Il primo decreto-legge dell’anno, n. 1 del 2021, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 3 del 5 gennaio 2021 è, senza sorpresa, dedicato all’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Il testo normativo si compone di sette articoli di cui i primi quattro riguardano le limitazioni agli spostamenti da applicarsi dal 7 al 15 gennaio 2021 e all’ipotizzata progressiva ripresa dell’attività scolastica in presenza, mentre l’art. 5 è titolato Manifestazione del consenso al trattamento sanitario del vaccino anti Covid-19 per i soggetti incapaci ricoverati presso le strutture sanitarie assistite. Un precetto normativo, che appare un “intruso” rispetto al complessivo testo legislativo d’urgenza[1].
L’articolo in esame è volto a disciplinare le modalità di espressione del consenso al trattamento vaccinale anti Covid-19: esso si snoda in dieci commi che, nel loro sviluppo, si ritiene vorrebbero prevedere tutte le possibili casistiche connesse alla incapacità di un soggetto ricoverato presso «strutture sanitarie assistite», introducendo un procedimento strutturato in modo da favorire l’espressione del consenso al trattamento vaccinale.
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L’elemento comune alle fattispecie trattate è costituito dal ricovero del soggetto incapace presso «strutture sanitarie assistite, comunque denominate» (c. 1), «residenze sanitarie assistite (RSA)» o «analoga struttura comunque denominata» (c. 2). A riguardo, sorge da subito un interrogativo in merito al campo di applicazione della disposizione in esame. Come noto, sono molteplici le tipologie di strutture di ricovero (nosocomi, residenze sanitario assistenziali per anziani, residenze per disabili, comunità psichiatriche, centri diurni, etc.), sicché appare lecito domandarsi se le regole contenute nella esaminata normativa d’urgenza debbano trovare applicazione, ad esempio, anche per i soggetti incapaci ricoverati in una struttura ospedaliera ovvero per gli ospiti di una comunità psichiatrica (per l’utenza delle comunità per minori già l’art. 402 c.c. attribuisce poteri tutelari - seppur temporanei - all’istituto di assistenza, pertanto non dovrebbero crearsi difficoltà interpretative). Si ritiene non di poco conto delineare il perimetro esatto di applicazione della norma, in considerazione delle specifiche procedure ivi dedicate alle modalità di espressione del consenso al trattamento vaccinale. La terminologia aspecifica utilizzata e, soprattutto, l’accezione «comunque denominata» parrebbe far propendere per una lettura - e dunque un’applicazione - estensiva della norma, tale da riguardare ogni soggetto incapace che si trovi ricoverato in qualsivoglia struttura di cura, indipendentemente dal fatto che esse abbiano una vocazione prevalentemente sanitaria o assistenziale, ma allo stato il quesito, ad avviso di chi scrive, rimane aperto.
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Un’ulteriore considerazione preliminare deve essere svolta con riguardo all’oggetto della previsione normativa: il consenso al trattamento vaccinale anti Covid-19.
L’impianto dell’articolo in esame non opera una qualificazione espressa di tale trattamento: il costante richiamo operato alla legge n. 219 del 2017 potrebbe portare a ritenere applicabile la definizione ivi contenuta che, lo rammentiamo, si riferisce a «qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso» (art. 1, c. 5, l. 219/2017). E’ legittimo dubitare dell’aderenza sostanziale tra il trattamento vaccinale e le ipotesi previste dal dettato normativo citato.
Certamente vertiamo in una ipotesi di unicità della fattispecie: forse solo richiamando i principi espressi dalla nostra Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dalla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo e dalla Convenzione di Oviedo, è possibile operare una corretta qualificazione del trattamento vaccinale di cui si discute (nel sottile confine tra diritto alla salute e dovere alla salute, di cui all’art. 32 Cost. che, tuttavia, prevede espressamente una riserva in favore della legge che può imporre un trattamento sanitario, seppur sempre nel rispetto della dignità umana – si veda la c.d. “legge vaccini” n. 119 del 2017).
Sulla possibilità di qualificare il trattamento vaccinale anti Covid-19 quale trattamento d’urgenza diremo in chiusura del presente commento.
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Vediamo ora i soggetti coinvolti nella fattispecie normativa.
Le ipotesi di titolarità ad esprimere il consenso per il trattamento vaccinale si snodano attraverso una principale dicotomia (commi 1 e 2): a) soggetti incapaci, ricoverati, già assistiti da un tutore, curatore o amministratore di sostegno, ovvero che abbiano in precedenza nominato un fiduciario ai sensi della legge n. 219 del 2017 (DAT); b) soggetti incapaci naturali «ovvero» (il disgiuntivo disorienta, potendosi ritenere preferibile l’uso della congiunzione aggiuntiva «e») mancanti delle figure di sostegno di cui al comma precedente anche solo per irreperibilità (testualmente «in alcun modo reperibili») degli stessi per almeno 48 ore.
Nella prima ipotesi, è il tutore/curatore/amministratore di sostegno/fiduciario ex art. 4 l. 219/2017 il soggetto titolato ad esprimere il consenso al trattamento vaccinale; nella seconda ipotesi, invece, viene introdotta una specifica eccezione alla legge n. 6 del 2004, posto che si attribuisce ex lege al direttore sanitario o, in difetto, al responsabile medico della residenza sanitaria assistita (RSA), o, mancando entrambi, al direttore sanitario della ASL territorialmente competente sulla struttura stessa o a un suo delegato, «la funzione di amministratore di sostegno, al solo fine della prestazione del consenso». Tale scelta legislativa muove da subito non poche perplessità circa le ricadute in termini fattuali e giuridici, soprattutto in ragione delle dinamiche in seguito previste per la manifestazione del consenso.
Si aggiunga che, nel complesso processo di formazione del consenso di cui tratteremo infra, tali figure professionali, di per sé normalmente digiune delle dinamiche connesse alla rappresentanza giuridica di persone in stato di incapacità, vengono così onerate di compiti di non scarso rilievo: esse sono infatti chiamate a dare atto delle ricerche dell’eventuale tutore/curatore/AdS/fiduciario e delle verifiche per accertare lo stato di incapacità naturale dell’interessato, oltre che della adesione alla rigorosa procedura prevista.
E’ lecito chiedersi come tali gravose attività possano essere concretamente svolte e documentate, soprattutto in un complessivo contesto emergenziale che già ha sovraccaricato di incombenti e responsabilità le figure professionali citate e tutta l’organizzazione personale e strutturale degli Enti gestori. Oltre alle problematiche connesse alla fattibilità concreta, ci si chiede inoltre quali siano le possibili conseguenze giuridiche in ipotesi di mancata prova delle prescritte attività.
E’ vero infatti che già il comma 8 dell’art. 1 L. 219/2017 onera ogni struttura sanitaria pubblica o privata di garantire con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi espressi nella citata normativa, ma con ciò rafforzando un ruolo di cura già proprio (è correttamente precisato che «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura»). Nella fattispecie che oggi ci occupa, invece, si delega ai rappresentanti della struttura non solo il compito di assicurare, tra gli altri, il diritto all’auto-determinazione del paziente, ma anche la funzione di assumerne la piena rappresentanza con riferimento ad un trattamento vaccinale, non dichiarato a monte dalla legge e dalla comunità scientifica quale presidio terapeutico urgente salvavita.
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I commi 3 e seguenti sono dedicati all’articolato processo di formazione del consenso.
In sintesi, è previsto, specificamente, che i soggetti sopra menzionati (tutore/curatore/AdS/fiduciario/direttore sanitario/responsabile medico/direttore sanitario ASL) debbano esprimere in forma scritta il consenso al trattamento vaccinale se conforme alla volontà espressa dall’interessato, se tale trattamento risulti idoneo alla tutela della salute dell’interessato e sentiti («quando già noti»), con parere favorevole, il coniuge o il soggetto unito civilmente o il convivente stabile o, mancando questi, il parente più prossimo entro il terzo grado (c. 3).
Presentandosi tutte le condizioni indicate, il consenso, dice la norma, è «immediatamente e definitivamente efficace» (c. 4). Ci si interroga da subito in merito all’avverbio «definitivamente», poiché – quantomeno - pare creare un irrisolvibile attrito con l’art. 1, c. 5, L. 219/2017, nella parte in cui è espressamente previsto il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento; nonché, in linea più generale, si ritiene strida con i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale e sovranazionale, in ossequio, tra gli altri, al principio di auto-determinazione della persona.
Si articola successivamente (c. 4) una precisa ipotesi, che può nascere dal mancato consenso dei soggetti sentiti (coniuge, unito civilmente, stabile convivente, parente più prossimo entro il terzo grado): in caso di dissenso di questi, infatti, si prevede che il direttore sanitario/responsabile medico/direttore sanitario ASL possano ricorrere al Giudice Tutelare per chiedere di essere autorizzati a sottoporre a vaccino l’interessato. Si noti che non sono menzionati nel comma in esame gli altri possibili “attori”: tutori, curatori, amministratori di sostegno o fiduciari ex L. 219/2017. Che tale mancata indicazione sia espressione di un implicito rinvio alla normativa che disciplina i poteri dei predetti soggetti è una possibile ipotesi, non potendosi immaginare che, in una lettura guidata dalla ratio sottesa alla normativa emergenziale in questione, i soggetti già pienamente legittimati per provvedimento giurisdizionale siano dotati di “strumenti di reazione” più limitati, a fronte di un eventuale diniego, rispetto a figure di sostegno temporanee. Dunque, si deve ritenere che il ricorso al Giudice Tutelare sia sempre possibile per tutte le figure di sostegno.
A riguardo, superato l’inciso più sopra espresso, si osserva che la norma prevede come il ricorso al Giudice Tutelare da parte dei soggetti indicati (al di là delle complicazioni di carattere pratico in termini operativi, temporali e di competenze, che esso comporta) sia stabilito quale mera possibilità: rimane dunque non disciplinata espressamente l’ipotesi in cui il G.T. non venisse interpellato per richiedere l’autorizzazione a sottoporre a vaccino l’interessato. I profili di responsabilità conseguenti si ritiene siano imponderabili.
Esaminiamo ora l’ipotesi alternativa a quella appena descritta che prende le mosse da due condizioni che devono ricorrere contemporaneamente (c. 5): il «difetto di disposizioni di volontà dell’interessato, anticipate o attuali» (sul punto, ci si chiede come chiunque potesse prevedere, se non in tempi recentissimi, una ipotesi eccezionale quale quella del vaccino anti SARS-CoV-2, certamente non prevedibile tra i trattamenti di cui alla L. 219/2017, salvo ripararsi - con ampie riserve - in orientamenti precedentemente espressi in merito a trascorse campagne vaccinali) e l’irreperibilità o indisponibilità del coniuge, della persona unita civilmente, del convivente stabile o, in difetto, del parente più prossimo entro il terzo grado.
In tale circostanza si sviluppa una minuziosa e articolata procedura: se l’amministratore di sostegno individuato ai sensi del comma 2, dunque il direttore sanitario della RSA o il responsabile medico o, in difetto, il direttore sanitario dell’ASL competente – anche in questo caso sono esclusi dalla espressa previsione di legge le figure di sostegno “ordinarie”, sicché si pone un dubbio di applicazione di questo precetto normativo nei loro confronti - sottoscrive il consenso al trattamento vaccinale, deve attendere la convalida (espressa o tacita) da parte del Giudice Tutelare.
A tale scopo, introducendo un ulteriore onere a carico delle strutture di ricovero, il legislatore ha previsto l’obbligo, da parte della direzione della struttura in cui l’interessato è degente, di comunicare immediatamente al G.T. competente per territorio i seguenti dati e informazioni: il consenso (i cui effetti sono sospesi sino al completamento della procedura di convalida in esame), la documentazione comprovante le verifiche per accertare la condizione di incapacità naturale dell’interessato, il difetto di una sua volontà espressa in merito al trattamento vaccinale, la irreperibilità per almeno 48 ore del tutore/curatore/ads/fiduciario ove in precedenza nominati, l’idoneità del trattamento quale strumento per la tutela della salute dell’interessato, la indisponibilità/irreperibilità del coniuge o della persona unita civilmente o del convivente stabile o, in difetto, del parente più prossimo entro il terzo grado. L’elenco così gravoso degli incombenti si commenta da sé.
Da tale comunicazione si dà il via ad uno stringente timing:
- entro 48 ore dal ricevimento degli atti (qui si potrebbe porre una questione legata alla tempistica connessa alle funzioni di cancelleria, molto spesso oberate e chiamate - nell’ipotesi così introdotta - ad un ulteriore e prevedibilmente rilevante carico di lavoro), il Giudice Tutelare, operate le verifiche e accertamenti del caso, emette decreto motivato di convalida o di diniego della convalida;
- entro 48 ore dalla scadenza del termine precedente (dunque, non dalla emissione –eventuale - del provvedimento), il decreto è comunicato all’interessato (che, ricordiamo, è incapace) e al relativo rappresentante (cioè l’AdS “funzionalmente nominato” ai sensi del c. 2 art. 5 D.L. 1/2021, dunque il direttore sanitario della struttura o il responsabile medico o, in difetto, il direttore sanitario dell’ASL) a mezzo PEC presso la struttura (perciò nuovamente onerata di ulteriori attività, incombenti e responsabilità).
Il mancato rispetto di tali termini comporta conseguenze severe che sono evidentemente volte alla conservazione del consenso già espresso dal rappresentante “funzionalmente nominato” ex lege. E’ infatti prevista la caducazione di ogni effetto del provvedimento del G.T. eventualmente comunicato oltre il termine indicato, nonché, in ipotesi di decorrenza del termine per la comunicazione del decreto senza comunicazione alcuna, il consenso espresso si deve considerare «a ogni effetto convalidato e acquista definitiva efficacia ai fini della somministrazione del vaccino» (sulla “definitività” dell’efficacia del consenso, richiamiamo quanto già osservato in precedenza).
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L’articolo in esame si conclude con il comma 10, che è succintamente dedicato all’ipotesi di «rifiuto della somministrazione o del relativo consenso da parte del direttore sanitario o del responsabile medico, ovvero del direttore sanitario della ASL o del suo delegato»: in tale fattispecie, è prevista la possibilità per il coniuge, per la persona unita civilmente o stabilmente convivente, e i parenti fino al terzo grado, di ricorrere al Giudice Tutelare affinché disponga la sottoposizione al trattamento vaccinale.
Non si nasconde come tale comma, conclusivo di un decalogo di faticosa lettura e - si ritiene - di ancor più difficoltosa applicazione, offra dimora a numerosi dubbi interpretativi. La norma si riferisce infatti al «rifiuto della somministrazione» senza indicare quale soggetto ne sarebbe autore. Evidentemente non può riferirsi, salvo interferire con una logica basilare del sistema sanitario che prevede precisi obblighi in capo ai responsabili sanitari, ai soggetti indicati poi successivamente (direttore sanitario della struttura/responsabile medico/direttore ASL). L’interrogativo, anche in merito alla opportunità del richiamo a tale ipotesi nel testo normativo dedicato al consenso informato, rimane dunque aperto.
Sulle tempistiche conseguenti al ricorso al Giudice Tutelare da parte dei soggetti indicati nulla viene espresso: ciò sembra stridere con la precedente stretta scansione di termini per la convalida del consenso. Quanti contenziosi rimessi alla giurisdizione volontaria potranno aprirsi in conseguenza delle molteplici casistiche che potranno generarsi nel disciplinato contesto è un dato imprevedibile e inimmaginabile (un tiepido pessimismo, tuttavia, sembra trovare spazio in un clima di incertezza amplificato dalla straordinarietà della emergenza epidemiologica in corso).
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In sintesi, non potendo esprimere valutazioni ulteriori rispetto a quelle derivanti da una prima lettura e in assenza di verifica delle dinamiche operative che si andranno a determinare in conseguenza dell’applicazione della norma in esame, si ritiene non possano trascurarsi le evidenti problematiche connesse al sovraccarico di incombenti in capo agli enti gestori, già gravati da attività eccezionali e abnormi di gestione dell’emergenza epidemiologica e di responsabilità complesse. Parimenti, si rileva come anche gli Uffici dei Giudici Tutelari potrebbero trovarsi a far fronte ad un sovraccarico di richieste e adempimenti, finendo per prevalere la dinamica del “silenzio-assenso” prevista dalla norma (che, ad ogni modo, determinerebbe una tempistica non gestibile né, in certi limiti, prevedibile per la raccolta del consenso).
L’articolato impianto dell’articolo commentato, si scontra con una complessa qualificazione del trattamento vaccinale, come accennato in apertura del presente contributo, qualificazione normativamente ad oggi non risolta: certamente la pandemia sta determinando una crisi sanitaria d’emergenza, ma ampiamente discussa è la qualifica del trattamento vaccinale quale intervento d’urgenza.
Qualora, infatti, si ritenesse di ricadere nella fattispecie di cui all’art. 7 L. 219/2017, dunque in una “situazione di emergenza o di urgenza”, il medico stesso e i componenti dell’equipe sanitaria sarebbero chiamati ad assumere la responsabilità di assicurare le cure necessarie (sempre nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla). Qualora si ricomprendesse il trattamento vaccinale anti Covid-19 in tale ipotesi, la normativa emergenziale qui esaminata sarebbe addirittura superflua, potendo i sanitari agire anche in assenza di espresso consenso al trattamento da parte dell’interessato.
E’ lecito dunque domandarsi quale sia l’effettiva portata del disposto normativo esaminato e se non fosse stato più opportuno limitarsi a richiamare la normativa già esistente in materia di consenso informato e di misure di sostegno in favore della fragilità, introducendo – piuttosto - dinamiche virtuose di alleggerimento burocratico in grado di consentire una rapida risposta della Volontaria Giurisdizione, ovvero, in via alternativa, di qualificare - senza equivoci di sorta - il trattamento vaccinale anti Covid-19 quale trattamento salva-vita d’urgenza, così riconducendo la fattispecie ad istituti già precisamente normati.
In un contesto già estremamente gravato da protocolli e procedure, sembra purtroppo verosimile prevedere l’insorgere di nuove e ulteriori problematicità connesse alla applicazione pratica del dettato normativo in commento, in un ambito che, per la sua rilevanza e delicatezza, imporrebbe invece la massima semplificazione procedimentale unita alla possibilità di efficace intervento giurisdizionale[2], a beneficio della miglior tutela del diritto alla salute nel rispetto della dignità di ogni individuo e della sua libertà di auto-determinarsi (soprattutto se in condizioni di fragilità).
[1] Si deve peraltro considerare che manca una disciplina legislativa della campagna vaccinale in atto: v. in questa Rivista, N. Rossi, Il diritto di vaccinarsi. Criteri di priorità e ruolo del Parlamento, https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-diritto-di-vaccinarsi-criteri-di-priorita-e-ruolo-del-parlamento; G. Battarino, Diritti, doveri, organizzazione. Quali norme per la campagna vaccinale anti Sars-CoV-2, https://www.questionegiustizia.it/articolo/diritti-doveri-organizzazione-quali-norme-per-la-campagna-vaccinale-anti-sars-cov-2
[2] Del resto preesistevano al d.l. n. 1/2021 protocolli elaborati in sede giudiziaria che intendevano ottenere questi risultati: v. D. Genovese, M.G. D’Ettore, La “Cura” e le “cure” della persona sottoposta ad amministrazione di sostegno, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-cura-e-le-cure-della-persona-sottoposta-ad-amministrazione-di-sostegno (con riferimento a un protocollo condiviso fra Tribunale di Chieti e locale Ordine degli Avvocati) e le recenti linee guida per gli amministratori di sostegno in relazione alla vaccinazione degli amministrati del Tribunale di Genova; lo stesso Tribuna le di Genova ha peraltro rapidamente prodotto un vademecum sulla novità normativa https://www.tribunale.genova.it/news.aspx?id=34508