1. Introduzione
Succedeva poco più di 11 anni fa che, dopo quasi vent’anni di iter, il Parlamento alfine approvava la L. n. 6/2004, istitutiva ex novo dell’amministrazione di sostegno.
Bastava leggere la prima disposizione novellata del Codice civile, l’art. 404, per capire cosa sarebbe poi accaduto.
Il nuovo istituto di protezione degli incapaci, ora con lessico normativo più moderno e “civile”, delle persone “prive in tutto o in parte di autonomia” [1], appariva infatti inequivocabilmente destinato a diventare un’autentica, ulteriore “valanga” che si sarebbe scaricata sui già esausti apparati di giustizia. Ed infatti ricordo nitidamente che in una riunione sezionale della primavera di quell’anno in questi termini - lo ammetto con un certo sussiegoso disappunto - feci notare la questione ad un collega che mi rispose gentilmente, ma seccamente: “Dato lo scopo di questa legge, ciò semplicemente significa che dovremo reinterpretare il nostro ruolo.Pensare che sarà meno Potere e più Servizio”.
Queste parole mi hanno fatto riflettere, anzi è stata una specie di “folgorazione sulla via di Damasco” (con tutte le necessarie cautele nel paragone, per carità).
L’anno seguente ho iniziato anche io ad occuparmi dell’attuazione della nuova legge e da lì è partita un nuova esperienza, anzi, e spero non sia troppo retorico, la scoperta di un Nuovo Mondo (di giustizia).
Ossia un’altra giustizia.
In questa lunga “navigazione” che tuttora prosegue verso sempre nuovi approdi esperienziali, di giurisprudenza e di organizzazione, ho viaggiato assieme a molte persone: altri magistrati, cancellieri, avvocati, amministratori locali, assistenti sociali, medici, psichiatri e soprattutto tanti, davvero tanti volontari, persone comuni.
Molti sono stati e sono tuttora i rapporti significativi che ho instaurato, ma di uno desidero parlare subito, per introdurre il ragionamento che mi sembra pregiudiziale a tutti gli altri che farò.
Il 18 ottobre 2013 sono andato a Reggio Emilia, per un Convegno che appunto riguardava le “buone prassi” applicative della L. n. 6/2004 e a margine dei lavori ho scambiato due parole con Francesco Caruso, Presidente di quel Tribunale e relatore anche lui.
Tra le cose che mi ha detto, una mi è rimasta davvero impressa. Caruso mi narrava che lui, provenendo da un’esperienza essenzialmente penalistica, di ‘sta legge non sapeva proprio nulla o quasi prima di diventare Presidente del Tribunale di Reggio Emilia e che l’aveva scoperta in un modo, per così dire, “traumatico”. Girando per i corridoi del Palazzo di giustizia nei primi giorni dal suo insediamento, ad un certo punto è entrato nel corridoio della cancelleria della volontaria giurisdizione e lo ha trovato letteralmente intasato da persone di tutti i generi e tipi, una specie di souk.
Allora si è informato ed ha appreso che:
- si trattava di gente, professionisti (avvocati, segretarie) o meno, che aveva a che fare con le amministrazioni di sostegno;
- erano comunque i “fortunati” che erano riusciti a prendere il numero (come al supermercato) di “accessi contingentati” di quel giorno, piazzandosi davanti alla porta del Tribunale alle 6 del mattino, mentre quelli che erano arrivati un po’ dopo non ci erano riusciti e quindi dovevano provare il giorno dopo.
Caruso mi ha detto “Come ho visto questa situazione e me l’hanno spiegata, io mi sono vergognato e quindi ho subito pensato che quello che avevo visto, nel mio Tribunale non poteva continuare. Allora ho cominciato a darmi da fare”.
Questi sono i due punti dai quali voglio partire.
Primo.
L’attuazione dell’amministrazione di sostegno implica un diverso modo di concepire il ruolo del G.T. e della Dirigenza giudiziaria, secondo la formula: Meno Potere, Più Servizio.
Secondo.
Bisogna darsi da fare e, con le risorse che (non) abbiamo, bisogna guardare fuori dai Palazzi di giustizia.
Ma, soprattutto, dobbiamo pensare che questo tipo di intervento giudiziario riguarda la fascia più debole (assieme ai minori) della nostra utenza; quindi quella che va “servita” per prima, quella i cui diritti, se non sono garantiti dal giudice, non sono garantiti da nessuno. Quindi semplicemente non ci sono, vengono negati. Punto.
Ed è perciò da auspicare che i Presidenti ed i G.T. riescano a provare il sentimento di Caruso, che sentano dentro di sè il “limite della vergogna”; ed è da insistere affinchè si diano da fare. Come Caruso ed i suoi G.T. Punto e a capo.
Adesso posso cominciare a scrivere del “perché” e del “come”.
2. I valori in contesto, i modi per non attuarli e una riflessione d’ordine generale
La tutela dei diritti delle persone deboli, in quanto “prive in tutto o in parte di autonomia”, è strettamente compenetrata nei valori costituzionali fondamentali.
Nelle sue prime disposizioni la Carta sancisce infatti che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo ..come singolo”; che “tutti i cittadini .. sono eguali davanti alla legge, senza distinzione .. di condizioni personali”; che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ..”.
Poi più avanti la Costituzione prescrive alla Repubblica di provvedere alla “tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, ma allo stesso tempo riserva alla legge, solo alla legge, la possibilità di limitare il “diritto di non curarsi”.
L’istituto dell’amministrazione di sostegno, direttamente e modernamente, attua sul piano della legislazione questi principi, secondo direttrici precise.
Essenzialmente:
- dalla idea meramente difensiva dei vecchi istituti, ma anche nel caso dell’interdizione fortemente coercitiva, si passa al concetto della “protezione promozionale” delle fragilità umane;
- si sposta il baricentro dalla cura del patrimonio a quello della persona e, soprattutto, si elimina lo stigma, divenendo “parola chiave” appunto non quella di amministrazione (mezzo), ma quella di sostegno (fine).
La “spina dorsale” della riforma è nei novellati articoli 404, 405, 406, 408, 410 del Codice civile, che, rispettivamente, danno respiro all’intervento normativo, improntano di flessibilità lo strumento di protezione, indicano i soggetti “attori” della procedura, con chiara attribuzione del ruolo di “protagonista” al beneficiario della stessa, i cui “bisogni” e la cui “aspirazioni” devono essere infatti prioritariamente considerati dal soggetto incaricato dal G.T. quale amministratore.
Si tratta quindi indubbiamente di un disegno riformatore illuminato e tecnicamente ben congegnato, che parla al futuro e, cosa rara, in questa materia ci fa “stare davanti” nel gruppo dei Paesi dell’ Unione europea.
Ma, a distanza di oltre 11 anni, quanto di queste disposizioni legislative è divenuto realtà ? in che modo, dove ?
Come spesso, troppo spesso accade in Italia, la “Repubblica” ed in primo luogo le sue Istituzioni giudiziarie hanno dato risposte quantomeno non adeguate e, quel che è peggio, diseguali al “programma egualitario/emancipatorio costituzionale” ed alle prescrizioni del legislatore ordinario attuativo. Questa volta la colpa non è del Parlamento; è sicuramente del Governo/Ministro della giustizia, un po’ anche del Csm, ma anche, molto, della magistratura.
Proviamo quindi a distribuire questi “torti”.
Pare perfino impossibile, ma dopo il tempo che è passato e nonostante un chiaro e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sui capisaldi della disciplina normativa in questione, bisogna anzitutto constatare che spira ancora forte in molti Tribunali italiani il Vento vandeano.
Si continua ad interdire, anche se la Cassazione ha praticamente ridotto al nulla questa vieta misura; si continua ad imporre l’obbligo dell’assistenza tecnica per la presentazione dei ricorsi per AdS, nonostante sin dal 2006 la S.C. abbia detto che non è così e che al più il G.T. procedente deve invitare il “beneficiando” a munirsi di difensore tecnico, qualora intenda applicargli misure restrittive della sua capacità d’agire pescando nelle norme sull’interdizione e sull’inabilitazione (art. 411, u.c., Cod. civ.).
“Giurisprudenza difensiva”, certo in larga misura determinata, sul piano oggettivo, dallo stato di difficoltà, in qualche caso financo estrema, nella quale si trovano gli uffici giudiziari italiani.
E qui ci sono le “colpe degli altri”, che ben conosciamo. Dal Ministero in giù.
Irrazionalità della geografia giudiziaria e della distribuzione degli organici, mancanza di risorse umane e materiali; quant’altro del solito, purtroppo ben noto, cahier des dolèances.
C’entra anche il Csm, sempre molto avaro di attenzioni per la funzione di G.T. (cfr. vigente Circolare sulle tabelle degli uffici giudicanti), al punto di arrivare a predisporre un format statistico completamente errato per la registrazione del lavoro tutelare, con la quasi offensiva sciatteria dell’errore, materiale, di riproporre lo stesso format previsto per il lavoro contenzioso civile ordinario (ma quando mai un G.T. pronuncia sentenze ex art. 281 sexies Cod. proc. civ. !?).
Insomma, quest’altra giustizia naviga nel mare piatto senza vento, ancorchè non di rado in tempesta, della giustizia italiana, su un barcone, tipo quelli che attraversano il Canale di Sicilia e che con tragica frequenza vanno a fondo.
Qui però tornano subito in ballo Caruso, Pedoja (il mio Presidente), i loro G.T. (quindi anche io) e quanti altri in giro per l’Italia, in questo “8 settembre italiano” cronico, invece che andarsene a casa o addirittura lavorare per il Re di Prussia, non si sono arresi ed hanno continuato a combattere ossia a darsi da fare.
Infatti l’ alternativa, fortunatamente meno drammatica che nell’ 8 settembre storico, è questa: arrendersi alle difficoltà evidenti e diffuse del servizio giudiziario pubblico o provare comunque a concretizzare la Costituzione e la legge, anche, in subjecta materia.
Come direbbe appunto l’Amleto di Shakespeare: that’s the question.
Non le parole dette nei convegni, ma i fatti, i comportamenti, l’impegno, le prassi c.d. “virtuose”, dimostrano che, sì, provarci è possibile e riuscire ad ottenere risultati quantomeno apprezzabili anche.
Ad una condizione, anzi due.
La prima, pregiudiziale, è avere la consapevolezza del ruolo che la Costituzione assegna all’Istituzione giudiziaria ed a chi la fa vivere, che prima di tutto e di tutti, sono proprio i magistrati.
Lo statuto costituzionale italiano dell’ Ordine giudiziario non è comune a quello degli altri funzionari pubblici. E’ diverso, speciale, perché diversa, speciale è, ontologicamente, la funzione giudiziaria, quale “prima garanzia” che la Costituzione stessa offre, senza distinzione di condizioni personali, a tutela dei suoi diritti, a chi -giovane o anziano, donna o uomo, italiano o straniero - vive sul territorio della Repubblica.
Ma tutelare i diritti non è solo giurisprudenza, non è solo diritto, è anche organizzazione.
Più precisamente, in virtù di quello “statuto costituzionale speciale”, è auto organizzazione: dal governo autonomo alle dirigenze/semidirigenze al singolo magistrato. I magistrati, dirigenti o no, non possono, mai, cavarsela dicendo che non hanno il cancelliere, la carta, il toner, la benzina per la macchina dell’ufficio: devono insistere con tutta la forza per averle, ma intanto darsi da fare lo stesso.
I Presidenti devono predisporre tabelle e programmi organizzativi congrui; i giudici tutelari metterci l’impegno, l’intelligenza e, soprattutto, la passione.
Per fare il magistrato, in Italia, di passione ce ne vuole davvero tanta; senza passione al massimo c’è solo qualche buona statistica; in alcune funzioni però, il minorile ed il tutelare su tutte, senza passione, almeno un minimo di passione, non si possono produrre risultati adeguati alla loro delicatezza; senza passione le procedure sono soltanto numeri di registro di cancelleria, le persone diventano solo dei numeri.
La seconda condizione è proprio questa: la consapevolezza che i diritti hanno una gerarchia, non sono tutti uguali, perché così, da sempre, è correttamente interpretato il principio di uguaglianza. Ed allora bisogna pensare che i diritti delle persone deboli vengono per primi.
E comportarsi di conseguenza, ritenendo comunque e sempre invalicabile il “limite della vergogna”.
Allora, bisogna aprire le porte dei Tribunali a queste persone, non sprangarle, come ancora in troppi Tribunali italiani si fa.
3. Le vie di attuazione del programma costituzionale e della normativa codicistica, in sintesi.
Se si intende la giurisdizione secondo questi due ragionamenti, allora si può iniziare a pensare come fare e qui la risposta è altrettanto chiaramente data dall’esperienza di chi in questi anni ha provato a “prendere i diritti delle persone fragili sul serio”.
Per tenere le porte dei Tribunali aperte ed accogliere questa marea di gente variamente dolente (anziani, disabili, tossicodipendenti, ludopatici, malati di mente ed altre fragilità personali), che necessita di tutela giudiziaria e la chiede, rebus sic stantibus bisogna per forza fare delle alleanze.
Partendo dalle altre Istituzioni pubbliche che si muovono sullo stesso terreno, con competenze complementari ossia gli Enti locali che gestiscono le politiche di assistenza e la sanità, mentale in particolare. Chiaro, anche lì si possono trovare ignavie varie, ma anche no e bisogna cercare, che più spesso si trova.
Così come spesso si trovano sinergie importanti nel “privato sociale” ossia quell’ampio bacino solidaristico, che poi è la fortuna vera di questo Paese, abituato a muoversi e progredire “a prescindere” dallo Stato e dall’intervento pubblico in generale, spesso, troppo spesso paralizzato dall’ inefficienza.
Peraltro, volendo per un attimo recuperare un discorso più tecnico giuridico, si tratta in questo modo di applicare due principi costituzionali ed anche eurounitari: quello di leale cooperazione e quello di sussidiarietà.
Stipulare patti quindi, investire sul volontariato: i risultati possono essere enormi ed enormemente importanti per questa speciale mission giudiziale.
Per chiarirlo icasticamente e, a questo punto, farla breve, voglio usare parole non mie, ma ancora di Francesco Caruso, che ho incidentalmente, quasi accidentalmente attinto da un suo ennesimo “conflitto a fuoco”, non direttamente pertinente, in una mailing list, credo Areaperta.
Parlando della sua esperienza, come poi gli ho detto e mica per prenderlo in giro anzi, di uso alternativo della dirigenza giudiziaria ed in particolare dei volontari che operano nel suo Tribunale, Caruso ha scritto (a me è piaciuto un sacco, tanto che gli ho chiesto ed ho ottenuto il permesso di farne uno spot): “Nessuno ha chiesto loro niente. Amano il tribunale e la giustizia e vorrebbero che funzionasse, per questo si rimboccano le maniche perché la giustizia è bene comune .. Lavorano a turno, gratuitamente è ovvio, alcune ore a settimana in spazi attrezzati e da loro sistemati, che sono stati loro concessi e costituiscono il luogo più umano, accogliente e civile del tribunale dove i cittadini trovano informazioni, assistenza, aiuto morale e dal quale le persone escono con una idea diversa degli spazi in cui si amministra giustizia. Danno un grande mano perché amano la giustizia e i valori che vorrebbero fossero affermati e che noi condividiamo perché sono quelli della Costituzione. Se anche avessimo tutto quello che ci serve, non rinuncerei per nessuna ragione al contributo di questi saggi che ci guardano nel modo in cui lavoriamo e ci giudicano, come deve essere. E finchè ci aiutano mi convinco di non deludere le loro aspettative. Non è il Mulino Bianco; qui otto anni fa sono state ammazzate tre persone; un avvocato è vivo per miracolo, la crisi si sente. E pure gli avvocati, che pure ci rimettono un po’ di soldi e qualche cliente, sono solidali e perfino i notai fanno consulenza gratuita”.
Quello che scrive Caruso in questo modo assai bello, direi lirico, non sono “parole”: sono “fatti” e questi “fatti” non si fanno solo a Reggio Emilia, ma anche a Monza, in tutti i Tribunali del Distretto della Corte d’appello di Trieste ed in altri Tribunali italiani.
E se si fa, vuol dire che si può fare, anche se “non abbiamo tutto quello che ci serve”, come scrive Caruso. Perché non si tratta, in realtà di “rendere l’impossibile, possibile” [2], ma assai meno titanicamente di “rendere possibile il possibile”.
Certo l’Italia è un Paese lungo e stretto; certo le realtà sociali ed istituzionali sono molto diverse tra Nord e Sud, tra grandi città e città piccole; certo quindi che le modalità tattiche operative possono variare, anche di molto.
Più o meno pubblico, più o meno volontariato, più o meno professionisti: la ricetta regionale/locale può essere diversa, anche di molto. Ma gli “ingredienti” di base sono quelli: patti inter-istituzionali pubblici (Tribunali/Enti territoriali socio assistenziali e sanitari); trivellazione del bacino del volontariato.
Le “buone prassi” dimostrano che, se si percorrono queste strade, i risultati, di quantità e di qualità vengono.
4. I risultati possibili, appunto
Dopo tutte queste, forse, “belle parole”, si può essere anche più concreti.
“Patti e trivellazioni” cosa possono dunque dare effettivamente ?
Anzitutto punti di assistenza/ascolto, Sportelli per gli AdS. Front and back offices per aiutare e seguire, fare i ricorsi, i rendiconti, le istanze per la straordinaria amministrazione e per i trattamenti sanitari. In sostanza curare tutta l’interlocuzione, formale e no, dell’utenza non professionale (di gran lunga quella prevalente delle AdS) con l’Ufficio del G.T.
Un lavoro enorme, che va ramificato sul territorio, tramite il quale si ottengono essenzialmente tre cose:
- sicurezza e soddisfazione degli stakeholders;
- moltiplicazione delle risorse ausiliarie di assistenza del giudice;
- decomplicazione del lavoro del giudice.
Insomma, tanti “uffici del processo” o se si preferisce un “grande, collettivo ufficio del processo”.
In secondo luogo questa policy making può dare amministratori di sostegno per le persone che non ne avrebbero o, per le ragioni più varie, non ne hanno di idonei.
Non bisogna dimenticare che, se il “beneficiario” è l’”attore protagonista” della procedura, senza qualcuno che fa l’AdS la procedura never start. E non credo che sia giusto fare sempre tutto quanto con il ricorso all’avvocatura, per due ragioni, fondamentali: perché gli avvocati sono professionisti e hanno da fare il loro lavoro, quindi non sempre possono avere il tempo necessario per la cura della persona, per i suoi bisogni, per le sue aspirazioni; perché come professionisti, giustamente, vanno pagati e, purtroppo frequentemente, i beneficiari delle AdS non hanno il becco di un quattrino o quasi.
Ed allora che si fa? Si fa la AdS solo per chi se la può permettere ?
La risposta negativa mi sembra scontata e perciò l’unica via, anche per questa fondamentale, anche se residuale, esigenza, è attingere al bacino del volontariato. Non con gli annunci sul giornale però, ma costruendo, assieme alle altre Istituzioni pubbliche di cui sopra, percorsi di “collegamento certificato” tra le associazioni del volontariato ed i Tribunali. Come del resto in tutte le “buone prassi” che conosco si è, pur variamente, fatto.
E tutto questo non è affatto un modo naif di intendere l’ innovazione giudiziaria, perché ha passaggi tecnici e di investimento nelle risorse umane e materiali molto precisi, codificati e codificabili. Convenzioni, formazione e legislazione regionale (già fatta in Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Provincia autonoma di Trento e Liguria), anche per la parte di co-finanziamento, ne sono gli strumenti principali.
In sostanza si tratta di costruire una vera e propria “rete infrastrutturale di servizio”. E’ un grosso investimento comune dell’Istituzione giudiziaria e delle altre Istituzioni pubbliche locali coinvolte, che, come tutti gli investimenti, se fatti bene, poi rendono quello che ci si aspetta in termini di efficienza e qualità dei servizi resi.
Ma credo di aver quasi esaurito il mio spazio, spero non la pazienza di chi mi legge, ed ancora però voglio aggiungere un ultimo paragrafo di considerazioni, anche finali.[3]
5. Conclusioni. La necessità di completare il percorso riformatore sul piano normativo.
Che le norme della L. n. 6/2004 ed il loro “illuminismo” non bastino a dare “corpo reale”, effettività ai valori costituzionali che impongono la piena tutela dei diritti dei soggetti deboli credo sia abbastanza chiaro. Che serva un’azione intelligente e generosa “alla Caruso” e di quelli come lui, in alto ed in basso della struttura giudiziaria, è altrettanto chiaro.
A legislazione vigente può bastare e financo avanzare.
Mi sento però di spendere alcune ultime parole su un’iniziativa legislativa che purtroppo langue da ormai più di un anno alla Camera dei Deputati e che invece meriterebbe davvero una corsia preferenziale.
Per completare il disegno normativo di attuazione di quei principi/valori della Costituzione, c’è infatti bisogno di uno sforzo ulteriore del legislatore statale; appunto quello di portare alla conclusione la procedura di approvazione della proposta di legge, Atti Camera, XVII legislatura, n. 1985, che ha il titolo assai significativo di “Modifiche al codice civile e alle disposizioni per la sua attuazione, concernenti il rafforzamento dell’amministrazione di sostegno e la soppressione degli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione”.
L’ispiratore teorico principale di questa proposta di legge, come 11 anni fa di quella poi divenuta la L. n. 6/2004, è Paolo Cendon, professore emerito di diritto privato dell’Università di Trieste. Ed è senz’altro per questa ragione che il testo normativo è tecnicamente raffinato, ma anche complesso e non è dunque certo possibile operarne in questa limitata sede nemmeno un’ esegesi minima.
Mi limito perciò a sottolinearne il forte significato simbolico e di politica del diritto, che -in particolare - con l’abrogazione espressa dell’interdizione si salda e completa il grande disegno riformatore della L. 180/1978, giustamente e comunemente conosciuta come “legge Basaglia”.
Vi è poi nelle disposizioni più di dettaglio e tecniche una precisa ri-sistemazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, anche per normare e dare quindi riferimento ermeneutico preciso a molte questioni interpretative affrontate e non del tutto risolte nell’esperienza attuativa della legge n. 6/2004.
Tra queste, not least, nel testo della pdl si profila con precisione tecnica il definitivo smantellamento dei caposaldi della resistenza vandeana, togliendo la possibilità di interdire e chiarendo, ma con il “peso” della scelta legislativa, la questione della difesa tecnica nelle procedure di AdS, così come, purtroppo senza quel “peso”, peraltro la Cassazione ormai da tempo e consolidatamente ha fatto.
Sono quindi convinto che approvare questa legge sarebbe una buona cosa e che appoggiarne l’iter lo sia altrettanto. Auspico dunque che Area e chi –persone e gruppi- è in vario modo dentro Area, ne faccia una questione di politica giudiziaria da promuovere con decisione in tutte le sedi opportune.
Per dimostrare una volta in più di credere che “i diritti vanno presi sul serio” e che la giustizia è un bene comune, come l’acqua dei pozzi. [4]
[1] art. 1 della legge n. 6/2004, “La presente legge ha la finalita' di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacita' di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.
[2] Nota frase di Franco Basaglia, allorchè battagliava per la chiusura dei manicomi.
[3] Per approfondimenti ed indicazioni più dettagliate devo necessariamente rimandare, e me ne scuso, al mio L’ attuazione della L. n. 6/2004 tra giustizia, politiche sociali e solidarietà. Dalle parole ai fatti, in Il diritto di famiglia e delle persone, aprile-giugno 2014, p. 936 ss.
[4] in “chiusa nobile”, una eco di Dworkin ed una citazione di Voltaire.