Il caso
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 87/21 interviene sul tema dell’onere del pagamento dei costi dei consulenti chiamati ad esprimere le proprie valutazioni nell’ambito del procedimento di accertamento tecnico preventivo, previsto dall’art. 8 della legge n. 24/17, a pena di improcedibilità della domanda di risarcimento del danno per responsabilità sanitaria. Come è noto, mediante tale strumento di giurisdizione condizionata è fatto obbligo di attivare un accertamento tecnico preventivo, ai sensi dell'art. 696-bis c.p.c., al fine di valutare la sussistenza o meno della responsabilità ed eventualmente quantificare i danni. All’esito, qualora le parti non raggiungano un accordo conciliativo, la relazione tecnica potrà essere depositata nel successivo giudizio risarcitorio, con piena efficacia probatoria. In alternativa, si può ricorrere al procedimento di mediazione ex art. 5, co. 1-bis, del d.lgs. n. 28/2010, restando, invece, tassativamente esclusa la negoziazione assistita prevista dall'art. 3 d.l. n. 132/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 162/2014.
L’alternativa possibile tra accertamento tecnico preventivo e mediazione non è equivalente agli effetti processuali, giacché, in caso di fallimento della procedura conciliativa obbligatoria, la relazione che definisce l’accertamento tecnico preventivo potrà essere utilizzata anche nelle fasi successive del procedimento, mentre le attività peritali svolte dagli esperti nominati dal mediatore sono destinate a rimanere interne alla mediazione, salvo diverso accordo delle parti sulla producibilità in sede giudiziale.
La questione di costituzionalità era stata rimessa alla Corte dal Tribunale di Firenze, con ordinanza del 21 maggio 2020, con la quale era stata prospettata la violazione degli artt. 2, 3, 24 e 32 della Costituzione non soltanto in relazione ai citati artt. 8, commi 1 e 2, della legge 8 marzo 2017, n. 24, 669-quaterdecies e 669-septies c.p.c., ma altresì in relazione all’art. 8 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)» e all’art. 91 c.p.c., nella misura in cui tali norme non consentono al giudice di addebitare a carico di una parte diversa dal ricorrente il costo dell’attività del collegio peritale nominato.
E’ stato, in particolare, evidenziato da parte del giudice rimettente che la parte ricorrente è chiamata a sostenere i costi talvolta ingenti dell’accertamento peritale, a prescindere dagli esiti dello stesso, il cui onere potrebbe rappresentare, per chi non ha i requisiti reddituali per accedere al beneficio del patrocinio a spese dello Stato e non di meno versa in condizioni economiche precarie, un ostacolo all’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale. Ciò finisce per produrre una disparità di trattamento determinata dalle capacità economiche della parte, in violazione dell’art. 3 Cost. e, di conseguenza, un accesso differenziato alla tutela giurisdizionale, garantito dall’art. 24 Cost., con inevitabile rischio di pregiudizio per la tutela del diritto alla salute ex art. 32 Cost..
La decisione della Corte Costituzionale
La Corte ritiene, invece, che l’addebito dei costi della consulenza in capo al ricorrente nel procedimento di a.t.p. previsto dall’art. 8 della legge Gelli-Bianco non costituisca una valida ragione per addivenire ad una pronuncia di illegittimità costituzionale della norma, in quanto il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute; limite che viene superato esclusivamente qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire (sentenze n. 225 del 2018, n. 44 del 2016 e n. 335 del 2004), mediante l’imposizione di oneri o modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2019, n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016).
Inoltre, ha affermato la Corte che, individuando l’art. 8, comma 2, della legge n. 24 del 2017 una condizione di procedibilità alternativa ovvero la mediazione di cui al d.lgs. n. 28 del 2010, il ricorrente può, quindi, scegliere una via per lui meno onerosa, dal momento che la consulenza tecnica d’ufficio è espressamente posta a carico delle parti in solido dall’art. 16, comma 11, del decreto del Ministro della giustizia 18 ottobre 2010, n. 180 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28).
Per quanto concerne la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 3 Cost., la Corte osserva che nelle ipotesi in cui la parte ricorrente abbia i presupposti reddituali per ottenere il beneficio del patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’art. 76 del D.P.R. n. 115 del 2002, la situazione di disparità economica della stessa è riequilibrata dalla prenotazione a debito dei costi della consulenza medico legale (sentenze n. 268 e n. 80 del 2020 e n. 77 del 2018). Mentre per i soggetti esclusi da tale beneficio che potrebbero essere, in concreto, in difficoltà nel sostenere l’anticipazione delle spese della consulenza tecnica, la Corte rileva che la disciplina in materia di patrocinio dello Stato ha natura processuale in cui il legislatore gode di ampia discrezionalità (ex plurimis, sentenze n. 1 del 2021, n. 80 e n. 47 del 2020). Il correlato limite della non manifesta arbitrarietà della regolamentazione non è superato in un assetto nel quale la regolamentazione delle spese della consulenza tecnica come spese processuali è differita all’esito del giudizio di merito avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria sulla base della soccombenza (art. 91, primo comma, c.p.c.).
La Corte assume che nella vicenda in esame il differimento della regolamentazione delle spese processuali, comprensive delle spese della consulenza tecnica, all’esito del giudizio di merito avente ad oggetto la pretesa risarcitoria sia giustificato, in quanto, in assenza di un accordo tra le parti, il giudice non avrebbe un criterio per regolare le spese della consulenza tecnica preventiva ex art. 8 della legge n. 24 del 2017, come spese processuali, mancando in questa fase una vera e propria soccombenza, quali che siano le conclusioni dell’elaborato peritale. Ciò, pertanto, sempre a detta della Corte, non crea un ostacolo, eccessivo e rigido, che – in ragione delle condizioni economiche del ricorrente, in ipotesi precarie, ma non tali da consentire l’accesso al patrocinio a spese dello Stato – possa pregiudicare il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.).
Il principio di tutela giurisdizionale effettiva
Invero, la questione lungi dal tradursi in una problematica squisitamente processuale, magari circoscritta, involge tematiche di ben più ampio respiro come quella dell’effettività della tutela giurisdizionale, alla quale la Corte non pare aver dato particolare rilievo.
Pur considerando quanto “l’effettività” sia difficilmente definibile, essendo composta da elementi di diritto e di fatto [1], il relativo principio mutuato dal common law ha trovato pieno riconoscimento in ambito sovranazionale negli artt. 19 TUE, 263 TFUE e 6 CEDU, nonché in ambito nazionale in applicazione degli artt. 24, 103, 113 Cost. e dell’art. 1 del codice del processo amministrativo.
Il principio di effettività assolve alla funzione peculiare di far coincidere la forma con la sostanza nell’attuazione dei diritti, per fornire risposte adeguate alla lesione di interessi, patrimoniali e non patrimoniali [2]. Conseguentemente, le tutele processuali devono essere caratterizzate da una specifica idoneità ad assicurare una protezione pienamente satisfattiva delle situazioni soggettive.
Naturalmente, l'effettività della tutela non può essere invocata per prevaricare le regole del processo, ma per valorizzare le istanze sostanzialistiche, al fine di supportare decisioni da assumere attraverso una interpretazione flessibile delle regole del processo, assecondando percorsi interpretativi basati su una lettura razionale delle norme e dei principi processuali. [3]
Non si può fare a meno di ricordare come l'“effettività della tutela giurisdizionale” sia consacrata nell'art. 1 C.P.A.; per la precisione, “effettività” è la rubrica dell'articolo da cui prende avvio il testo del codice di procedura amministrativa. Diversamente, rispetto all'art. 1 c.p.c., che si limita a disporre quanto segue: «La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del codice”. Come è stato ben evidenziato, si coglie in tale formulazione “un rinvio alla teorizzazione, formalista e positivista, della legge processuale intesa come (unica) fonte legittimante della “giusta” tutela giurisdizionale». [4]
Evidentemente, il codice del processo amministrativo ha posto l'enfasi sulla strumentalità delle regole del processo rispetto alle ragioni della giustizia sostanziale piuttosto che sulle norme processuali come strumenti in sé. Tuttavia, con riferimento al processo civile è stato evidenziato come «l'interesse della parte ad una forma di tutela rende ammissibile la stessa nei limiti della massima strumentalità tra diritto sostanziale e processo, in ciò consistendo il principio di atipicità delle forme di tutela, che affianca quello dell'atipicità dell'azione ricavato dall'art. 24 Cost.» [5]
La Corte Costituzionale con la pronuncia dell’11 marzo 2015, n. 71, e già con quella del 26 gennaio 2009, n. 5, aveva ritenuto che l'art. 24 Cost. e l’art. 113 Cost. sono diretti a presidiare l'adeguatezza degli strumenti processuali approntati per la tutela in giudizio, avendo come ambito di osservazione il sistema processuale nel suo complesso. La Corte, infatti, ha precisato che la violazione dei suddetti parametri costituzionali potrebbe eventualmente considerarsi sussistente solo nei casi di sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione (18 giugno 2007, n. 237) o di imposizione di oneri che compromettano, irreparabilmente, la tutela stessa (ord. 23 maggio 2005, n. 213), e non anche qualora la norma processuale “non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela giurisdizionale” (9 aprile 2013, n. 85).
La stessa Corte con la sentenza del 19 dicembre 1986, n. 303 aveva, però, affermato una sorta di biunivoca corrispondenza tra il principio di soccombenza e il principio di tutela giurisdizionale effettiva, ritenendo espressamente che: «d[e]ll'accoglimento della domanda [...] è normale complemento la liquidazione delle spese e delle competenze, in difetto della quale il diritto di agire in giudizio, per antico insegnamento, sarebbe in guisa monca garantito». [6]
Il problema che rileva, tuttavia, rispetto alla fattispecie di cui alla pronuncia in esame da parte dei giudici costituzionali è che quando ha avuto normalmente corso l’accertamento tecnico preventivo previsto dalla disposizione censurata ed è giunto a conclusione con il deposito dell’elaborato peritale, il giudice non può provvedere sulle spese e, se ciò avviene, la pronuncia di condanna di una parte, a favore dell’altra, del pagamento delle spese della consulenza è considerata dalla giurisprudenza come “abnorme” e quindi contra ius [7].
L’ordinanza di rimessione ha il pregio di far emergere i limiti di siffatta interpretazione proprio nella prospettiva del rispetto del principio della tutela giurisdizionale effettiva. In concreto, il Tribunale di Firenze evidenzia la necessità di garantire l’accesso alla giustizia mediante la possibilità che il giudice rilevi la soccombenza virtuale, all’esito del deposito della relazione peritale, per evitare che la parte che ha promosso il relativo accertamento ne debba automaticamente sopportare i costi, da cui si ricaverebbe un sostanziale disincentivo rispetto al diritto di azione.
L’accoglimento della questione posta dal Tribunale avrebbe determinato l’elaborazione di una soluzione idonea a superare una palese incertezza normativa, attribuendo al giudice poteri più penetranti e diffusi rispetto a quelli previsti dal sistema normativo in materia di soccombenza. Tuttavia, non si può tralasciare, al riguardo, che nel 2005, nel 2009 e nel 2014 il legislatore nazionale, andando in senso opposto, è intervenuto per ben tre volte a modificare l'art. 92 c.p.c. in cui è disciplinato il principio di soccombenza. L’obiettivo è stato progressivamente quello di ridurre sempre, fino alla sua eliminazione, il potere discrezionale del giudice di compensare le spese per ragioni di equità, per dichiarati ed evidenti obiettivi di deflazione del contenzioso [8]. Invero, tali riforme sono state introdotte solo per disincentivare chi deve far valere in giudizio i propri diritti, nella speranza che i cittadini utilizzino meno la tutela giurisdizionale e si riduca il contenzioso, senza considerare se le controversie rinunciate per timore delle spese siano più o meno fondate [9].
L’aspetto paradossale del tema in esame è costituito dal fatto che entrano in conflitto le diverse declinazioni del principio di effettività [10] costituite dal diritto di accesso alla tutela giurisdizionale inteso anche come diritto ad avere strumenti processuali che si conformino alla situazione da tutelare, da cui deriva la necessità di non far gravare oneri eccessivi alla parte ricorrente, rispetto al diritto ad ottenere la tutela in tempi ragionevoli, dal quale consegue l’esigenza di deflazionare il contenzioso per garantire tempi più rapidi.
Manca nella sentenza della Corte il necessario giudizio di bilanciamento tra i profili in esame, che avrebbe potuto essere effettuato in chiave comparatistica, con attenzione all’ordinamento inglese in cui trovano applicazione i prospective costs orders, in presenza di gravi ed eccezionali ragioni [11]. Nello specifico, quando la controversia coinvolge una questione di “importanza pubblica generale” la cui decisione è d'interesse pubblico e si ritiene che l'attore desisterebbe dall'azione se rischiasse di subire l'applicazione rigorosa del principio di soccombenza, il giudice può deliberare un provvedimento che manda esente dal rischio di soccombenza la parte attrice. In tali casi, il giudice deve pronunciare l’ordinanza di protezione dei costi, qualora il convenuto abbia chiaramente una capacità superiore di sostenere le spese del procedimento rispetto all'attore e se si accerta che, a meno che il provvedimento non sia deliberato, l'attore probabilmente rinuncerebbe ad agire [12].
Naturalmente, tale provvedimento potrà essere emanato, a seguito del rigido accertamento dei necessari presupposti quali l’importanza pubblica della questione, l’interesse pubblico alla decisione, l’esercizio dell'azione a tutela di un interesse diffuso, la situazione di vantaggio economico del convenuto.
La stessa nostra Corte Costituzionale, peraltro, con la sentenza n. 77/2018 si era mostrata non insensibile alla tematica dell’ampliamento del potere discrezionale valutativo del giudice nella liquidazione delle spese, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, c.p.c., nella parte in cui non prevede che il Giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, oltre alle ipotesi tassativamente indicate dalla disposizione in esame, individuando, a titolo esplicativo, il caso del lavoratore che, per la tutela dei suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova). Significativo il passaggio in cui la Corte statuisce che sussiste la violazione del canone del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, comma 1, Cost.), in quanto la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti. In tal modo la Corte evidenzia lo stretto collegamento tra oneri processuali e diritto di accesso proprio alla tutela giurisdizionale.
Per le ragioni indicate, la sentenza della Corte Costituzionale n. 87/2021 in esame non si inserisce nel solco della suddetta pronuncia n. 77/2018, potendo ritenersi che non costituisca per le ragioni indicate un passo avanti rispetto alla prospettiva della realizzazione della tutela giurisdizionale effettiva nella materia in esame.
D’altra parte, la stessa Corte con la successiva sentenza n. 102 del 20 maggio 2021 dichiara l’illegittimità costituzionale del divieto previsto all’art. 15, IV comma, sempre della legge 24 marzo 2017, n. 24, di disporre l'aumento del 40% del compenso dei Consulenti tecnici d'ufficio, così come previsto dal T.U. spese di giustizia, nei casi di incarichi collegiali, affermando che: «La finalità di alleviare l'aggravio economico per le parti non può valere a legittimare la introduzione di una irragionevole soglia di contenimento del quantum dell'onorario, non potendo il soddisfacimento di un'esigenza siffatta tradursi in un ingiustificato sacrificio per i consulenti incaricati».
Il richiamo al carattere recessivo dell’effetto diretto a ridurre l’aggravio economico per le parti contenuto in tale ultima pronuncia induce a ritenere in modo inequivocabile che, assunta l’impossibilità di azionare la leva del contenimento dei costi, per evidenti ragioni di giustizia sostanziale rispetto ai soggetti chiamati ad operare nell’ambito del giudizio di riferimento, sarà necessario rimodulare l’onere degli stessi. Purtroppo, l’occasione di intervenire incidendo in modo sostanziale in una vicenda processuale legata ad una materia che travalica gli interessi individuali come la responsabilità sanitaria, non pare essere stata colta utilmente dalla Consulta nella pronuncia in esame, in cui traspare una velata resistenza ad affrontare la questione nella prospettiva del principio di effettività. In questo caso, l’applicazione di tale principio sarebbe servito per tutelare situazioni non enunciate in modo letterale nella norma, ma espresse dalla sua ratio, nel doveroso equilibrio delle regole e dei principi correlati all’esercizio del diritto di azione.
[1] Sul punto v. F. MATSCHER, La nuova Corte europea dei diritti dell'uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, 1, 217, il quale afferma che: «Fra le garanzie che un sistema giurisdizionale di tutela dei diritti deve offrire, ce n'è una che non è sempre presente nella mente dei processualisti: l'esistenza di una certa effettività. In realtà, nella dottrina generale del processo quasi non ve n'è traccia, il che è comprensibile in quanto l'"effettività" piuttosto fa parte della sociologia del diritto, essendo composta di elementi di diritto e di fatto, e, come tale, è difficilmente afferrabile dal punto di vista della dommatica giuridica. Siamo debitori della presa di coscienza di questa nozione di effettività allo spirito pragmatico del common law, dal quale è passata nel diritto internazionale ed attraverso questo al sistema di tutela internazionale dei diritti fondamentali.»
[2] Sul significato del principio di effettività e sul dibattito in corso sull’uso corretto di tale principio v. G.VETTORI, Effettività tra legge e diritto, Giuffré Francis Lefevre, 2020, il quale ha affermato che: «I principi non hanno solo una funzione suppletiva, integrativa e correttiva, ma anche nomogenetica in un sistema di fonti che impone anche a soggetti diversi dal legislatore di fare ciò che al legislatore non riesce più in via esclusiva». Deve richiamarsi al riguardo lo studio fondamentale di CM. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma, Vol I, Milano, 2002, 42, secondo cui: «...il principio di effettività inteso non come astratto criterio di validità della norma ma come espressione dell'esigenza che l'indagine di diritto assuma la norma così come essa si presenta nella realtà dell'esperienza di un determinato tempo e di un determinato luogo».
[3] In tal senso, I. PAGNI, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in Diritto Processuale Amministrativo, 2016, 401 ss. S. VALAGUZZA, I. MARTELLA, L’effettività della tutela nell’esperienza giurisprudenziale, in Diritto Processuale Amministrativo 2018, 2, 783.
[4] S. VALAGUZZA, I. MARTELLA, L’effettività della tutela nell’esperienza giurisprudenziale, cit.
[5] I. PAGNI, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, cit., 401 ss.
[6] Corte Costituzionale, 19 dicembre 1986, n. 303
[7] Corte Cassazione, Sezione Sesta Civile, sottosezione terza, ordinanza 22 ottobre 2018, n. 26573.
[8] M.GIAVAZZI, La rilettura del principio di soccombenza nella logica dell’effetto utile della norma UE, in Diritto Processuale Amministrativo 2020, 3, 70
[9] Sul tema G. SCARSELLI, Sulla necessità di tornare alla compensazione delle spese di lite per ragioni di equità, in Foro it. 2017, V, 342 e ss.
[10] A. CARRATTA, Tecniche di attuazione dei diritti e principio di effettività, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 2019, 1, 1
[11] Per un’analisi dei protective costs orders e della loro applicazione nella giurisprudenza anglosassone v. M. Giavazzi, La rilettura del principio di soccombenza nella logica dell’effetto utile della norma UE, cit.
[12] High Court of Justice, Queen's Bench Division, 29 gennaio 1998: «I conclude, therefore, that the necessary conditions for the making of a pre-emptive costs order in public interest challenge cases are that the court is satisfied that the issues raised are truly ones of general public importance, and that it has a sufficient appreciation of the merits of the claim that it can conclude that it is in the public interest to make the order [...] These necessary conditions are not, however, sufficient for the making of an order. The court must also have regard to the financial resources of the applicant and respondent, and the amount of costs likely to be in issue. It will be more likely to make an order where the respondent clearly has a superior capacity to bear the costs of the proceedings than the applicant, and where it is satisfied that, unless the order is made, the applicant will probably discontinue the proceedings» (testo tratto dall’articolo di Giavazzi, cit.).