserva Riverditi – è sufficiente un consapevole impiego delle fattispecie previste dalla legislazione ordinaria.
[4] Giuseppe Tucci, professore emerito dell’Università Aldo Moro di Bari, docente di istituzioni di diritto privato, già autore di scritti pubblicati su questa Rivista è deceduto l’8 settembre 2018. La sua ultima collaborazione, pubblicata su Questione Giustizia on line, testimonia la sua grande attenzione al tema generale dei diritti della persona, e soprattutto dei più fragili, Nuove schiavitù e mercato globale, 21 luglio 2015, www.questionegiustizia.it/articolo/nuove-schiavitu-e-mercato-globale_21-07-2015.php.
[5] G. Latti, Il Progetto personalizzato tra autodeterminazione ed esigenze di protezione, in questo numero di questa Rivista trimestrale.
[6] Se ne occupano, in questo numero di questa Rivista trimestrale, V. Amato, L’eliminazione delle barriere architettoniche, ambientali e sociali all’integrazione delle persone. Elementi per un approfondimento e considerazioni minime e C. Braga, Una normativa quadro costituzionalmente orientata per il superamento delle barriere architettoniche.
[7] G. Tucci, La partecipazione del disabile alla vita sociale, in questo numero di questa Rivista trimestrale.
[8] O. Bonardi, L’inidoneità sopravvenuta al lavoro e l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli in una innovativa decisione della Cassazione, in questo numero di questa Rivista trimestrale.
[9] In una più recente sentenza (n. 27243/2018) la Suprema corte sembra però volere ritornare dentro i confini più tradizionali del controllo esterno rispetto alla possibilità di riallocazione del lavoratore diventato disabile in corso di rapporto.
[10] Non solo la disabilità fisica, ma anche quella psichica, come ci ricorda il saggio pubblicato in questo numero di questa Rivista trimestrale di S. Celentano, L’amministrazione di sostegno tra personalismo, solidarismo e sussidiarietà ed il ruolo del Giudice della Persona. Sullo stesso tema, a seguire, P. Cendon, con la collaborazione di R. Rossi, Questioni attuali in tema di amministrazione di sostegno.
[11] Loris Bertocco. Suicidio assistito o condanna a morire?, in questa Rivista on line, 14 ottobre 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/loris-bertocco_suicidio-assistito-o-candanna-a-morire__14-10-2017.php.
[12] Se ne occupa, in questo numero di questa Rivista trimestrale, G. Tulumello, L’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei disabili nello Stato sociale, fra vincoli di bilancio ed amministrazione di risultato.