Qualche giorno fa per la rassegna "Milano film festival" ho visto "Comandante" film scritto e diretto da Enrico Maisto, figlio di Franco Maisto e di Anna Conforti.
Sono rimasto veramente stupito, emozionato e coinvolto: vedere e sentire la storia dei "nostri" anni '70 raccontata attraverso gli occhi di un ragazzo di soli 26 anni (che si ha avuto la fortuna e l'occasione di conoscere) è stato un vero privilegio ed una sorpresa bellissima.
Il film è raccontato in prima persona da Enrico che, sempre fuori campo, insegue con la cinepresa un antico amico di famiglia, Felice, vecchio comunista, e suo padre Franco, in una sorta di continuo botta e risposta su cosa è accaduto molti anni prima che egli nascesse, in una Milano percorsa dalle violenze e dalle rivolte degli anni '70; in particolare Felice, meccanico e militante comunista, racconta la storia delle vite " difficili" di quegli anni, anni in cui si rischiava di venire arrestati solo per aver dato accoglienza a qualcuno, anni in cui molti scelsero la lotta armata "perché se tu chiedi una cosa giusta e nessuno ti risponde, e tu la chiedi una seconda volta ed una terza ed una quarta, alla fine c'è sempre qualcuno che .... "..; Felice non si nasconde dietro le parole e, sebbene affermi di non aver fatto sua quel tipo di scelta, fa capire di aver ben conosciuto il clima che si respirava in quegli anni e di averne, in qualche modo fatto parte.
Franco Maisto, incalzato dalle domande di Enrico, spiega il suo lavoro di magistrato di sorveglianza "di frontiera", racconta il suo essere un giudice " eretico", spiega cosa voleva dire far rispettare la Costituzione ed i diritti che dalla stessa nascevano in anni in cui molti facevano finta di non sentire o di non capire.
Franco e Felice erano (e sono ancora) amici e, forse ,fu in virtù di questa amicizia nata in una zona di confine tra la legalità e la rivolta, che Franco evitò di subire anche lui un attentato terrorista: forse, perchè , per una sorta di rigurgito di pudore, né Franco, né Felice ne parlano in modo aperto, ma solo per allusione.
Poi Franco parla della morte di Guido Galli, un "uomo con la u maiuscola", e del significato che la stessa ha avuto per lui e per la generazione di giovani magistrati di cui faceva parte.
Io credo che Enrico, con la sua profonda semplicità e con una energia insospettata, abbia fatto una cosa bellissima, di cui tutti noi (e parlo di "quelli degli anni '70") dobbiamo essergli grati: ha avuto il coraggio di fare delle domande, con una gentile implacabilità che è pari solo alla loro drammatica importanza; perché non sono solo le belle risposte di Franco e di Felice a fare il film, ma sono soprattutto le sue domande "come hai fatto a..." Perché...."Come è possibile che..."
Senza le domande, senza la voglia di Enrico di capire veramente, di prendere a metaforiche martellate il piedistallo di bronzo paterno, le risposte sarebbero state supponenti, saccenti, poco credibili.
Ma le domande le hanno rese chiare, semplici, importanti.
E siamo stati tutti trasportati su quella linea di confine che tanti di noi, in quegli anni, hanno frequentato, rischiando di prendere pallottole (e non solo figurate) sia da un lato che dall'altro, ma (come dice Franco in un momento cruciale del film) "rischiando", cercando anche noi delle risposte, ma non accontentandoci di quelle semplificatorie che vedevano tutto il bianco da una parte e tutto il nero dall'altra.
Un film, una storia, sul confine di noi stessi.
Un film, una storia, bellissima.