1. Profili sostanziali
Il 28 febbraio 2017 è stato approvato dalla Camera dei Deputati il testo definitivo della nuova legge (Legge 24/2017 cd. legge Gelli, che entrerà in vigore nella giornata del 1 aprile 2017), che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe superare le profonde incertezze interpretative contenute nella precedente legge 189/2012 (cd. legge Balduzzi), riformulando integralmente la cornice applicativa sia della responsabilità penale sia di quella civile della struttura sanitaria nonché dell’esercente la professione sanitaria (artt. 6 e 7).
Nel tratteggiare in maniera sintetica le principali novità del nuovo testo normativo, è necessario evidenziare una prima modifica significativa che involge l’autorevolezza ed affidabilità delle fonti da cui promanano le linee guida cui gli esercenti le professioni sanitarie devono uniformarsi, anche ai fini di beneficiare della speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 6 della legge.
L'art. 5 prescrive, infatti, che «gli esercenti le professioni sanitarie» debbano attenersi, «salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida» che verranno elaborate «da enti e istituzioni pubbliche e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in un apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute» e, in subordine, i sanitari potranno attenersi alle «buone pratiche clinico-assistenziali».
Tale precisa scelta assolve all’obiettivo di volere rendere l’addebito del medico suscettibile di censura obiettivizzata attraverso l’analisi della conformazione o meno del suo comportamento a regole precise, dettate ed accreditate dalla comunità scientifica riconosciuta attraverso l’inclusione in appositi elenchi pubblici, sulla base di indicazioni contenute nel decreto da emanarsi entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, di cui allo stesso art. 5.
Nuovo art. 590-sexies c.p.
Discende da tale segmento regolamentare una nuova disciplina della responsabilità penale del medico, contenuta nell’art. 6 che introducendo il nuovo art. 590-sexies nel codice penale, supera la tanto contestata distinzione tra colpa grave e colpa lieve contenuta nella legge Balduzzi, introducendo, piuttosto, una nuova causa di non punibilità per l’esercente la professione sanitaria che si uniforma integralmente alle raccomandazioni previste dalle linee guida ovvero, in mancanza di queste, alle buone pratiche clinico-assistenziali, «sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
Certamente, i maggiori dubbi applicativi residueranno nella valutazione dell’adeguatezza del comportamento “perito” tenuto dal medico, il quale pur essendosi uniformato alle regole tecniche accreditate, ha di fatto adottato una condotta non idonea a scongiurare quel rischio prevenibile e, dunque, evitabile qualora lo stesso esercente si fosse conformato a canoni di diligenza.
In altri termini, sembra riproporsi la dicotomia imperizia/perizia e negligenza/diligenza nella valutazione dell’adeguatezza al caso concreto della condotta sanitaria rilevante ai fini della sopravvivenza della responsabilità penale.
Numerosi problemi attendono gli interpreti in ordine al problema della retroattività o meno della norma nella sua applicazione pratica.
Responsabilità del medico ospedaliero e della struttura sanitaria
Le novità di maggiore spessore si rinvengono nella disciplina della responsabilità civile contenuta nell’art. 7.
Ora, deve premettersi che la consolidata giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha da tempo inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria e del medico nella categoria giuridica della responsabilità contrattuale discendente, nel primo caso, dal contratto di spedalità o dalla legge istitutiva del SSNN, nel secondo caso, dal “contatto sociale”.
Il contratto di spedalità, in particolare, si conclude tra paziente e struttura ospedaliera per effetto del ricovero ed è un rapporto caratterizzato dalla complessità e dall'atipicità, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni.
In virtù dell’autonomo contratto, che si potrebbe definire di «assistenza sanitaria» o «spedalità», la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, «che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori».
La responsabilità mantiene la propria connotazione contrattuale, atteso che ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (…) (in tal senso, fra le altre, Cass. 19/04/2006 n. 9085).
Ne consegue che, in ogni caso, nell’ipotesi di accertamento in concreto di una forma di responsabilità per comportamento omissivo o commissivo colposo dei medici, perché negligente ed imperito, ne risponde comunque la struttura sanitaria che si avvale dell’opera del professionista e che eroga, per il suo tramite, una prestazione complessa di natura medico-sanitaria comunque oggetto del contratto di spedalità che, appunto, non può essere giammai ridotto a mera fonte di obbligazioni aventi natura «alberghiera» e ciò anche nel caso in cui il medico non sia direttamente incardinato nell’organigramma dell’ente ma operi in regime convenzionato.
Quanto alla posizione del medico, come detto, la giurisprudenza da tempo ha parimenti qualificato la relativa responsabilità come responsabilità di tipo contrattuale, nascente dal «contatto» qualificato che viene a crearsi tra il paziente e l’esercente la professione sanitaria per il solo fatto di somministrare al primo le cure necessarie in guisa da instaurare un rapporto protettivo «qualificato», anche nella misura in cui di tale prestazione se ne avvalga la stessa struttura.
Tale premessa postula un onere probatorio agevolato, discendente dai postulati enunciati dagli artt. 2697 e 1218 c.c., così come interpretati dalla storica sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 13533 del 2001.
In materia di inadempimento contrattuale e di inesatto adempimento, le SS.UU. ora citate hanno affermato che, essendo il presupposto fattuale sempre lo stesso (l'inadempimento), il creditore, sia che agisca per l'adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve fornire prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, oltre che dell'entità dei danni lamentati; mentre può limitarsi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte. Il debitore convenuto, invece, è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo del diritto, id est l'avvenuto esatto adempimento ovvero la non imputabilità dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Tale principio è stato ritenuto applicabile anche alla ripartizione dell'onere probatorio nelle cause di responsabilità professionale medica, nelle quali grava sull’attore «paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, oltre alla prova del contratto, anche quella dell'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie, nonché la prova del nesso di causalità tra l'azione o l'omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente» (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).
Tale quadro non ha subito grandi cambiamenti all’indomani dell’entrata in vigore della legge Balduzzi, seppur l’inciso contenuto nell’art. 1 della norma faceva salva l’applicabilità dell’art. 2043 c.c.
La Corte di cassazione aveva avuto modo di chiarire che rimaneva immutato il rilievo della colpa lieve, anche per imperizia, nel campo del risarcimento del danno nei giudizi civili, ed eventualmente la conformità alle buone prassi poteva assumere rilievo ai fini della quantificazione del danno, escludendo che tale riferimento avesse trasformato la responsabilità del medico o della struttura sanitaria in extracontrattuale, rimanendo la stessa contrattuale da contratto di spedalità o da contatto sociale (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza 17 aprile 2014 n. 8940 la norma quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura). La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (pure affermate da Cass. n. 4792 del 2013).
Di contro, l’art. 7 della legge del 2017 contiene oggi significative novità sul fronte della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria.
Lascia immutata la responsabilità contrattuale della struttura ospedaliera, e, di contro, ribadisce in maniera “testualmente” più chiara della precedente versione che «l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile», quasi a volere sancire una regola di carattere generale che contempla, tuttavia, significative eccezioni.
Tale inquadramento, infatti, viene meno in tutti i casi in cui il medico «abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente».
I casi delle prestazioni intramurarie per le quali vi sia stato una relazione negoziale preventiva e qualificata prima dell’accesso alla struttura nosocomiale vengono trattate nel II comma dell’art. 7 ed assimilati alla responsabilità contrattuale della struttura di cui al 1° comma.
Indi, rimane da chiedersi quale sia lo spazio residuato di responsabilità contrattuale da «contatto sociale», se la stessa può dirsi ancora permanente e se, in particolare, come sembra emergere da una prima lettura della norma, l’onere di provare l’esistenza di un rapporto qualificato di matrice contrattuale gravi in capo al paziente, perché derogatorio rispetto alla regola generale.
In altri termini, i dubbi interpretativi attengono a tutti i casi di interventi, cure o terapie somministrate dai medici ospedalieri o dipendenti di case di cure ovvero in libera convenzione con la struttura sanitaria con i quali i pazienti non hanno preventivamente instaurato rapporti significativi se non al momento del ricovero per i quali la norma sembrerebbe riconoscere solo una forma di responsabilità di tipo extracontrattuale.
Certamente il diverso inquadramento postula una differenza netta in termini sia di oneri probatori, più gravosi per il danneggiato nel caso di responsabilità aquiliana, sia di prescrizione dei diritti, quinquennale in un caso e decennale nell’altro.
Soccorre comunque l’azione proponibile nei confronti della struttura che rimane sempre di natura contrattuale.
Indi, dal mero dato testuale emerge un inquadramento generale della responsabilità dell’esercente nell’ambito di applicazione della responsabilità aquiliana e solo qualora venga provata dal paziente una diversa fonte ossia una relazione negoziale significativa muta il titolo della responsabilità in contrattuale.
La prospettiva, dunque, muta radicalmente con oneri probatori gravosi in capo ai danneggiati, nell’obiettivo di scongiurare la cd. medicina difensiva che si è sviluppata vertiginosamente negli ultimi anni.
La scelta di attenuare la responsabilità dell’esercente è contemperata dalle agevolazioni in termini di maggiore tutela che può essere fatta valere nei confronti delle strutture sanitarie, pubbliche e private, la cui responsabilità è sempre contrattuale, a norma dell’art. 7 1° comma anche qualora la stessa si avvalga dell’opera di esercenti non legati da rapporti di dipendenza con essa, per le loro condotte colpose o dolose.
Assicurazione obbligatoria e clausola claims made
Tale opzione normativa è avvalorata da tutta la disciplina relativa all’obbligo, per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private di dotarsi di copertura assicurativa o di altre analoghe misure per la responsabilità civile verso prestatori d’opera, anche per i danni cagionati dal personale a qualunque titolo ivi operante.
Gli artt. 10 e 11 sono dedicati alla disciplina del contenuto della copertura assicurativa e alla estensione della stessa secondo lo schema delle clausole claims made.
Si tratta di clausola claims made con la quale i contraenti, nell’ambito della loro autonomia contrattuale, pattuiscono una nozione di fatto diversa da quella espressamente chiarita dall’art. 1917 comma 1°, c.c., riferendosi, non già semplicemente al fatto causativo di responsabilità verso terzi, bensì al momento della richiesta di risarcimento avanzata dal terzo danneggiato nei confronti dell’assicurato (cfr. ex multis, Cass. Civ., Sez. III, 22 marzo 2013, 7273).
Oggi, la fattispecie ha trovato così precisa consacrazione con la previsione di una periodo di efficacia per eventi accaduti nei dieci anni antecedenti e sulla base di un periodo minimo di ultrattività di ulteriori dieci anni, ed estensione del beneficio anche agli eredi.
Rimane da chiedersi se, posta l’efficacia di tale disciplina per contratti di assicurazione stipulati successivamente all’entrata in vigore della legge e del decreto ministeriale di disciplina, il raffronto con tale schema normativo possa soccorrere ad una interpretazione orientata anche per le clausole contenute nelle polizze stipulate in data antecedente, nella prospettiva di tutela dell’assicurato da vagliarsi in concreto al fine di superare la censura circa la loro possibile vessatorietà, alla stregua dei criteri enunciati in ultimo dalla Cassazione nella sentenza SS.UU. 6.5.2016 n. 9140.
Nel quadro esposto assume peculiare novità l’introduzione dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione, garante sia della struttura sanitaria sia del medico, contenuta nell’art. 12, con previsione di un termine di prescrizione pari a quello dell’azione verso la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata o l’esercente la professione sanitaria.
Il coinvolgimento diretto dell’impresa di assicurazione ad opera del terzo costituisce nell’ordinamento un’eccezione, rispetto allo schema dell’assicurazione per la responsabilità civile, presente da anni nell’ambito della responsabilità nascente da circolazione stradale e, al pari di tale disciplina, mira a precostituire un modulo risarcitorio rafforzato per il danneggiato consentendo l’instaurarsi di una relazione, stragiudiziale e giudiziale privilegiata anche per la gestione della lite, nell’obiettivo di consentire una definizione anche più rapida del contenzioso.
L’assunto è confermato dal coinvolgimento della stessa impresa anche nel procedimento di consulenza preventiva, ove la società non solo è chiamata ad intervenire in via obbligatoria, ma è anche tenuta, al pari della materia della circolazione stradale, a formulare offerta di risarcimento del danno ovvero a comunicare i motivi di eventuale diniego (art. 8).
Anche in questo caso nei giudizi promossi nei confronti della struttura sanitaria e/o dell’esercente la professione sanitaria è previsto il litisconsorzio necessario con la medesima struttura e/o con il medico (art. 12).
Le disposizioni di cui all’azione diretta nei confronti dell’assicurazione si applicano a decorrere dall’entrata in vigore del decreto ministeriale che dovrà essere emanato (entro 120 giorni) a norma dell’art. 10, comma 6 (ove devono essere dettati requisiti minimi sulle polizze assicurative)
Ancora di particolare interesse è la previsione dell’inopponibilità al danneggiato delle eccezioni derivanti dal contratto diverse da quelle che verranno stabilite col decreto ministeriale in questione.
Risarcimento del danno
Infine, tra le scelte già oggetto della legge Balduzzi e riproposte dalla legge Gelli vi è il richiamo alle tabelle per il risarcimento del danno, di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni private di cui al d.lgs 209/2005, di matrice ministeriale che, dunque, si applicano anche per la liquidazione del danno derivante da responsabilità sanitaria.
Tale opzione normativa, da sempre oggetto di aspre critiche giacché ripropone parametri liquidatori più bassi rispetto a quelli comunemente utilizzati per il risarcimento del danno in altri settori, allo stato continua ad avere una rilevanza pratica trascurabile poiché risultano operanti solo le tabelle ministeriali per la liquidazione del danno da micro permanenze, ai sensi dell’art. 139 del CdA.
Sicché, nei casi di percentuali di invalidità superiore al 9%, possono essere adottati gli ordinari criteri tabellari in uso per la liquidazione del danno alla salute e, nei casi di macrolesioni disciplinate dall'art. 138 cod. ass., in relazione al quale non risulta attualmente emanata la tabella unica nazionale, deve concludersi per l'utilizzabilità delle tabelle di liquidazione del danno biologico adottate dai vari Tribunali.
Al riguardo, invero, possono essere richiamati i principi affermati con la nota sentenza n. 12408 del 2011 con cui la Cassazione, al fine di fornire ai giudici di merito l'indicazione di un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona (cd. uniformità pecuniaria di base), fermo restando il potere equitativo del giudice per adattare la misura del risarcimento alle circostanze del caso concreto, ha affermato la generale applicabilità delle tabelle milanesi quale valido criterio per la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, riconoscendone una vocazione nazionale e ferma la possibilità, in attesa dell’approvazione della tabella ministeriale, per i Tribunali, di adottare i comuni criteri risarcitori.
Profili processuali
Diverse disposizioni della legge 24/17 riguardano aspetti di natura processuale e sono specificamente volte a cercare di ridurre il contenzioso in relazione ai procedimenti di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria. È bene adesso provare ad esaminare distintamente i vari istituti in esame e le diverse questioni problematiche che si pongono già ad una prima lettura.
L’ATP obbligatorio
È stato innanzitutto previsto l’obbligatorio e preliminare espletamento, davanti al giudice competente, di una consulenza tecnica preventiva ai sensi dell'art. 696 bis c.p.c. Non sembra un caso che sia stato contemplato che tale ATP vada espletato davanti al «giudice competente» invece che davanti al Presidente del tribunale, come previsto dall’art. 696 c.p.c. Si vuole, infatti, che l’ATP si svolga davanti allo stesso giudice che poi dovrà trattare l’eventuale causa di merito. Ed è per questo che l’art. 8 della legge 24/17 prevede che quando il giudice rileva che il procedimento di cui all'articolo 696 bis del codice di procedura civile non è stato espletato assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell'istanza di consulenza tecnica in via preventiva. Ed è sempre per questo motivo che lo stesso art. 8 stabilisce che il successivo ed eventuale ricorso ex art. 702 bis c.p.c. si deposita «presso il giudice che ha trattato il procedimento» di accertamento preventivo. Ciò garantisce unitarietà alla vicenda processuale ed assicura anche maggiore linearità nei rapporti tra quesiti formulati, risposte del consulente e decisione finale.
La scelta del consulente
Per garantire un elevato livello di competenza tecnica, si è poi previsto che l’incarico di C.t.u. in materia di responsabilità medica vada affidato ad un collegio composto da un medico specialista in medicina legale e da uno o più specialisti nella disciplina che siano iscritti negli albi del Tribunale, abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento e non si trovino in posizione di conflitto di interessi nel procedimento stesso o in altri connessi. Si è poi stabilito espressamente, trattandosi di ATP a fini conciliativi ex art. 696 bis c.p.c., che i consulenti d’ufficio debbano anche possedere adeguate e comprovate competenze nell'ambito della conciliazione acquisite pure mediante specifici percorsi formativi. Ai componenti di questo collegio di medici spetta, come sempre, un compenso globale, senza che però sia applicabile l’aumento del 40 per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio previsto dall’articolo 53 T.U. spese di giustizia.
L’ATP preventivo quale condizione di procedibilità
Il previo accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, in alternativa al procedimento di mediazione di cui al D.lgs. 28/2010.
Per munire di procedibilità la sua domanda l’attore potrà quindi scegliere tra ATP e mediazione.
È bene provare ad elencare i possibili vantaggi che possono portare a scegliere la mediazione rispetto a quelli che inducono a ritenere preferibile l’ATP.
Innanzitutto, la mediazione possiede, quale «vantaggio competitivo» rispetto alla procedura ex art. 696 bis c.p.c., la possibilità di effettuare «sessioni separate» in cui non è rispettato il principio del contraddittorio, al quale invece è tenuto il CTU quale ausiliario del giudice. Nel corso delle sessioni separate il mediatore, eventualmente insieme all’eventuale tecnico, può venire a conoscenza di dati estremamente utili e non comunicabili alla parte assente, che si rivelano spesso indispensabili per formulare una proposta che possa essere accettata. E non è raro il caso che, una volta definito un terreno comune, le proposte alternative fornite dalle parti siano sovrapponibili.
Inoltre, premesso che la nuova disciplina normativa sulla responsabilità sanitaria ha previsto che dopo l’espletamento dell’ATP le cause di merito debbano essere introdotte con il rito sommario di cognizione, si potrebbe sensatamente ritenere che, instaurando ai fini della procedibilità della domanda il procedimento di mediazione, allora non vi sia più l’obbligo di introduzione della lite ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. (ben potendo optare l’attore per il rito ordinario di cognizione). Ed effettivamente, il legislatore ha previsto il ricorso al rito sommario di cognizione dopo l’ATP in quanto l’atto istruttorio fondamentale è stato già effettuato. E che il necessario impiego della procedura di cui agli artt. 702 bis ss. c.p.c. sia da limitare al solo caso dell’ATP (e non della mediazione) lo si ricava pure dal fatto che l’art. 8 comma 3 del nuovo testo normativo prevede che il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. vada depositato entro il termine di 90 giorni dal deposito della relazione medica o dalla scadenza del termine perentorio di 6 mesi per l’ultimazione dell’ATP (e ciò a pena di perdita di efficacia della domanda). Dunque, nell’ipotesi in cui la condizione di procedibilità sia soddisfatta attraverso il ricorso alla mediazione il paziente-attore potrebbe conservare, in un’ottica di strategia difensiva, la possibilità di usufruire di due riti a scelta: il rito sommario di cognizione ovvero quello ordinario.
I profili appena sopra evidenziati non sembrano però tali da far pensare che verrà preferito lo strumento della mediazione rispetto a quello dell’accertamento tecnico preventivo (fatta eccezione per i casi in cui non occorre alcuna verifica scientifica, come ad esempio per le controversie relative al solo consenso informato).
È da ritenere che, dinanzi alla scelta se esperire la mediazione ovvero l’ATP, si tenderà a preferire quest’ultimo, non soltanto perché la mediazione in materia di responsabilità medica non ha portato grandi risultati in assenza di un accertamento di natura tecnica, ma anche alla luce di due previsioni contenute nel nuovo testo normativo:
1) la previsione della partecipazione obbligatoria all'ATP per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione, che hanno pure l’obbligo di formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero di comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla, con l'ulteriore previsione che in caso di sentenza a favore del danneggiato il giudice deve trasmettere copia della sentenza all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza nei casi in cui l’impresa di assicurazione non abbia formulato l’offerta di risarcimento nell’ambito dell'ATP;
2) la previsione della necessaria condanna, in seno al provvedimento che definisce il giudizio, delle parti che non abbiano partecipato all'ATP al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa.
Questa seconda previsione, ovviamente finalizzata a tentare di agevolare il buon esito della conciliazione tramite la sollecitazione della comparizione delle parti, va ben oltre l'attuale disciplina (contenuta nel d.lgs 28/2010) della condanna al semplice pagamento di una somma pari al contributo unificato per la parte che non compare, peraltro senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione.
L’attore, quindi, probabilmente preferirà l’ATP in quanto sa che anche nel giudizio di merito sarebbe comunque nominato un consulente d’ufficio, sa che le sue controparti molto probabilmente si costituiranno nel procedimento ex art. 696 bis c.p.c., sa che probabilmente la Compagnia di assicurazione formulerà una proposta risarcitoria in seguito all’eventuale riconoscimento di responsabilità sanitaria da parte del CTU e sa che, in caso di rigetto della sua domanda, potrebbe pure vedersi rimborsate le spese di lite e di CTU (ed avere anche una somma ulteriore) qualora una delle sue controparti non dovesse partecipare all’ATP. Inoltre, sa pure che tale condanna è obbligatoria e non discrezionale (prevedendo l’art. 8 comma 4 della legge 24/17 che il giudice “condanna” e non che egli “può condannare”) e non richiede neppure che chi giudica valuti se questa mancata partecipazione sia o meno giustificata (non essendo richiesto questo tipo di accertamento, a differenza di quanto accade per la mediazione). Né l’attore rischia che i tempi si allunghino eccessivamente in quanto il testo normativo prevede un termine massimo di durata del procedimento di sei mesi (e quindi di poco più lungo di quello di tre mesi contemplato per la mediazione).
Il termine per l’espletamento dell’ATP
Si pone poi il problema di cosa succeda se questo termine semestrale non venga rispettato.
Secondo una prima impostazione, venendo in questione un termine perentorio, quanto accertato in sede di ATP non potrà essere utilizzato nel successivo giudizio di merito, nel quale dovrà essere rinnovata la CTU. In altri termini, la conseguenza della mancata osservanza del termine perentorio sarebbe l’inutilizzabilità di quanto fatto e la necessità di rinnovarlo.
In realtà, occorre partire dal dato normativo, secondo il quale «ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702 bis del codice di procedura civile».
Pertanto, l’unica conseguenza connessa al mancato rispetto del termine perentorio di sei mesi è che l’attore potrà ritenere munita di procedibilità la sua domanda e instaurare o continuare il giudizio. Anche in ossequio ad un principio generale di economia processuale (tanto più valido quando le stesse parti del giudizio di merito hanno preso parte alla fase di ATP, senza che quindi sia ipotizzabile una lesione del diritto di difesa) l'attività svolta nell'ambito dell'accertamento tecnico tra le medesime parti potrà comunque essere utilizzata nel successivo giudizio di merito, che ne costituirà un sostanziale completamento.
Per fare però valere l’interruzione del termine di prescrizione avvenuta con il deposito del ricorso per ATP (e quindi per avvalersi degli effetti sostanziali della relativa domanda) occorrerà presentare, entro 90 giorni dal deposito della relazione del consulente o dalla scadenza del citato termine, ricorso introduttivo di un rito sommario di cognizione.
Il rilievo dell’improcedibilità della domanda per mancato esperimento dell’ATP
Come in materia di mediazione, anche per l’ATP l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Pertanto, deve ritenersi che il rilievo officioso sia obbligatorio e non facoltativo (la norma, infatti, stabilisce che l’improcedibilità «deve essere… rilevata d’ufficio»), e non quindi evitabile anche a seguito di istanza di tutte le parti (che devono almeno tentare la via della conciliazione), e che esso sia da compiere quando il giudice pone alle parti le questioni rilevabili d’ufficio ex art. 183, comma quarto, c.p.c., e dunque prima della concessione dei termini ex art. 183 comma 6, c.p.c. Inoltre, quando il giudice rileva che il procedimento di cui all’articolo 696 bis del codice di procedura civile non sia stato espletato ovvero che sia iniziato ma non si sia concluso, e che quindi allo stato la domanda sia improcedibile, egli non emette sentenza (trattandosi di questione relativa alla procedibilità, sanabile, e non alla proponibilità della domanda), ma assegna alle parti il termine di 15 giorni per presentare dinanzi a sé l'istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento. Emetterà sentenza di improcedibilità solo in caso di ulteriore mancata instaurazione dell’ATP (e ciò anche perché il primo rinvio, per sanare l’improcedibilità, è previsto dal legislatore, ma non potrebbe altrimenti stabilirsi quando debba chiudersi in rito il processo: se alla seconda, alla terza o alla quarta mancata instaurazione dell’ATP).
In altri termini, la parte attrice può scegliere se depositare prima il ricorso ex art. 696 bis per l’ATP conciliativo o prima il ricorso introduttivo del sommario di cognizione. Nulla esclude, comunque, che egli possa anche presentarli insieme.
Se viene prima instaurato, come sarebbe auspicabile, il procedimento per ATP, il giudizio di merito non verrà mai incardinato se il CTU riuscirà a far accordare le parti. In caso contrario, il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. andrà depositato, affinché la domanda sia procedibile, entro 90 giorni dal deposito della consulenza o dalla scadenza del termine di sei mesi dal deposito dell’ATP.
Se, invece, viene presentato prima il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. senza che vi sia stato ancora l’ATP conciliativo, allora il giudice, rilevata la momentanea improcedibilità della domanda, assegnerà alle parti termine di 15 giorni per presentare davanti a lui l’istanza di ATP. Qualora, inoltre, l’ATP sia stato già avviato ma non concluso al momento della prima udienza del rito sommario di cognizione, il giudice darà un termine alle parti per completare il procedimento di ATP. Se tale ultimo procedimento è già in corso da quasi sei mesi, è da ritenere che il termine assegnato dal giudice possa anche comportare una durata complessiva del procedimento superiore al detto termine di sei mesi (pure qualificato dal legislatore come perentorio) e ciò perché la domanda è già procedibile in quanto l’ATP è stato instaurato e il giudizio di merito è già stato incardinato.
Si potrebbe porre qualche problema nel caso in cui il processo venga introdotto con citazione senza previo ATP. In questo caso il giudice non può certo assegnare un termine per espletare la mediazione (che costituisce solo una facoltà per la parte in alternativa all’ATP), ma deve assegnare il detto termine di 15 giorni per proporre davanti a lui istanza di ATP (così afferma chiaramente l’art. 8, comma 2, della legge 24/17). Ci si deve comunque chiedere se il giudizio possa poi continuare nelle forme del rito ordinario o vada convertito in un sommario di cognizione. Sembra preferibile ritenere che, non essendo imposta dalla norma la conversione in questione (non essendosi probabilmente il legislatore posto questo problema), spetterà al giudice valutare l’opportunità di mutare il rito ex art. 183 bis c.p.c.
Ed altri problemi potrebbero porsi nel caso in cui l’attore preferisca optare per la mediazione al fine di munire di procedibilità la propria domanda. In questo caso, ultimato negativamente il procedimento di mediazione, si applicherà il termine di 90 giorni per il deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. previsto dal comma 3 dell’art. 8 per ritenere procedibile la domanda? Tale ultimo comma era calibrato sull’ATP. Quando è stata introdotto, nell’ultima versione parlamentare dell’impianto normativo, il riferimento all’alternativa della mediazione non si è ben amalgamato tale ultima previsione con le disposizioni già contenute nel tessuto legislativo. Comunque, proprio perché tale comma non si adatta in alcun modo alla mediazione (esso fa infatti riferimento al deposito della relazione del tecnico, alla scadenza del termine perentorio per l’ATP, all’introduzione del sommario di cognizione davanti allo stesso giudice dell’ATP), pare preferibile ritenere che in caso di mediazione in materia di responsabilità medica il successivo giudizio di merito possa essere introdotto con citazione (secondo quanto consente il d.lgs 28/2010) o con sommario di cognizione (a scelta dell’attore) e senza che viga il citato limite dei 90 giorni, che peraltro non si saprebbe da quando fare decorrere (senza neppure considerare che questo termine è poco compatibile con la minore durata massima del procedimento di mediazione, che è, per il d.lgs 28/2010, di tre mesi).
La partecipazione obbligatoria di tutte le parti all’ATP e la condanna alle spese
Si è già detto della previsione della partecipazione obbligatoria di tutte le parti all’ATP conciliativo.
Viene da domandarsi ora se debba partecipare all’ATP anche il medico della struttura, soggetto contro il quale il paziente potrebbe non avere interesse ad agire nel successivo giudizio di merito o che potrebbe non essere facile da individuare in caso di più soggetti potenzialmente responsabili. Comunque, poiché nel giudizio contro la compagnia di assicurazione del medico è litisconsorte necessario anche quest’ultimo, che invece non è litisconsorte nel processo che vede coinvolta la compagnia e la struttura, allora il medico sarà parte necessaria anche dell’ATP ogni volta venga in questione una sua responsabilità non quale dipendente di una struttura pubblica o privata e dovrà comunque partecipare al procedimento ex art. 696 bis c.p.c. quando gli venga notificato un ricorso per ATP su iniziativa del paziente-attore.
È inoltre da valutare positivamente la disposizione che prevede la condanna alle spese (dell’ATP e di lite) ed al pagamento di un’altra somma (equitativamente determinata dal giudice) per la parte non comparsa all’ATP. Si tratta di disposizione che renderà effettiva la possibilità di accordi in sede di accertamento tecnico, dove tutti saranno presenti (peraltro davanti ad un collegio di medici esperti nella specifica disciplina ed in tecniche di negoziazione).
È bene comunque precisare che non sembra che questa norma (specificamente dettata in relazione all’ATP conciliativo) possa essere applicata analogicamente alla mediazione, e ciò anche perché essa, derogando al principio generale per cui le spese seguono la soccombenza, va considerata norma eccezionale e, quindi, non applicabile analogicamente ex art. 14 disp. prel. c.c., salva comunque la possibilità di applicare le condanne ex art. 96 c.p.c.
L’utilità dell’ATP obbligatorio
Si impone a questo punto una considerazione sull’utilità del nuovo istituto processuale introdotto.
Probabilmente va salutata con favore la previsione di una forma di condizione di procedibilità alternativa alla mediazione in materia di responsabilità medico-sanitaria, che è materia in relazione alla quale è davvero difficile che si possa pervenire ad un accordo in assenza di accertamento tecnico operato da un soggetto terzo. Senza che vi sia una perizia indipendente che verifichi se ricorrano profili di colpa professionale e se via un nesso di causalità è davvero complicato che si possa pervenire a conciliazioni. D’altronde, effettuato questo accertamento, spesso la sentenza si limita a prendere atto di quanto emerso dalla CTU ed opera soltanto, in caso di riconosciuta colpa professionale, dei calcoli sul risarcimento del danno. In altri termini, la prova scientifica assume, nei giudizi sulla colpa medica, un ruolo talmente decisivo che è stato giusto prevedere che il CTU tenti, dopo avere compiuto il suo accertamento, di far trovare un accordo alle parti.
Obbligo assicurativo ed azione diretta verso Compagnia di assicurazione
L’art. 12 del nuovo testo normativo introduce il principio per cui il danneggiato possa agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private e all’esercente la professione sanitaria (fatta salva la rivalsa verso l'assicurato).
Tale azione diretta è soggetta, come in precedenza osservato, allo stesso termine di prescrizione pari a quello dell’azione verso la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata o verso l’esercente la professione sanitaria. Sono anche previste forme di litisconsorzio necessario (della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione della stessa e dell’esercente la professione sanitaria nel giudizio promosso contro la sua impresa di assicurazione) nonché, al fine di garantire il diritto di difesa delle compagnie di assicurazioni, possibilità per queste ultime di accedere alla documentazione della struttura relativa ai fatti dedotti in ogni fase della trattazione del sinistro. Per consentire al sanitario di prendere parte al giudizio instaurato per un suo asserito errore professionale e per fargli predisporre delle buone difese è stato introdotto un obbligo per le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione di comunicargli l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo. E va pure comunicato al sanitario l’eventuale avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte.
Si è potuta prevedere l’azione diretta in questione in quanto si è introdotto, all’articolo 10, un generale obbligo di assicurazione per le strutture sanitarie pubbliche e private per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d'opera. La copertura si estende anche ai danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie pubbliche e private (compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento, sperimentazione e ricerca clinica). L'obbligo assicurativo riguarda anche le prestazioni svolte in regime di libera professione intramuraria o in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale o attraverso la telemedicina. Resta fermo l'obbligo di copertura assicurativa (già previsto dall'art 3, comma 5, lett. e, del Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138) per il sanitario che eserciti al di fuori di una delle strutture sopra indicate o che presti la propria opera all’interno della stessa in regime libero-professionale o si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente.
In un’ottica di determinazione dei presupposti per un positivo esito dell'eventuale azione di rivalsa ogni sanitario che operi a qualunque titolo in strutture sanitarie o socio-sanitarie pubbliche o private deve provvedere alla stipula, con oneri a proprio carico, di un'adeguata polizza di assicurazione per colpa grave. Ed un apposito decreto ministeriale, da emanare entro 120 giorni dall'entrata in vigore della legge previo concerto anche con le associazioni di categoria, dovrà fissare i requisiti minimi di garanzia delle polizze assicurative.
Tale decreto sarà molto importante. Invero, poiché non sarà semplice per le strutture sanitarie trovare idonee soluzioni assicurative (anche perché, tramite l’azione diretta, le compagnie saranno sempre coinvolte in ogni vicenda risarcitoria, senza grandi possibilità di rivalsa effettiva sui medici), il nuovo testo normativo consente il ricorso ad «altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera». Viene cioè in questione la possibilità di «autoassicurarsi», e quindi di porre in capo a se stessi il rischio di responsabilità. Ma sarà proprio la decretazione attuativa a regolamentare tali «misure analoghe».
Azione di rivalsa e azione di responsabilità amministrativa
L’articolo 9 contiene un'ulteriore disposizione, a completamento del nuovo regime della responsabilità sanitaria, che disciplina l'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria nei confronti dell'esercente la professione sanitaria. L’accoglimento di questa azione di rivalsa innanzitutto presuppone il dolo o la colpa grave di quest’ultimo. Essa, poi, può essere esperita, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento qualora il sanitario non sia stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno.
Si tratta di una norma chiave, che consente di confutare la tesi per cui il nuovo impianto normativo avrebbe concesso ai medici una sorta di preteso privilegio.
Si sono solo limitati alcuni dei guasti che una rigida applicazione di principi giurisprudenziali aveva creato in passato, provocando la genesi di fenomeni quali la medicina difensiva.
Probabilmente, si poteva anzi in teoria pure escludere la possibilità di un’azione diretta del danneggiato verso il medico della struttura (che si aggiunge a quella verso quest’ultima), sulla scia di quanto avviene per i magistrati (nonostante si tratti di situazioni che presentano molte differenze tra loro). Dopo aver previsto l’azione di rivalsa, ci si poteva anche aspettare, a tutela del medico, l’introduzione di un suo difetto di legittimazione passiva con surroga della struttura sanitaria, al pari di quanto previsto per la responsabilità dell’insegnante (art. 61 della legge 11.7.1980 n. 312). In altri termini, si poteva prevedere solo un’azione di rivalsa, senza azione diretta.
Comunque, sotto il versante dell’azione di rivalsa è stato ovviamente previsto, e non poteva essere diversamente, che la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o la compagnia assicuratrice non fa stato nel giudizio di rivalsa se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte di quel giudizio.
Una particolare disciplina è poi contemplata per la responsabilità amministrativa. In particolare, in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o socio-sanitaria pubblica o dell'esercente la professione sanitaria in ambito pubblicistico, il comma 5 dell’art. 9 stabilisce:
- che titolare dell'azione di responsabilità amministrativa, per dolo o colpa grave, è il Pubblico ministero presso la Corte dei Conti. Tale scelta comporta, tra le conseguenze positive – oltre a quelle note sull'esercizio autonomo dell'azione amministrativa, del potere riduttivo e della non trasmissibilità agli eredi, salvo l'illecito guadagno – anche quella di evitare il paradosso organizzativo che siano le strutture pubbliche a dover avviare le azioni di rivalsa in sede civile, magari legittimamente usando contro i propri professionisti quelle competenze e conoscenze di prevenzione e gestione del rischio non compiutamente acquisibili, nella prevedibile diffidenza dei professionisti a collaborare in attività che potrebbero essere usate contro loro stessi in un giudizio di rivalsa;
- che ai fini della quantificazione del danno il giudice tiene conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica in cui l'esercente la professione sanitaria abbia operato;
- che per l'importo della condanna in caso di azione di responsabilità amministrativa si prevede un limite per singolo evento (con esclusione dei casi di dolo) pari al valore maggiore della retribuzione lorda (o del corrispettivo convenzionale) conseguita nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento (o nell'anno immediatamente precedente o successivo) moltiplicato per il triplo. Tale limite vale sia per l'importo della condanna suddetta sia in relazione all'azione di surrogazione da parte dell'assicuratore che abbia pagato l'indennità (surrogazione, fino alla concorrenza dell'ammontare della suddetta indennità, nei diritti dell'assicurato verso il terzo responsabile);
- che per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato l'esercente la professione sanitaria, nell'ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e che il giudicato costituisca oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori.
In relazione alle strutture sanitarie private il comma 6 prevede, infine, che, se è accolta la domanda del danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria privata o nei confronti dell'impresa di assicurazione titolare di polizza con la medesima struttura, l'azione nei confronti dell'esercente la professione sanitaria deve essere esperita innanzi al giudice ordinario e la misura della rivalsa e quella della surrogazione richiesta dall'impresa di assicurazione – ai sensi dell'articolo 1916, primo comma, del codice civile – per singolo evento, in caso di colpa grave, non possono superare una somma pari al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguita nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo. Tale limite non si applica nei confronti degli esercenti la professione sanitaria che prestino la loro opera fuori da strutture, e quindi privatamente, ovvero all’interno di strutture in regime liberoprofessionale ovvero che si avvalgano di strutture nell’adempimento della loro obbligazione contrattuale assunta con il paziente.
Nel giudizio di rivalsa ed in quello di responsabilità amministrativa il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell'impresa di assicurazione, ma ciò solo se l'esercente la professione sanitaria ne sia stato parte.
Fondo di garanzia per i danni da responsabilità sanitaria
Si segnala infine l’istituzione di un fondo in favore delle vittime di malasanità, fondo che risulta operativo in tre casi:
1) qualora il danno sia di importo eccedente rispetto ai massimali previsti dai contratti di assicurazione stipulati dalla struttura ovvero dall’esercente la professione sanitaria;
2) qualora la struttura ovvero il sanitario risultino assicurati presso un’impresa che al momento del sinistro si trovi in stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa o vi venga posta successivamente;
3) qualora la struttura sanitaria o socio-sanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria siano sprovvisti di copertura assicurativa per eccesso unilaterale dell’impresa assicuratrice ovvero per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall’albo dell’impresa assicuratrice stessa. Tale Fondo sarà formato da contributi annuali provenienti da parte delle imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità sanitaria.
Un apposito regolamento del Ministro della Salute dovrà disciplinare in dettaglio la misura e le modalità di versamento del contributo e le forme di intervento del fondo.