Le strade di Istanbul addobbate in questi giorni da infinite bandiere biancorosse con la mezzaluna non fanno a prima vista un’impressione diversa da quella usuale dei giorni che precedono le festività nazionali.
Basta uno sguardo appena più prolungato per rendersi però conto che alle bandiere si aggiungono altri simboli rispetto a quelli tradizionali, e che la giornata che si annuncia vuole introdurre nel calendario turco una nuova ricorrenza.
Accanto alle bandiere, si vedono immagini che ritraggono scene di combattimenti, con il tratto tipico dell’iconografia delle grandi epopee nazionali. I personaggi non portano però le uniformi della campagna di Çanakkale (Gallipoli), di cui si è da poco celebrato con grande orgoglio il centenario, ma indossano abiti borghesi o uniformi dei giorni nostri. Si tratta di raffigurazioni che vogliono ricordare i fatti di un anno fa, di quella notte tra il 15 e il 16 luglio, quando la Turchia fu scenario di un tentativo di colpo di Stato. Se di quella confusa notte rimane molto da capire, è invece certo che il 15 luglio si avvia a diventare, nei disegni del Governo, una nuova giornata di festa, che vorrebbe essere commemorativa della forza morale del popolo turco che di fronte alla minaccia si sarebbe unito per respingere il tentativo di sovvertire con la violenza le scelte democraticamente espresse.
Chi scrive si trova a Istanbul dopo un periodo di quasi due anni trascorso a stretto contatto con un’istituzione governativa turca, contribuendo all’organizzazione di una lunga serie di eventi pubblici in tema di diritti fondamentali[1], svolti in ogni angolo del Paese. Questa maratona seminariale è stata occasione di interazione, a volte faticosa, spesso divertente, certo mai banale, con diverse centinaia di giuristi turchi, rappresentanti di organizzazioni non governative e funzionari provenienti dai contesti locali più differenti e dei più svariati orientamenti politici. Un’immersione certamente limitata e parziale, ma che, di fronte alla solennità impressa a questo 15 luglio, ci ha spinto a condividere con i lettori di questa Rivista qualche riflessione.
Ovviamente, la crisi dello Stato di diritto in Turchia è di fronte agli occhi di tutti e non può essere negata. Rimangono formalmente in vigore gli strumenti di garanzia delle libertà individuali, ma il numero di arresti, processi e condanne e il profilo di molti tra coloro che sono coinvolti, insieme a una varietà di misure restrittive contro organizzazioni di ogni tipo, non possono non suscitare allarme.
Un effetto di quanto sta accadendo è, paradossalmente, l’intensificarsi dello scambio tra le comunità di giuristi turchi, accademici e non, e i colleghi di altri Paesi. Prima di avviare la nostra esperienza sul posto, diritto e giuristi turchi erano oggetto di scarsa attenzione in Italia, mentre in questi mesi “post 15 luglio” seminari ed eventi sono sempre più numerosi. Molti docenti turchi, ma anche avvocati e magistrati, hanno cercato infatti una sponda all’estero presso istituzioni e singoli con cui erano in contatto. Si tratta di un fenomeno certamente positivo, e la solidarietà e il sostegno in questi difficili momenti non devono mancare.
Percorrendo le strade di Ankara e Istanbul, e ripensando a quanto visto e sentito nel tempo trascorso nel Paese, abbiamo tuttavia l’impressione che i dibattiti a sostegno dello Stato di diritto in Turchia possano a volte fornire un’immagine parziale di come i giuristi turchi, non solo quelli più “internazionalizzati”, vivono questo momento. Come per tutte le “cose turche”, l’elemento da tenere sempre presente è la grande differenziazione interna della popolazione, su base territoriale e sociale. Le differenti parti del Paese possono essere a volte distanti tra loro anni luce in termini culturali. Nel nostro peregrinare, anche solo il colpo d’occhio della sala dove si sarebbe svolto il seminario del giorno ci catapultava ogni volta in mondi nuovi. Già dall’abbigliamento e dal modo di salutare dei partecipanti era possibile prevedere in anticipo le differenze nelle domande e nelle obiezioni che ci sarebbero state rivolte. Il passaggio da Smirne (Izmir) a Muş nell’Anatolia orientale ci fornì aneddoti surreali, che però ci aiutavano a ricordare che ci sono “tante Turchie” che coesistono nella Repubblica fondata da Mustafa Kemal. Anche all’interno della stessa Istanbul, i singoli quartieri e le aree suburbane hanno spesso specificità molto marcate dal punto di vista sociale e culturale. In alcuni di questi mondi, particolarmente nei grandi centri urbani, dominano visioni dello Stato di diritto perfettamente corrispondenti a quelle che prevalgono (con tutte le incertezze che sappiamo) in Italia.
Anche qui, tuttavia, non occorre trarre conclusioni affrettate circa le posizioni rispetto a quanto avvenuto un anno fa. Ad esempio, anche tra persone che non hanno esitazioni a sentire come proprio il modello europeo di democrazia e tutela dei diritti, e fortemente critiche delle misure successive al 15 luglio 2016, è possibile riscontrare una marcata ostilità verso Fethullah Gülen, che il Governo ritiene essere la mente del tentativo di colpo di Stato. Molti che pur non aderiscono alla ricostruzione governativa della vicenda, sono convinti che i seguaci di Gülen avessero costruito una rete di solidarietà all’interno delle istituzioni, e in particolare delle forze armate, in grado di influire su reclutamenti e promozioni. Fondata o meno che sia, questa convinzione contribuisce a temperare il giudizio di molti circa le misure recenti, ritenute sproporzionate e lesive dei diritti, ma adottate nei confronti di un fenomeno comunque pericoloso.
Esiste poi una parte della società turca, comprendente anche giudici e funzionari in particolare delle regioni anatoliche, che parte da una prospettiva completamente differente nel “leggere” gli eventi recenti. Non farebbe giustizia alla complessità della realtà sostenere che queste persone non avvertono l’importanza della democrazia, e che vogliono rifondare lo Stato su basi differenti. Esse tendono, piuttosto, a interpretare ogni dato della realtà attraverso un doppio filtro, al contempo nazionalista e religioso.
Queste due dimensioni in molti passaggi della storia turca si sono confuse in modo non intuitivo, dietro il velo della formale separazione tra Stato e religione e nel contesto di un lungo processo di costruzione identitaria avviato in epoca post-ottomana, basato da un lato su un’idea di modernizzazione e dall’altro sull’identificazione dell’essenza dell’essere “turco” piuttosto che “ottomano”.
Può essere interessante riferire come durante i seminari le platee più conservatrici reagivano alla presenza di italiani tra gli oratori. Secondo un copione quasi fisso, qualcuno ci ricordava che in Turchia il suffragio femminile era stato concesso molto prima che nel nostro Paese, e che la Turchia aveva ospitato molti ebrei italiani dopo le leggi razziali del 1938.
Vale la pena ricordare che la ricostruzione alla base della seconda delle “critiche” rivolteci come interlocutori italiani è stata nel 2013 ribaltata da un bello studio di Corry Guttstadt, Turkey, the Jews and the Holocaust[2]. Sulla base di materiali d’archivio, Guttstadt ha messo in luce che quello della Turchia che presta asilo agli ebrei di Italia e Germania è stato un mito costruito a posteriori, che nasconde una realtà di senso contrario, ossia una politica segretamente volta a ridurre il più possibile l’afflusso di ebrei dai Paesi occupati, ponendo ostacoli anche al rientro di cittadini turchi di religione ebraica. Una politica non certamente basata sull’adesione al manifesto razziale nazista, ma sul timore che una forte presenza ebraica (già componente importantissima della società ottomana) potesse incrinare la costruzione dell’identità turca. Fu certamente vero, e su questo si basò il mito apologetico, che alcuni ebrei tedeschi e italiani in fuga vennero accolti nelle università (comprese le facoltà di giurisprudenza) dove ebbero ruoli importanti, ma il loro reclutamento avvenne nell’ambito dell’importazione di una élite culturale funzionale alla modernizzazione dell’insegnamento superiore avviato negli stessi anni, tanto che vi furono dipartimenti che accoglievano al tempo stesso ebrei tedeschi in fuga e docenti tedeschi di fede nazista.
Negli ultimi anni al nazionalismo turco si è aggiunto, come sappiamo, un orgoglio identitario che si rifà all’Islam. Anche con questo ci siamo dovuti confrontare nel corso della nostra esperienza. L’aneddoto classico è il partecipante al seminario che di fronte al docente (turco) che esponeva uno schema delle fonti del diritto in vigore in Turchia in tema di diritti fondamentali, domandava perché il Corano (ovviamente assente nello schema) non era posto al vertice. Si trattava, evidentemente, di una provocazione, che in forme diverse si è ripetuta spesso nelle platee delle località in cui il pluralismo di Istanbul o Smirne rimaneva decisamente remoto. Anche qui, l’impressione complessiva è che non esistesse nella mente dei nostri interlocutori (che cessato il “gioco di ruoli” del seminario, erano sempre affabili conversatori intorno al tè o al caffè) un modello di Stato alternativo rispetto a quello oggi in vigore. L’uso costante di richiami o simboli religiosi appariva piuttosto volto alla legittimazione del proprio conservatorismo, in particolare nei rapporti di genere, in modo tutto sommato non dissimile da come il cattolicesimo in Italia fu, in tempi non lontani, il baluardo di un modello di rapporti sociali e familiari in crisi.
Nelle molte conversazioni con giuristi turchi è purtroppo apparso evidente un ultimo elemento, ossia che il conservatorismo a base religiosa e la chiusura nazionalista, che vede come intrusiva ogni critica proveniente dall’estero, si alimentano a vicenda, ma sono anche alimentati dai nostri sguardi.
Chi attualmente è al potere in Turchia ha più volte accusato i paesi dell’Ue di islamofobia, e questa accusa è spesso ripresa da chi ha idee conservatrici. Accusa strumentale, certo, ma che non è rivolta verso società completamente innocenti. I molti eventi di solidarietà con i giuristi turchi produrranno senza dubbio dei passi in avanti, ma è vero che sino a ieri la conoscenza delle specificità delle varie nazioni a maggioranza islamica è stata scarsissima anche tra persone di cultura, e che gli stereotipi hanno abbondato. È inevitabile ricordare, ad esempio, che per la maggior parte degli italiani, e degli occidentali in generale, per molto tempo l’indicatore unico e assoluto di arretramento o avanzamento delle società a maggioranza islamica (vedi i casi di Turchia e Iran sin dagli anni ’30, quando la prima ispirò il secondo) è stato la copertura o meno dei capelli delle donne della borghesia urbana, trascurando ogni altro aspetto. La globalizzazione della comunicazione ha reso la costante banalizzazione della pluralità del mondo islamico ormai evidente agli occhi dei turchi, come di altri musulmani, alimentando la chiusura e la diffusione di uno stereotipo speculare, che vede l’occidente come un tutt’uno uniformemente islamofobo.
All’ombra delle bandiere che decorano le strade di Istanbul, il 15 luglio si festeggia quindi una nuova ricorrenza, nel tentativo di costruire l’ennesimo mito nazionalista.
Sarà da vedere se l’esperimento avrà successo, ma anche in che misura la parte conservatrice della società turca, una volta sicura del proprio radicamento e della propria forza, saprà convivere con lo stato di diritto.
*La foto di copertina è tratta da en.wikipedia.org
[1] I seminari si svolgevano nell’ambito del progetto Ue (IPA) Support to the Local Human Rights Boards and Women's Rights Awareness.
[2] Corry Guttstadt, Turkey, the Jews and the Holocaust, Cambridge University Press, Cambridge, 2013.