Il lunedì inizia presto, in carcere, alle otto e mezzo. Due convalide per poi essere in tempo a una riunione organizzativa convocata in mattinata.
Il primo interrogatorio è lineare: pluripregiudicato per spaccio di stupefacenti di medio livello, esce dal giro, prova a lavorare come muratore, cambia idea, torna a trafficare intensamente, commette le due dabbenaggini di avere come base casa sua e di girare per contatti con una vistosa Alfa nera. La polizia ci mette un paio di settimane a ricostruire i fatti essenziali, a prenderlo un istante dopo una consegna e a trovare nella perquisizione tutto quello che transita nella richiesta del pubblico ministero e nell’ordinanza: le dosi cedute, il resto della cocaina a casa (un bel po’) i contanti (un bel po’) e la contabilità.
Poi tocca a Tommaso. Ovviamente non è il suo vero nome: usiamo quello del protagonista di Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini.
Dove “violenza”, allora come ora, è ciò che di sottilmente coattivo ed escludente circonda i protagonisti dei fatti della vita, anche quelli che reclamano una risposta dal sistema penale.
L’addebito a carico di Tommaso è di rapina impropria: il furto in supermercato che diventa articolo 628, secondo comma, c.p. perché «per mantenere il possesso della refurtiva e guadagnare l’impunità» ha aggredito l’addetto alla sicurezza che tentava di bloccarlo dopo le casse.
La refurtiva sono quattro bottiglie di gin nascoste nello zaino.
Ho già notato leggendo gli atti che proprio oggi compie ventiquattro anni.
Quando «si procede ai sensi dell’art. 21 disp. att. c.p.p.» cerco di sapere qualcosa di reale sulle «condizioni di vita individuale, familiare e sociale» di chi ho davanti.
Che è innanzitutto un ragazzo dal fisico minuto, con i capelli corti e leggermente diradati, felpa e pantaloni con griffe false.
Per prima cosa, alla declinazione della data di nascita, gli faccio gli auguri, e capisce che in un’udienza di convalida di arresto ci si può anche scambiare un sorriso.
Tommaso ha un diploma, è andato a lavorare all’estero per quattro anni, è tornato in Italia per vivere insieme al padre e a quel punto erano in due a casa a essere precari.
L’ultimo lavoro come magazziniere è finito qualche mese fa.
Ne sta cercando un altro e intanto ha fatto questa sciocchezza, come dice lui, racconta pure che ha strattonato il sorvegliante, perché «sono andato in panico».
Prima di procedere avevo chiesto, come sempre faccio, a lui e alla sua avvocata d’ufficio, se avevano avuto modo di consultarsi e se hanno bisogno di parlarsi ancora per decidere se rispondere o avvalersi.
Si sono già parlati, lei è diligente, si è letta le carte ed è andata a trovarlo prima.
Dunque Tommaso «ammette i fatti contestati».
Detto nella realtà: «no cioè… quello che c’è scritto è giusto… è andata così».
In auto gli hanno trovato altre tre bottiglie di superalcolici.
Ha già detto ai poliziotti e ammette di nuovo nell’interrogatorio che le aveva rubate poco prima in un altro supermercato.
Mi si formano nella mente le parole che ho usato altre volte per sottolineare, nell’ordinanza che di lì a poco scriverò, il significato, negativo per l’indagato, del fatto che la condotta illecita contro il patrimonio ha riguardato beni non essenziali ma anzi di lusso.
Poi intuisco che devo fargli una domanda in più.
Eh sì, le bottiglie servivano per organizzare una festa per il suo compleanno.
Credo di capire: per Tommaso avere la possibilità di esibire quei trofei, di stordirsi con gli amici, di “fare serata”, fa la differenza tra essere qualcuno e scivolare nella condizione di irrimediabile sfigato. Ed evitare di esserlo, alla sua età, rientra nei bisogni essenziali, non è un lusso.
Vengo da un tempo in cui un risultato esistenziale potevi cercare di ottenerlo insieme agli altri con la politica, lo studio, la musica, dentro una dimensione collettiva; Tommaso vive un tempo in cui un feroce individualismo illusorio lo spinge in recinti di sorda deprivazione, malamente compensati da disordinati consumi.
Quale formula esoterica che il decreto legislativo 150 del 2022 ci impone di scrivere quando si rinvierà qualcuno a giudizio aprirà una via “riparativa”? Perché qui si tratterebbe di riparare la vita di Tommaso, recuperare le occasioni che la scuola non gli ha concesso, permettergli di criticare i modelli di comportamento che decine di migliaia di ore di televisione e di social network gli hanno cucito addosso, farlo pensare a un’occupazione stabile e con le dovute garanzie come diritto e non come fortuna.
Gli faccio spiegare come e dove sta cercando un nuovo lavoro, è preciso, gli credo. Se gli va bene avrà un contratto a termine in una grande azienda metalmeccanica. Ascolto i pacati argomenti della sua avvocata.
Tutto questo finisce, scritto più o meno bene (e senza nessun accenno a beni non essenziali), dentro l’ordinanza con cui Tommaso avrà un obbligo di firma che vuole essere una specie di promemoria; mi sento utilmente vessatorio nel mandarlo a firmare tra le 8.30 e le 9.30, vagamente genitoriale nel dirgli, in quel modo, “alzati presto”.
Torno dal carcere, alla riunione organizzativa sono in ritardo di una decina di minuti.
Appena entro sento già echeggiare la parola chiave: smaltimento.
Tanti fascicoli a Tizia, tanti a Caio…, ma alla data del… sono stati smaltiti questi e non smaltiti quelli…, il programma di gestione prevede…, la perequazione… penne e matite che scrivono e sottolineano numeri.
Il messaggio dominante è quello che invita (costringe?) a una gestione paraziendalistica della giurisdizione.
Nemmeno genericamente “aziendalistica” perché la cultura d’impresa è molto più variegata: organizzazioni piatte, skill multiformi, canovacci motivazionali per alcune imprese innovative e alcune funzioni complesse; e, all’opposto, algoritmi produttivistici e regressione brutale della teleologia del lavoro per figure rese meccaniche dalle strette della platform economy ; e altro ancora.
Sicché sembra surreale che un lavoro, come quello di magistrato, che dovrebbe essere fortemente orientato alla/dalla motivazione, ricco di curiosità innovativa e di impegno intellettuale per l’estensione degli ambiti di tutela dei diritti, attento alle specificità del singolo caso, caratterizzato da un’organizzazione orizzontale e non gerarchizzata, sia in corso di trasformazione verso paradigmi (o algoritmi) da “rider dei fascicoli” ossequienti ai “capisquadra”.
Due giorni dopo trovo nella posta dell’ufficio il verbale di un’altra riunione, in cui leggo una raccomandazione alla «attenta verifica della pericolosità sociale tenuto conto che spesso vengono chieste attenuazioni a breve distanza dalla emissione della ordinanza genetica per cui appare difficile che in breve tempo vi sia una attenuazione del pericolo di recidiva […] spesso la documentazione allegata per ottenere autorizzazioni a svolgere attività lavorativa è incompleta o addirittura non veritiera nel senso che soggetti si prestano a dare disponibilità non reali. Necessita quindi molta attenzione».
Ho creduto a Tommaso quando mi ha spiegato che (e come) stava cercando un lavoro, ho ascoltato senza pregiudizi le parole della sua avvocata, e non me ne pento.
Spero che chi lo giudicherà continui a credergli, per permettergli di avere fiducia in se stesso; spero che chi lo giudicherà non lo smaltisca nella discarica di una giustizia degli affari semplici, perché non sono semplici né quelle bottiglie rubate, né la vita di Tommaso.