Giustizia tributaria: luci, ombre e prospettive di una giurisdizione fondamentale
La giurisdizione tributaria è una giurisdizione cardine dello Stato di diritto, massimamente nei periodi di difficoltà economica, perché essenziale alla tutela dei diritti fondamentali, sia di chi fruisce dei servizi pubblici, sia di chi è chiamato ai doveri di solidarietà.
Allo stato attuale della evoluzione economica e giuridica, la giurisdizione tributaria è e deve essere una giurisdizione di controllo dell’esercizio del potere amministrativo di applicazione dei tributi.
Il giudice tributario deve essere indipendente e portatore di una cultura speciale della giurisdizione, che non coincide né è assimilabile né a quella del giurista generalista, né a quella del giudice civile, amministrativo, o del cultore dell’economia aziendale o della contabilità di Stato.
L’attuale assetto della giustizia tributaria poggia sulla meritoria dedizione dei giudici che vi sono addetti, ma necessita di una profonda revisione che ne renda strutturalmente presidiate competenza e indipendenza.
Il risultato di un giudice tributario competente e indipendente, che contribuisca a recuperare certezza del diritto tributario (e disincentivi il contenzioso) può essere raggiunto indifferentemente con la attribuzione della funzione a un giudice speciale o a un giudice comunque specializzato inquadrato in un’altra giurisdizione esistente, ma a prezzo di un ingente investimento culturale, più che economico.
Il risultato può essere raggiunto attraverso adeguati e ponderati regimi transitori, che valorizzino le professionalità esistenti, anche in raccordo con le recenti riforme della giustizia onoraria.
1. Una premessa di metodo
Il diritto tributario e le correlate strutture ordinamentali non sono oggetto di attenzione nella formazione tradizionale del giurista e, sul versante pratico, esse sono più frequentate da altri profili, sia culturali che professionali.
Una trattazione, necessariamente giuridica, dei temi processuali e ordinamentali, non può allora prescindere da alcune indefettibili premesse, tutt’altro che scontate, volte a inquadrare la trama su cui dovrà innestarsi l’ordito della riflessione.
Il presente lavoro sarà allora scandito in tre movimenti:
1) perché è importante occuparsi della giustizia tributaria e come essa deve essere in rapporto a cosa fa;
2) come è, oggi, la giustizia tributaria;
3) quali potrebbero essere le linee di intervento su di essa: cosa fare.
2. La centralità del diritto finanziario e della giustizia tributaria per la tutela dei diritti fondamentali
La prima premessa concerne l’individuazione delle ragioni per cui la giustizia tributaria è funzione giuridisdizionale strategica e deve uscire dal cono d’ombra nel quale si trova.
Sarebbe facile, adeguandosi alla logica “contabile” che impera in Italia, in Europa e nel mondo oggi, enfatizzare la circostanza, peraltro innegabile, che oggetto delle cause tributarie sono “tanti soldi”[1].
Ma è una impostazione che ripudiamo, almeno nella sua arida assolutezza, convinti che “più valori e meno valuta” sia uno degli slogan che dovrebbe orientare il timone, del giurista (e non solo), sempre, e particolarmente nelle tempeste di questa contingenza storica.
La funzione tributaria è una funzione cardinale non solo, né principalmente, sotto il profilo economico e monetario, ma sotto il profilo della civiltà giuridica e della stessa consistenza e sopravvivenza dello Stato di diritto.
Non è solo vero oggi, come lo è stato sempre, che il diritto tributario è il primo e fondamentale volto dello Stato in cui ognuno si imbatte (si può vivere senza interagire con il diritto penale, si può vivere senza quasi avvertirsi del diritto amministrativo, ma come diceva B. Franklin, delle due cose certe della vita, una è la morte, l’altra le tasse).
È anche, e tragicamente vero in tempi di particolari ristrettezze economiche, che il diritto finanziario è il baricentro dei diritti fondamentali di una collettività statuale. In tempi di contrazione della ricchezza o di aggravamento della disuguaglianza della sua distribuzione, il diritto finanziario è il garante materiale dei diritti fondamentali, e addirittura sotto un duplice profilo.
Intanto perché, senza una spesa pubblica (efficiente e giusta) sono a rischio i diritti fondamentali: i servizi essenziali di tutela della dignità umana costano e il tributo (in attesa di individuare uno strumento alternativo) è ciò che li finanzia. E, poi, perché, in tempi di ristrettezze economiche e di prevalenza di logiche burocratico-contabili, è alto il rischio di privilegiare un malinteso concetto di efficienza, intesa patologicamente come gettito a basso costo (a carico delle categorie economiche deboli, in ogni accezione in cui può declinarsi tale debolezza), con lesione di giustizia e proporzionalità.
Un po’ sorprendentemente, allora, il diritto finanziario è il diritto dei diritti fondamentali, perché li tutela tutti. Sia perché senza non c’è tutela dei diritti fondamentali (ma solo vuote grida manzoniane che declinano, canzonatoriamente, diritti irrealizzabili), sia perché se la finanza prevale sul diritto, i diritti fondamentali sono conculcati anche dal lato di chi subisce il prelievo.
L’evasione fiscale attenta ai diritti fondamentali tanto quanto un diritto tributario ingiusto: la prima sottrae grano nei granai, il secondo impedisce alle spighe di maturare.
Come in ogni organismo, vivente e giuridico, il sistema deve avere i suoi anticorpi contro le patologie, e l’organismo di controllo, sia pure ultimo, non può che essere una giurisdizione tributaria forte e adeguata.
3. La centralità del problema dell’ordinamento della giustizia tributaria e la scarsa rilevanza del rito
La seconda premessa su cui occorre brevemente soffermarsi concerne la preminente importanza dell’assetto della giustizia tributaria, rispetto alla disciplina del processo.
In effetti, il rito tributario non sembra presentare criticità di particolare rilievo. Ciò pare risultare confermato da due circostanze. La prima è che né la dottrina, né la prassi tributaria denunciano una inadeguatezza complessiva delle regole del gioco. Ci sono sicuramente alcuni aspetti che potrebbero essere meglio regolati (un più chiaro sistema di preclusioni, alcuni più decisi adeguamenti allo standard del giusto processo, in particolare tenendo conto del contenuto anche sanzionatorio di quasi tutti i processi, nell’ottica della Cedu, ecc.), ma è diffusa opinione che il problema non sia (tanto) nella disciplina processuale.
Del resto, anche a voler indulgere all’idea, che condividiamo solo in piccola misura, che un indicatore della qualità del rito sia la sua velocità, il test appare non significativo nella materia tributaria. È un tipo di test che idealmente convince poco, poiché, consapevoli di esprimere un pensiero contrario alla ideologia dominante, è l’ennesima spia di un eccessivo prevalere del dato quantitativo si quello qualitativo (altrove il tanto su il giusto, qui il presto sul come).
Sia come sia di tali considerazioni, il test di velocità è forse non favorevole alla giustizia tributaria, ma certo non appare sfavorevole al suo rito: si registra una grande variabilità nella durata media dei procedimenti[2]. Che ci siano commissioni tributarie molto veloci, medie o lente (tra l’altro alcune delle più veloci in zone sicuramente assai ricche di contenzioso e di contenzioso di elevatissimo valore e complessità), a parità di rito, sembra suggerire che non dal rito dipende la variabile della velocità.
4. Alcuni spunti eterodossi ritraibili dalle statistiche sul processo tributario in Cassazione: un problema di rito, di ordinamento o di diritto sostanziale?
Paradossalmente, rispetto alla ipotesi di partenza, anzi, il collo di bottiglia, come è notorio, si manifesta nel grado di legittimità, dove i processi tributari rappresentano un impressionante 32,7% della pendenza totale, con tendenza in aumento[3] e ove il rito tributario non è applicabile.
Escluso che i tempi processuali di merito siano spia di anomalie da correggere nel rito processuale, ci si potrebbe interrogare se un indizio di anomalie della disciplina del processo tributario di merito possa essere trovato nella consistenza della pendenza in Cassazione, secondo l’ipotesi di lavoro sintetizzata nell’interrogativo: ci sono troppi processi di legittimità a causa di deficienze della legge processuale dei gradi di merito?
Intanto, un dato pare rilevante: vengono impugnate per cassazione, sia dalla parte pubblica che dalla parte privata, più di 1 sentenza su 5 (il dato è comparabile: 22,3% è il tasso di impugnazione della parte pubblica, 22,1% quello della parte privata)[4]. Ignoriamo se il dato sia o meno anomalo rispetto al tasso di ricorsi nelle altre materie, e se, quindi, si possa dire che ci sono troppi ricorsi tributari perché si impugna più del normale. Un altro dato, però, è disponibile ed è estremamente interessante, anche perché indirettamente risponde almeno in parte alla domanda che ci siamo appena posti: la Sezione tributaria della Cassazione e la sottosezione tributaria della Sesta sezione accolgono più ricorsi di quelli che ne respingono (e dichiarano inammissibili)[5] e sono le uniche sezioni in cui ciò avviene. Ne sembra risultare un altro dato: il numero dei processi davanti alla Suprema corte non sembrerebbe dipendere da un eccesso di impugnazioni, cioè da una patologia dell’accesso alla Corte: se vi fosse un abuso del ricorso in cassazione non vi dovrebbe, a rigore, essere una prevalenza degli accoglimenti. Ne risulta una prima – apparente – conclusione: la soluzione ottimale non dovrebbe essere - non in prima battuta, almeno - restringere l’accesso alla Corte (peraltro già ridotto in modo che pare bilanciato con la ultima formulazione del n. 5 dell’art. 360 cpc), perché ciò potrebbe costituire, allo stato, un pericolo di diniego di giustizia.
È appena il caso di rilevare, in aggiunta, che il ricorso abusivo al processo di cassazione è ulteriormente scoraggiato da due ulteriori fattori. Il primo è il costo, tutt’altro che trascurabile, dell’accesso alla giustizia, in base alle ultime riforme (si pensi al valore del contributo unificato e alla regola del suo raddoppio in caso di rigetto totale del ricorso, ritenuti applicabili al processo tributario di legittimità) e il secondo è il fatto che tale accesso, a differenza di quanto accade in altri settori, ad esempio quello penale, mal si presta a finalità dilatorie, atteso che la sua presentazione non comporta effetti di automatica sospensione della esecuzione dei crediti tributari.
Il problema si trova, evidentemente, principalmente a monte della Suprema corte.
Se la anomalia statistica fosse solo nel numero di procedimenti, l’interrogativo sarebbe soltanto se nel diritto tributario si processi troppo (e si tradurrebbe nella alternativa tra l’ipotesi se siano troppi i processi, in assoluto, oppure troppi in rapporto alle risorse della Suprema corte, perché troppo pochi i giudici della Sezione tributaria della Corte, o, più credibilmente, in quale proporzione vadano distribuite le due concause).
Sembra, però, esservi anche un ulteriore dato, che emerge dal tasso di accoglimenti sopra citato, e, cioè, che nel tributario sembrerebbe, prima di stabilire se si processa troppo, anche giudicarsi talvolta meno bene che in altri settori.
Le cause possibili, se questo è il fenomeno, sembrano doversi cercare, nell’ambito delle cause giuridiche, in una delle tre seguenti direzioni: il diritto processuale, il diritto sostanziale, e l’ordinamento giudiziario.
Per quanto le regole di svolgimento del processo possano indubbiamente incidere sulla qualità del suo esito, non sembrano essere individuabili fattori patologici al riguardo nella giustizia tributaria: il processo tributario è il giudizio sulla legittimità e fondatezza di una pretesa veicolata in un atto autoritativo, che si svolge essenzialmente su fonti scritte: i temi processuali sono, per definizione, secondari, in un tale contesto, anche se certamente esistono profili emendabili. Ne costituisce indiretta conferma, meramente indiziaria ma significativa, il fatto che le ipotesi di riforma che vengono avanzate per il rito tributario sono, tendenzialmente, nell’ottica della deformalizzazione ulteriore o semplificazione (abolizione dell’appello e sostituzione con un reclamo, riduzione delle ipotesi di collegialità, e simili). Ma la deformalizzazione o la riduzione di collegialità non sembrano, per vero, rafforzare la qualità del contenuto della decisione (evidentemente, sono interventi neutrali o, al limite, rischiano di ridurla), con la logica conseguenza che l’assunto di fondo è che la qualità delle decisioni non dipenda dal rito processuale.
Restano le altre due ipotesi di lavoro.
5. La lunga crisi del diritto tributario sostanziale
Non vi è, invero, alcun dubbio circa il fatto che la qualità tecnica del diritto finanziario sia gravemente deficitaria e che questa sia la causa prima e fondamentale del problema, anzi di un problema che nella sede processuale mostra solo la piccola punta di un iceberg assai più grande (che è la inadeguatezza di non pochi profili del sistema tributario italiano rispetto alle sfide della attualità, che comporta una nuova idea di economia ma una sempre uguale esigenza di giustizia).
Ciò dipende da molti fattori, uno dei meno trascurabili dei quali è la decisa prevalenza di un ragionare e progettare regole sulla spinta emergenziale, vera o presunta, della sola contingenza economica. Un doppio errore, sia perché implica una costante rinuncia al ragionamento di sistema, sia perché comporta l’altrettanto costante appiattimento del diritto sulla contingenza economica, invece che la necessaria dialettica. Circostanza ben rappresentata, anche dal punto di vista ordinamentale, atteso che si è passati da un Dicastero della economia, incaricato della politica economica e un separato – ma dialetticamente coordinato – Dicastero delle finanze, preposto al ponderato e proporzionato reperimento delle risorse, a un Dicastero unico, nel quale il reperimento delle risorse costituisce solo l’esecuzione, eterodeterminata e necessitata, di decisioni sulla spesa, molto spesso anche esse vincolate ab externo.
Non è difficile ipotizzare che non pochi dei difetti degli odierni assetti economici (e probabilmente anche la stessa crisi economica, che è certamente collegata a modelli econometrici risultati errati), prima ancora che della pessima qualità del diritto tributario odierno derivino dall’eclisse della cultura giuridica finanziaria.
L’incertezza (di tutti gli utenti del diritto tributario, cioè di tutti, visto che tutti pagano tasse e consumano pubblici servizi) è poi moltiplicata dalla circostanza che un dato normativo soggetto a continuo mutamento e di pessima qualità quale quello descritto finisce per concentrare le risorse degli operatori (contribuenti, funzionari, giudici) su questioni esegetiche e formali, sempre nuove, e sempre opinabili e per distogliere l’attenzione dalla giusta e preminente attenzione sui temi di fatto (investigativi e istruttori). Ne risulta un diritto tributario applicato capzioso, formale, labirintico, con un netto prevalere di contestazioni meramente interpretative e correlata debolezza e incertezza dei profili probatori. Provvedimenti che applicano norme mutevoli ed oscure, che assorbono risorse rispetto all’istruttoria sono intrinsecamente tali da incentivare il contenzioso, sia perché aventi ad oggetto questioni per definizione opinabili, sia perché spesso deboli sul piano fattuale.
Un diritto con queste caratteristiche è un diritto incerto che, patologicamente, rinvia alla fase processuale la ricerca di un – impossibile – punto di stabilità. La prima patologia si registra già nell’accesso alla giustizia: nella fisiologia l’attuazione del tributo dovrebbe esaurirsi nella fase dell’adempimento spontaneo o amministrativa. Degli atti emessi dalle Agenzie fiscali 1 su 11 circa viene impugnato davanti al giudice [6].
A tale primo fattore di moltiplicazione del contenzioso se ne aggiunge un secondo, che lo eleva al quadrato (se non al cubo), ed è la conseguente, necessitata, mutevolezza caleidoscopica della giurisprudenza, costretta ad affaticarsi sulla contingente esegesi di una normativa pessima, senza alcuna possibilità di percepire la cornice di sistema: una legge proteiforme e incerta allontana dal ragionamento di sistema, moltiplica i giudizi e, quando l’esito del giudizio è incerto, la propensione al giudizio aumenta al quadrato, in un pernicioso circuito vizioso. Tale patologia purtroppo rende anche eccezionalmente difficoltosa la funzione di nomofilachia della Suprema corte, con ulteriore effetto di feedback negativo sulla proliferazione del contenzioso.
Se gli orizzonti del credito e del debito sono incerti, conviene ad entrambe le parti tentare la via contenziosa.
6. Quale giudice tributario, allora? New economy, funzione amministrativa e oggetto del processo
Per restare nel campo di interesse della presente riflessione, che non concerne temi di diritto sostanziale ed è limitato alla giustizia tributaria di merito, possiamo ora interrogarci quale giudice occorra per far fronte a tale realtà.
In proposito, non si può sottacere che, nell’ultimo secolo, approssimativamente, si è verificata una evoluzione epocale: essa ha riguardato la realtà economica, prima, e, al seguito, la funzione amministrativa tributaria. A tale evoluzione tiene dietro, la funzione giuridizionale.
Schematizzando, per ragioni di sintesi, in economia si è partiti dalla struttura economica tradizionale, incentrata, per larga parte, sulla ricchezza fondiaria e attività individuali o comunque poco organizzate sul piano amministrativo (la coltivazione dei terreni, le attività artigiane, le attività commerciali a struttura semplice e le prime realtà industriali).
Rispetto ad esse, l’applicazione del tributo avveniva essenzialmente nella forma di una stima esteriore. I tributi non venivano autoliquidati, ma determinati dall’ente impositore, stimando la ricchezza prodotta.
Il progresso tecnonologico ha stravolto la struttura della economia, creandosi strutture complesse (industrie, grande distribuzione), relazioni complesse (datori di lavoro con migliaia di salariati e fornitori) e consolidando anche le strutture organizzative interne (uffici amministrativi e contabili) delle realtà produttive (che sono forme di tracciamento interno della ricchezza), affiancando ad esse anche innovazioni tecnologiche idonee a tracciare la ricchezza (basti pensare ai dati dei conti correnti bancari).
Diviene possibile quantomeno ipotizzare non più di stimare la ricchezza, ma fotografarla con esattezza: è possibile farlo per il lavoratore dipendente o autonomo che subisca la ritenuta d’acconto, per la struttura molto organizzata che è costretta a tenere una contabilità, ecc.
Diviene possibile passare da una funzione amministrativa di stima a una funzione amministrativa di controllo (della ricchezza contabilizzata e dichiarata direttamente dal contribuente).
Da una funzione amministrativa il cui compito precipuo è valutare si passa a una funzione amministrativa il cui compito precipuo è controllare. Nasce una Agenzia delle Entrate come, doveroso, organo di indagine, cui via via sono, opportunamente, attribuiti sempre maggiori poteri. Attualmente, la funzione di accertamento riassume in sé, nella fase preparatoria, molte caratteristiche della funzione di un Pubblico ministero, privo in pratica, soltanto del potere di fare richieste limitative della libertà personale o di captazione di comunicazioni riservate.
A tale evoluzione corrisponde, anche se non sempre avvertita, la evoluzione della figura del giudice.
Nell’era delle stime, le Commissioni tributarie erano organi amministrativi, cui ci si rivolgeva per rivedere o completare l’operazione di valutazione. L’intervento del giudice, ordinario, era solo a valle e diverso: al giudice erano precluse proprio le questioni di semplice estimazione.
Ma nella transizione al nuovo sistema, con il trasformarsi della funzione amministrativa in un potere di controllo, emanazione di provvedimenti amministrativi (dal 2011 anche direttamente esecutivi), la giurisdizione ha dovuto effettuare, quale pianeta gemello, un movimento di rivoluzione esattamente simmetrico.
Tralasciando i passaggi intermedi, è divenuto patrimonio comune della giurisprudenza della Suprema corte la massima secondo cui la funzione della giurisdizione tributaria è il controllo sul corretto esercizio del potere tributario. L’attuazione dell’art. 53 della Costituzione e dei doveri di solidarietà è affidato, in prima battuta alla Pubblica amministrazione, con la attribuzione di rilevanti poteri, istruttori e provvedimentali e la giurisdizione tributaria è una sovrana giurisdizione di controllo sull’esercizio di tali poteri. In essa si valuta sia la legittimità che il merito, sia la conformità della serie procedimentale e provvedimentale alla legge, sia la fondatezza della pretesa, ma alla luce dell’esercizio amministrativo del potere. Così, insegna la Suprema corte: l’oggetto del processo è l’accertamento della legittimità della pretesa in quanto avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in tale atto indicati[7]: sia nelle impugnazioni degli avvisi di accertamento che dei dinieghi di rimborso la posizione della Amministrazione è quella, non modificabile né integrabile (se non attraverso il ritiro dell’atto e la sua sostituzione in autotutela), espressa nel provvedimento impugnato[8].
Il giudice tributario è il garante e guardiano del corretto esercizio della funzione tributaria.
È appena il caso di notare che tale assetto, oltre che determinato da (e coerente con) l’evoluzione dell’ordinamento, ha anche un valore prezioso in termini sistematici.
Solo una giurisdizione di controllo è in grado di assicurare un corretto e adeguato esercizio della funzione amministrativa: ove il giudice tributario regredisse alla antica funzione delle Commissioni tributarie (completare la determinazione del tributo) non solo mortificherebbe l’evoluzione storica, non solo regredirebbe alla antica funzione amministrativa, di evidente dubbia compatibilità con l’assetto giurisdizionale del giusto processo (che richiede un giudice indipendente e imparziale e non un giudice che completi la funzione amministrativa di una delle parti in giudizio), ma abdicherebbe anche al ruolo di guardiano della Amministrazione, con evidente lesione, indiretta, del principio di imparzialità e buon andamento. Se un provvedimento amministrativo tributario illegittimo o infondato potesse essere salvato perché integrato in giudizio, la funzione amministrativa potrebbe continuare a essere esercitata in forma patologica, grazie al paracadute giudiziario: un siffatto giudice sarebbe inadeguato all’evoluzione del sistema giuridico, inadeguato rispetto al modello del giusto processo e inadeguato alla sua funzione di propulsione verso una sana ed efficiente amministrazione.
7. Quale giudice tributario? La “tecnicalità” necessaria: una cultura speciale della giurisdizione
Definito l’oggetto del processo, resta da definire la materia giuridica, resta cioè da individuare quale sia lo strumentario giuridico che il giudice tributario deve maneggiare.
Al riguardo va detto che, al netto di tutte le incertezze dottrinarie e teoriche, è pacifico che il giudizio tributario ha ad oggetto una obbligazione accertata in esito a un complesso esercizio di poteri autoritativi, inquadrati in una articolata serie procedimentale.
La materia non coincide e non è neppure assimilabile sostanzialmente, allora e innanzitutto né alla materia civilistica, né a quella amministrativistica, né alla contabilità di Stato.
Da un lato, non si tratta di relazione tra soggetti in posizione paritaria (ma vi è un creditore procedente in via amministrativa) e la logica che preesiste e regola l’obbligazione non è quella negoziale e sinallagmatica, ma quella della misurazione della ricchezza, nelle sue svariate forme. Orientarsi nella obbligazione tributaria richiede un articolato complesso di conoscenze che sono completamente estranee alla formazione sia del giurista generalista, sia del civilista, sia dell’amministrativista, sia del cultore della contabilità di Stato. Definire e misurare e gestire l’obbligazione tributaria implica conoscere i fondamenti della economia aziendale, orientarsi con sicurezza nei temi correlati alle tecniche contabili e valutazioni di bilancio, e cogliere una dogmatica estranea alle altre materie (è necessaria la sicura percezione di simmetrie concettuali che non vi sono in nessun altro campo, si pensi alla sempre fraintesa simmetria costi-ricavi, al principio della continuità dei valori, la neutralità delle operazioni societarie e via enumerando).
Né, venendo al confronto con la materia amministrativistica e volgendosi agli aspetti autoritativi della materia, essa coincide o è assimilabile al diritto amministrativo generale: non si tratta della determinazione discrezionale degli strumenti di raggiungimento degli interessi pubblici, come nel diritto amministrativo generale. La misurazione della ricchezza richiede competenze specialistiche raffinate, sia nei territori della economia aziendale e affini e, sul piano procedimentale, i poteri e l’istruttoria presentano delle assolute peculiarità, proprie di un procedimento volto all’accertamento, sempre indiziario, di un oggetto economico, preesistente e oggetto di un sapere specialistico.
La prima indicazione che ne scaturisce è che per la decisione delle controversie tributarie occorre, allora, una cultura speciale della giurisdizione, che non si esaurisce, a ben vedere, nella cultura giuridica generalista, propria della giurisdizione ordinaria, e nemmeno si può esaurire nel completo e specialistico dominio delle materie amministrative (o della contabilità di Stato), ma non coincide neppure con il solo dominio delle discipline economiche e aziendalistiche, atteso che richiede il sicuro dominio dei temi procedimentali e processuali applicati a materie commerciali e all’impresa: il giudice tributario già è, nei fatti, un tribunale amministrativo dei tributi, chiamato a verificare il corretto esercizio dei poteri della Pa deputata a controllare il corretto adempimento dei doveri di solidarietà fiscale. Testimonianza indiretta e storica di tale fondamentale assetto della giurisdizione tributaria, oltre agli approdi più recenti e avvertiti della giurisprudenza in ordine all’oggetto del processo tributario, è la partecipazione ad essi, finora, di “cittadini estranei alla magistratura” (i cd. componenti laici), la cui presenza a integrare gli organi si raccorda con l’art. 102, comma 2 Costituzione. La presenza di esperti nelle materie aziendalistiche ed economiche negli organi della giurisdizione tributaria è quindi, storicamente e costituzionalmente, null’altro che il riconoscimento della preziosa, indefettibile e speciale cultura della giurisdizione richiesta all’organo giudiziario chiamato a decidere liti dal contenuto specialistico elevato e uno dei modi per cercare di attuare tale speciale cultura.
8. Quale giudice tributario? Un giudice con competenza specialistica e indipendente
Decisamente più semplice, perché sostanzialmente intuitivo ma, come si vedrà oltre, tutt’altro che banale, è il secondo requisito, pienamente ordinamentale.
Prima ancora che in forza dell’art. 111 Cost., in ossequio alla consustanzialità della nozione di giudice, il giudice tributario deve essereterzo e imparziale.
Poiché esso è il giudice chiamato a controllare il corretto esercizio, da parte della Autorità, dei poteri di controllo sull’adempimento degli obblighi di solidarietà dei contribuenti, egli deve essere pienamente indipendente dalle due parti.
Ne consegue, in particolare, che la giurisdizione tributaria deve essere, oltre che specializzata (nel senso di affidata a giudici sicuri portatori delle cultura speciale della giurisdizione sopra descritta) anche pienamente indipendente.
9. L’attuale assetto della giustizia tributaria. Il test di specializzazione, tra slogan ed equivoci
Poste queste necessarie premesse, è possibile sottoporre, prima, l’attuale assetto della giustizia tributaria a un check up e, poi, formulare qualche ipotesi in prospettiva.
In primo luogo, si può analizzare il profilo della specializzazione.
Dalle premesse poste sopra, nel capoverso 8 che precede, emerge che tale specializzazione rileva nel senso di competenza tecnica, e cioè culturale: ciò che occorre è – banalmente – che il giudice conosca con sicurezza la materia su cui è chiamato ad operare. Poiché tale materia non coincide con la preparazione generale del giurista, né con la speciale preparazione civilistica, o amministrativa (e neanche con quella aziendalistica o della contabilità di Stato), occorre un sapere specialistico.
Soddisfa tale standard l’attuale assetto della giurisdizione tributaria?
Se l’analisi potesse – o dovesse – limitarsi al dato esteriore e ordinamentale la risposta sarebbe positiva. Attualmente il giudice tributario è, infatti, un giudice speciale, nelle fasi di merito.
Passando dall’astratto al concreto (cioè, dalla specialità del giudice alla sua necessaria cultura specialistica), due profili debbono essere scrutinati: se l’accesso a tale giurisdizione e le verifiche di professionalità durante lo svolgimento della attività siano idonee a garantire tale speciale competenza.
Per quanto attiene all’accesso alla giurisdizione, i titoli di ammissione sono dislocati su un’area alquanto vasta[9]. Più che la vastità della previsione e pur tenuto anche conto dei criteri più selettivi di individuazione dei presidenti di sezione, art. 3 d.lgs n. 545/1992, qualche ragione di perplessità indubbiamente esiste, perché di tale elencazione colpisce una connessione piuttosto labile con la materia tributaria, che in molte categorie è, sostanzialmente, assente. Perplessità che è destinata ad aumentare sol che si consideri che il sistema dei punteggi di cui alla tabella E allegata al testo legislativo in esame non differenzia adeguatamente, favorendole nettamente, le esperienze professionali che concernano il diritto tributario: un professore ordinario di diritto tributario, che sia in ruolo da poco, ma dopo decenni di studio della materia (il soggetto che ha il massimo titolo formale scientifico di competenza in materia tributaria e, verosimilmente, una competenza sostanziale elevata) può essere agevolmente sopravanzato da un pur ottimo impiegato generico, privo di qualsivoglia esperienza specialistica, ma con una certa anzianità.
L’originario disegno del legislatore puntava, probabilmente, a garantire la specializzazione avendo in mente un modello di collegio misto, ove a un presidente di solida formazione giuridica generalista si affiancassero professionalità diverse e più specificamente attinenti alla materia. Una sorta di pregevole melting pot giuridico, non privo di saggezza. Tale modello, però, alla prova pratica, rischia di aver colto solo molto parzialmente l’obiettivo. Intanto, per la assenza di regole cogenti sulla composizione dei collegi, che sarebbero del tutto opportune, ma sarebbero praticamente inattuabili in un contesto di contrazione delle risorse personali (i cd. laici sono ormai una ridotta minoranza). Il modello è, inoltre, messo in gravissima crisi, frankly speaking, dalla ormai diffusa crisi del modello del giudice collegiale e dal fatto, ancora più rilevante, ma spesso pietosamente sottaciuto, che, per necessità indotta e cogente causata dalla pressione dell’arretrato, anche laddove resiste il modello del giudice collegiale, si è notevolmente, non ostante l’eroica laboriosità del corpo giudicante, impoverita, fino, in qualche caso, a divenire labilissima, per causa di forza maggiore, la dialettica della Camera di consiglio. In un tale contesto, se la cultura speciale della giurisdizione poteva nascere dalla contaminazione dei diversi saperi in Camera di consiglio, può ritenersi che il modello mostra evidenti elementi di debolezza.
Essi paiono aggravarsi ulteriormente ove ci si sposti al profilo dell’aggiornamento professionale. Pur essendo indubbio che la pratica professionale costituisce una buona fonte di (auto)formazione, qualche ragione di perplessità resta. Intanto, perché essa si innesta su una selezione che non privilegia in modo adeguato la preparazione specialistica di base. Poi, perché, l’attività di giudice tributario non è esclusiva, essendo svolta, per la stragrande maggioranza dei casi, quale secondo lavoro, sia dagli appartenenti all’ordine giudiziario, sia dagli appartenenti agli ordini professionali o impieghi pubblici. E, ancora, in un contesto nel quale l’attività giurisdizionale è talmente mal retribuita da assumere le caratteristiche sostanziali di una attività quasi volontaria (per la quale le molte isole di eccellenza professionale di quella giurisdizione meritano il massimo plauso, trattandosi di attività di alta qualità svolta, essenzialmente, per sola passione e spirito di servizio), è difficilmente esigibile, in pratica, una formazione professionale obbligatoria. La soluzione, ragionevole, nel contesto, adottata è stata quella di valorizzare la partecipazione all’aggiornamento professionale come fonte di punteggio premiale in sede concorsuale. Ne consegue che anche la partecipazione all’aggiornamento professionale, assicurato dalle preziose iniziative del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, è più frutto della meritoria propensione individuale, che garantisce anche molte situazioni di eccellenza, ma non un dato ordinamentale e strutturale diffuso, come sarebbe opportuno.
Ne consegue che il test di specializzazione dà un risultato in chiaroscuro e sommamente diseguale, certamente bisognoso di emenda.
10. L’attuale assetto della giustizia tributaria. Il test di indipendenza
Risultati nettamente insoddisfacenti dà, invece, il test di indipendenza, con particolare riguardo al profilo della apparenza di indipendenza[10].
Qui sono molteplici i profili di tensione con i principi.
La lesione del principio del giusto processo, e in particolare del canone di apparente indipendenza e terzietà del giudice tributario, sembra infatti evidenziabile sotto i seguenti aspetti:
a) la mancanza d’indipendenza almeno apparente della magistratura tributaria rispetto al potere esecutivo quanto all'inquadramento ordinamentale dei giudici;
b) l’assenza di gerarchia (almeno) funzionale dei magistrati tributari rispetto al personale ausiliario, ossia l'indisponibilità effettiva da parte dei giudici del personale amministrativo e il deficit di indipendenza di esso;
c) l’assenza (di almeno un nucleo) di autonomia contabile della magistratura tributaria, ossia l'assenza di autonoma gestione dei mezzi finanziari e la apparente dipendenza finanziaria;
d) l’inadeguatezza del sistema di retribuzione dei magistrati tributari.
11. (segue) l’inquadramento ordinamentale della giustizia tributaria
Per quanto sub a) (l'inquadramento ordinamentale dei giudici e del personale di segreteria delle Commissioni tributarie), la Direzione della giustizia tributaria (organo che sovrintende l'operato delle Commissioni) è inquadrata nel Dipartimento delle finanze, rientrante nel Ministero dell'economia; ciò parimenti alla Direzione agenzie ed enti della fiscalità, la quale in sintesi, coordina e monitora l'attività delle Agenzie delle entrate e cura e svolge funzioni non solo coordinate, ma problematicamente parallele a quelle proprie dell’Organo di autogoverno, il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
Sicché, siamo qui di fronte a una commistione di funzioni che coinvolge, confondendole e assimilandole, la funzione giurisdizionale, le azioni del potere esecutivo, dell'organo di autogoverno, nonché, nella sostanza di una delle parti del processo tributario (l’amministrazione da cui promanano la più gran parte degli atti impugnati). Ciò pone, evidentemente, dei problemi di apparente mancanza di autonomia della magistratura tributaria, non soltanto rispetto al soggetto da cui promanano gli atti sottoposti al suo controllo, ma anche, più in generale, al potere esecutivo, cui ineriscono, congiuntamente, il Ministero delle finanze e la Presidenza del consiglio dei ministri.
12. (segue) la (in)disponibilità dei mezzi personali
Sotto il profilo sub b), il giudice tributario non ha effettiva disponibilità del personale amministrativo, che è invece sotto il totale controllo della Amministrazione di appartenenza, ed è intuitivo come la giurisdizione non possa funzionare senza adeguati mezzi e non sia indipendente, se tali mezzi non siano nella sua disponibilità.
Tale potenziale vulnus alla apparenza di indipendenza della giurisdizione tributaria, sotto il profilo dell’inquadramento del personale amministrativo appare aggravato sol che si consideri, quale tertium comparationis lo status, l’inquadramento e la regolamentazione del personale amministrativo proprio di altre giurisdizioni.
È appena il caso di notare che, per quanto riguarda la giustizia ordinaria, il personale amministrativo non solo è inquadrato in un soggetto terzo e indipendente dalle parti in giudizio (il Ministero della giustizia), ma è, in relazione alla delicatezza delle sue funzioni e a rimarcarne la necessaria posizione di solenne equidistanza, formalmente incardinato nell’ordine giudiziario (l. 23-10-1960 n. 1196, art. 1, comma 2).
La distanza appare ancor più notevole – e significativa – quando si esamini lo status, inquadramento e regolamentazione del personale delle segreterie della giurisdizione certamente più affine a quella tributaria: quella amministrativa.
Entrambe le giurisdizioni – quella tributaria e quella amministrativa – dirimono controversie in cui è una parte indefettibile il soggetto pubblico e con contenuti specialistici e ad elevatissimo tecnicismo, spesso di eccezionale rilevanza economica o di tutela dei diritti fondamentali, ma solo per la giurisdizione amministrativa sono applicabili le disposizioni e le speciali guarentigie di cui alla legge 27.4.1982 n. 186, che, agli articoli 35 e seguenti, incardina il personale amministrativo come soggetto nella piena disponibilità della giurisdizione e in una posizione nettamente e solennemente equidistante da tutte le parti in causa.
Del tutto distonico e lesivo dei principi denunciati appare allora l’inquadramento del personale di segreteria delle Commissioni tributarie: esso, ai sensi dell’art. 32 del d.lgs n. 545/1992 è costituito da dipendenti del Ministero dell’economia, ergo del plesso amministrativo sotto la cui organizzazione si trovano anche gli organi soggetti al controllo del giudice. Il fatto che si tratti di dipendenti inseriti in “apposito contingente” non pare valere certo a superare i profili critici appena segnalati, tutti lesivi del requisito di indipendenza, quantomeno apparente, della giurisdizione tributaria: personale organicamente inserito nella Amministrazione da cui promanano gli atti impugnati (cioè personale dipendente da una delle parti, sostanzialmente e in senso lato, del giudizio) è, addirittura, l’unico ausiliario del giudice, lo strumento senza il quale l’attività giurisdizionale non potrebbe avere attuazione, ed è personale sottratto ad ogni potere gerarchico del giudice medesimo.
Il deficit di apparenza di indipendenza, a maggior ragione alla luce del confronto con i tertia comparationis delle fattispecie della giurisdizione ordinaria e, soprattutto, amministrativa, appare, allora, grave.
13. (segue) la dipendenza finanziaria degli organi giudiziari tributari
Sotto il profilo sub c) (l'assenza di autonoma gestione dei mezzi finanziari), poi, si osserva come l'Amministrazione sia preposta non soltanto all'attività di vigilanza delle segreterie delle Commissioni, ma (quasi a rimarcare il rapporto di stretta dipendenza di queste ultime rispetto alla Pa) anche alla somministrazione delle risorse finanziarie funzionali all'attività giudicante.
Non può non notarsi, anche a questo proposito, la distonia rispetto alla regolamentazione di analoga materia rispetto alla giurisdizione certamente più affine a quella tributaria: quella amministrativa. Entrambe amministrano liti in cui è una parte indefettibile il soggetto pubblico, ma solo per la giurisdizione amministrativa sono applicabili le disposizioni di cui alla legge 27.4.1982 n. 186, che all’art. 53-bis prevede solenni norme a guarentigia della Autonomia finanziaria del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali, dettagliate, tra l’altro, nel Regolamento 6 febbraio 2012, Regolamento recante l'esercizio dell'autonomia finanziaria da parte della giustizia amministrativa. L’autonomia finanziaria è riconosciuta al giudice amministrativo, mentre nei confronti del giudice tributario viene, sostanzialmente, costruita una apparente dipendenza dal Ministero dal cui alveo promana la più gran parte degli atti oggetto di controllo giurisdizionale.
Riassumendo quanto detto fin qui, il personale ausiliario e le risorse economiche delle Commissioni tributarie risultano essere direttamente provenienti dall'Amministrazione controllata, in ciò sostanziandosi il carattere di dipendenza denunciato.
In altri termini, si è qui di fronte a un legame di apparente dipendenza forte ed espresso fra i mezzi della giurisdizione e l'Amministrazione dall’area della quale promanano gli atti soggetti a controllo. Si tratta di geometrie antinomiche al rispetto dell'apparenza di indipendenza, se non da esso completamente avulse.
Un giudice legato a doppio filo all'amministrazione responsabile dei provvedimenti sottoposti al suo controllo rappresenta un'architettura giuridica in cui il rispetto del principio di indipendenza risulta puntualmente assente.
14. (segue) il trattamento economico
Da ultimo, il profilo sub d) (la dipendenza sul piano del trattamento economico del giudice tributario) completa il quadro sin qui descritto, evidenziandosi il fatto che l'assoggettamento potenziale del giudice tributario all'Amministrazione controllata si realizza, e forse più incisivamente, anche sul piano economico. Elementi decisivi per il mantenimento di un tenore di vita decoroso del giudice non possono ricadere fra le scelte gestionali dell'autorità governativa, pena la lesione del principio di indipendenza (Corte Edu, 27 novembre 2008, Miroshnik c. Ukraine).
È evidente che la corresponsione della remunerazione integra in maniera lampante la fattispecie degli elementi decisivi. Tale aspetto emerge con forza se si considera anche la normativa sulle incompatibilità dei giudici, secondo cui «non possono essere componenti delle commissioni tributarie...coloro che in qualsiasi forma, anche se in modo saltuario o accessorio ad altra prestazione, direttamente o attraverso forme associative, esercitano l'attività di consulenza tributaria» (art. 8, comma 1, lett. i), d.lgs n. 545 del 1992). La ratio della norma anzidetta, infatti, è da rinvenire nell'esigenza di evitare un qualsivoglia legame economico con i ricorrenti dinanzi alle Commissioni, oltreché nell'assicurare l'equidistanza fra le parti della controversia tributaria.
Ebbene, tale precauzione sarebbe probabilmente elusa laddove la remunerazione dei magistrati non fosse proporzionata e sufficiente, e comunque tale da consentire un sostentamento decoroso: la stessa Corte costituzionale si è pronunciata negativamente circa la decurtazione stipendiale dei giudici a fronte del principio di indipendenza, affermando, nella sent. n. 223 del 2012, che il giudice deve beneficiare di una remunerazione e di un sistema previdenziale adeguati e garantiti dalla legge, che lo mettano al riparo da ogni indebita influenza.
D'altro canto, se è ragionevole escludere il rischio di dipendenza economica dei giudici rispetto ai contribuenti, non si comprende perché bisognerebbe ammetterlo nei confronti dell'Amministrazione; ciò violerebbe, oltreché il principio di parità delle armi in senso sostanziale, quello di uguaglianza e ragionevolezza.
E un tale rischio sembra, di fatto, sussistere, innanzitutto, se si considera che «La liquidazione dei compensi è disposta dalla direzione regionale delle entrate, nella cui circoscrizione ha sede la commissione tributaria di appartenenza ed i pagamenti relativi sono fatti dal dirigente responsabile della segreteria della commissione, quale funzionario delegato cui sono accreditati i fondi necessari» (art. 13, comma 3, d.lgs n. 545 del 1992). Il compenso del giudice, pertanto è così determinato dal vertice dell'amministrazione controllata, la liquidazione è disposta dall'organo cui sono imputabili la maggior parte degli atti impugnati e il pagamento materiale è effettuato dall'organo ausiliario del giudice, si è visto, istituzionalmente dipendente dall'amministrazione controllata.
Il vulnus alla (apparenza di) indipendenza del giudice appare evidente.
A ciò può poi aggiungersi che suscita perplessità, oltre che la provenienza delle decisioni sul trattamento economico, sostanzialmente, dalla amministrazione controllata, anche la sua entità. Essa, in effetti appare largamente insufficiente[11]. Tale profilo è evidentemente estremamente delicato e non può sottacersi la sua assoluta sproporzione rispetto al valore delle cause. A fronte di cause che in Ctp valgono mediamente 115 mila euro (in Lombardia, oltre 365 mila) al giudice è corrisposto un compenso molto ridotto, che crea anche, non ostante la serietà dei controlli e una specchiata etica di categoria, condizioni di oggettivo rischio.
15. Exit strategy. Prima ipotesi: la revisione delle Commissioni tributarie e il mantenimento della giurisdizione speciale
Dall’analisi che precede emerge che la appassionata dedizione che il corpo dei giudici tributari dedica allo svolgimento della sua preziosissima attività non basta a colmare delle lacune strutturali gravi, indotte dal mancato adeguamento della giurisdizione tributaria alle esigenze del moderno contenzioso e moderna economia.
Occorre porvi mano, con urgenza.
Non paiono esservi emergenze, quanto ai profili processuali, ma paiono sussisterne di gravi sotto il profilo ordinamentale.
Una prima possibile direttrice di intervento potrebbe essere quella del mantenimento della giurisdizione speciale che, en passant, dovrebbe forse dismettere la antica denominazione di Commissione (figlia delle passate funzioni amministrative), per assumere quella più acconcia di Tribunale.
Al di là di tale intervento simbolico, l’intervento riformatore dovrebbe essere profondo e strutturale, implicando, indefettibilmente: a) l’immediato sganciamento della giustizia tributaria dal Ministero della economia, lesivo della (apparenza di) indipendenza; b) la creazione di un contingente di giudici tributari a tempo pieno, con adeguato riconoscimento economico e correlata formazione e aggiornamento professionale, specialistica e continua.
A livello operativo, se si intendesse seguire questa direzione, è ipotizzabile scandire il processo in una fase transitoria, che attui immediatamente il passaggio della giustizia tributaria sotto altra amministrazione[12] e, in preparazione dell’assetto finale, conservi gli attuali giudici tributari “laici” nello status, recentemente riformato, del giudice onorario. Attesa l’età media dei componenti della giurisdizione, tale ruolo potrebbe essere tranquillamente conservato ad esaurimento. Per i giudici già professionali potrebbe essere prevista, al termine del periodo transitorio, la possibilità di opzione.
16. (segue) seconda ipotesi: la devoluzione alla giurisdizione amministrativa, contabile o al giudice ordinario
La seconda possibile direttrice di lavoro è la devoluzione delle controversie tributarie a una delle giurisdizioni esistenti.
In pratica, mentre la prima traiettoria implicherebbe dotare dei caratteri di giurisdizione forte e pienamente indipendente la giurisdizione tributaria, la seconda porterebbe, inversamente, le controversie tributarie a giuridisdizioni che già hanno in modo consolidato tali caratteristiche.
A tutta prima, questa seconda operazione potrebbe parere preferibile, perché apparentemente più semplice: teoricamente essa potrebbe farsi solo con una modifica delle regole sull’oggetto della giurisdizione, attribuendo al plesso giudiziario prescelto la materia tributaria.
Ciò che pare, tuttavia, non è.
Intanto, va detto che il pervenuto annuale di primo grado, nella giurisdizione tributaria, è di 188 mila ricorsi e quello di secondo grado di 68 mila appelli. Mentre i procedimenti definiti sono, rispettivamente, 244 mila e 54 mila e la pendenza di 386 mila e 143 mila procedimenti[13].
Risulta difficile ipotizzare che una giurisdizione esistente, sia esso il Giudice ordinario, il Giudice amministrativo o la Corte dei Conti, possa assorbire l’impatto di un tale carico di lavoro a risorse invariate.
Non solo, ma, al sorprendente dato numerico appena descritto si aggiunge la necessità di dotare la giurisdizione di destinazione delle necessarie competenze tecniche: come si è diffusamente argomentato sopra, infatti, nessuna delle giurisdizioni esistenti è allo stato tecnicamente adeguata alla trattazione delle controversie tributarie.
Al robustissimo innesto di personale giudicante dovrebbe, pertanto, affiancarsi un adeguato percorso di formazione professionale.
È appena il caso di notare che esso, di non agevole acquisizione, andrebbe comunque opportunamente preservato: non paiono assolutamente soddisfacenti, al riguardo, soluzioni meramente tabellari, ma necessaria l’istituzione di sezioni specializzate scarsamente permeabili alla mobilità tabellare e a un rapido turn over. È certamente lontana dalla adeguatezza a tale standard la soluzione, pur espressione di un lodevolissimo intento riformatore, proposta di recente (il cd. progetto Ermini), che prevede una sezione specializzata all’interno del Tribunale ordinario e la riduzione dell’appello a un reclamo destrutturato. Tacendo della non condivisibile modifica dell’appello (incompatibile con la situazione critica della cultura tributaria e con il rilevato alto tasso di riforma delle sentenze sopra citato), tale modello attuerebbe certamente l’indipendenza del giudice tributario ma, così come strutturato, fallirebbe tutti gli altri obiettivi, trascurando in modo addirittura sesquipedale la necessità di quella cultura speciale della giurisdizione che si è sopra visto essere essenziale.
Quanto precede non significa tuttavia affatto che vi sia una incompatibilità strutturale tra giustizia tributaria e giurisdizione ordinaria, ma solo che essa, semmai, andrebbe attuata con modalità molto accorte, ove fossero istituite, come si rilevava, articolazioni giudiziarie “specializzate e poco permeabili”.
Ipotizzando che si ritenga di battere questa strada, qualche elemento di un modello adeguato potrebbe trarsi, forse, da un settore totalmente estraneo e distantissimo da quello tributario. Esiste, in effetti, nella giurisdizione ordinaria, un organo specializzato, con un circuito di mobilità non separato e totalmente impermeabile, ma con adeguato presidio della specializzazione, e con, anche, una ripartizione di competenze, verticali e territoriali che non sarebbe inadeguata alla giustizia tributaria. Per quanto possa sembrare stupefacente, attesa la siderale distanza tra le rispettive materie e occorra un certo sforzo, sulle prime, a percepire la similitudine strutturale e a non classificare tale ipotesi come la bizzarria che appare a tutta prima, tale modello potrebbe essere quello del Tribunale e degli Uffici di sorveglianza: organi giudiziari autonomi, che garantiscono una relativa prossimità territoriale (non dimenticando che la giurisdizione tributaria ha anche una componente minuta che deve rimanere prossima alla realtà locale), con una ripartizione di competenze, monocratiche e collegiali, fondata anche sulla complessità della materia.
Ove si ritenesse di investire nella direzione della giurisdizione ordinaria, tale modello non è privo di elementi di interesse. È appena il caso di notare il fatto che anche nel Tribunale di sorveglianza è prevista la partecipazione di cittadini estranei alla magistratura con (auspicate) competenze specialistiche e sulla base di tale modello, si potrebbe ipotizzare di disegnare una distribuzione, sul territorio e per materia, di organi monocratici e collegiali di diversa competenza.
Conclusioni
L’articolata e problematica serie di considerazioni che precedono conduce a una modesta proposta di conclusioni, da declinarsi in sette passaggi.
Uno. La giurisdizione tributaria è una giurisdizione cardine dello Stato di diritto, massimamente, nei periodi di difficoltà economica, perché tutela tutti i diritti fondamentali.
Due. Allo stato attuale della evoluzione economica e giuridica, la giurisdizione tributaria è e deve essere una giurisdizione di controllo dell’esercizio del potere di applicazione dei tributi.
Tre. Il giudice tributario deve essere portatore di una cultura speciale della giurisdizione, che non coincide né è assimilabile né a quella del giurista generalista, né del giudice civile, amministrativo, del cultore dell’economia aziendale o della contabilità di Stato.
Quattro. Il giudice tributario deve essere e apparire indipendente.
Cinque. L’attuale assetto della giustizia tributaria poggia esclusivamente sulla meritoria dedizione dei giudici che vi sono addetti, ma necessita di una profonda revisione che ne renda strutturalmente presidiate competenza e indipendenza.
Sei. Il risultato di un giudice tributario competente e indipendente, che contribuisca a recuperare certezza del diritto tributario (e disincentivi il contenzioso) può essere raggiunto indifferentemente con la attribuzione della funzione a un giudice speciale o a un giudice comunque specializzato inquadrato in un’altra giurisdizione esistente, ma a prezzo di un ingente investimento culturale, più che economico. Un giudice speciale debole sul piano ordinamentale o un giudice “generico” forte sul piano ordinamentale sono entrambi gravemente inadeguati.
Sette. Il risultato può essere raggiunto attraverso adeguati e ponderati regimi transitori, che valorizzino le professionalità esistenti, anche in raccordo con le recenti riforme della giustizia onoraria.
Quale che sia la strada prescelta, la necessità di mettersi in moto appare ineludibile, attesa l’importanza della posta in gioco, i diritti fondamentali di tutti.
[1] Nel 2015, stando alla Relazione annuale del Dipartimento della giustizia tributaria del Ministero dell'economia, i nuovi ricorsi introdotti avanti le Commissioni di primo grado concernevano pretesi crediti erariali (o nei confronti dell’Erario) per oltre 21 miliardi di euro, con un valore medio per controversia di oltre 115 mila euro. I nuovi procedimenti di appello concernevano un valore di oltre 11 miliardi di euro (medio 171 mila). Il pervenuto in Cassazione valeva circa 7, 7 miliardi di euro.
[2] Nel 2015, stando sempre alla Relazione annuale del Dipartimento della giustizia tributaria del Ministero dell'economia, la durata media del processo tributario, nel primo grado, è stata di 2 anni e 5 mesi; nel secondo grado di 2 anni e 2 mesi. Le più lente Ctp sono quelle di Cosenza (7 anni e 6 mesi), Siracusa (6 anni e 5 mesi), Crotone (5 anni e 4 mesi); Messina (4 anni e 9 mesi). Le più veloci, Brescia (6 mesi e mezzo); Como (7 mesi e mezzo); Lecco (7 mesi e mezzo). Le più lente Ctr sono quelle della Calabria (7 anni e 9 mesi); Molise (4 anni e 7 mesi); Sardegna (4 anni e 2 mesi); Sicilia (3 anni e 9 mesi). Le più veloci Ctr sono quelle della Valle d’Aosta (11 mesi), Friuli Venezia Giulia (11 mesi), Veneto (1 anno), Lombardia (1 anno e 1 mese). In Cassazione la durata media di un processo della sezione tributaria è di 5 anni, 2 mesi e 12 giorni, la più alta di tutte le sezioni.
[3] Fonte, Corte suprema di cassazione, Ufficio di statistica, La cassazione civile anno 2015.
[4] Fonte, Agenzia delle Entrate, Esiti del contenzioso tributario: la lettura dei dati relativi al 2015, reperibile in www.fiscooggi.it/dati-e-statistiche/articolo/esiti-del-contenzioso-tributario-lettura-dei-dati-relativi-al-2015. L’elaborazione di alcuni dati in tale relazione desta qualche perplessità (ad esempio, la classificazione quale esito favorevole dei casi di soccombenza reciproca, o di conciliazione giudiziale).
[5] Fonte, Corte suprema di cassazione, Ufficio di statistica, La cassazione civile anno 2015.
[6] Vengono, secondo i dati della Agenzia delle Entrate impugnati 65.644 provvedimenti su 666.582, pari a un indice di impugnazione dell’8.96%. A ciò, si aggiunga, come indizio di incertezza, il fatto che, prima del giudizio, sono oggetto di istanza di mediazione 115 mila provvedimenti, di cui 61.135 definite in mediazione (una significativa percentuale delle quali, è da ritenere, con rettifica almeno parziale del provvedimento). Fonte, Agenzia delle Entrate, Esiti del contenzioso tributario: la lettura dei dati relativi al 2015.
[7] Ex plurimis, Cass. 23.9.2011 n. 19533.
[8] Ex plurimis, Cass., 3.2.2016, n. 2066.
[9] Art. 4 d. lgs n. 545/1992.
[10] In tema si può rilevare la consolidata giurisprudenza della Cedu, certamente rilevante, atteso che nel processo tributario si controverte, oltre che di tributi, di sanzioni con contenuto e natura afflittiva (Corte Edu, Jussila c. Finlandia, 23 novembre 2006): in tema di giusto processo la Corte di Strasburgo ha costantemente richiamato la consustanzialità al principio suddetto dei requisiti di indipendenza anche apparente e di imparzialità del giudice (su cui v., ex multis, Corte Edu Sutyagin c. Russia, 3 maggio 2011; Bochan c. Ucraina, 3 maggio 2007; Agrokompleks c. Ucraina, 6 ottobre 2001; Ninn-Hansen c. Denmark, 18 maggio 1999; Findlay c. Regno Unito, 25 ottobre 1997; Procola c. Lussemburgo, 28 settembre 1995; Campbell and Fell c. Regno Unito, 28 giugno 1984; Piersack c. Belgio, 1 ottobre 1982).
[11] Per individuare l’ordine di grandezza, una delle determinazioni recenti del compenso prevedeva una quota fissa, pari a 311 euro lordi mensili e una quota variabile. Quella variabile per ogni ricorso definito è stata fissata in 100 euro lordi, che si suddividono in 26 euro a testa per i tre giudici del collegio (aumentati di 11,50 euro per il relatore), ai quali aggiungere 2,50 spettanti al vicepresidente di sezione, 3,50 euro al presidente di sezione e 4,50 euro al presidente di commissione.
[12] Il Ministero della giustizia o la Presidenza del consiglio. Il mantenimento della specialità della giurisdizione non comporterebbe immediati problemi di armonizzazione del trattamento e stato giuridico del personale delle segreterie delle commissioni, che è differente da quello del personale della giustizia ordinaria.
[13] Fonte: Direzione della giustizia tributaria, Appendici statistiche e guida alla relazione sul monitoraggio dello stato del contenzioso tributario e sull’attivita’ delle commissioni tributarie, 2015.