Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione e applicazione delle leggi di contrasto al neofascismo

di Carlo Brusco
già presidente di sezione della Corte di cassazione
Il contrasto giurisprudenziale creatosi tra le due sentenze emesse dal Tribunale di Milano è occasione per una ricostruzione normativa e giurisprudenziale (di merito e di legittimità) sull’interpretazione e applicazione delle leggi di contrasto al neofascismo. Esiste una via interpretativa che consente in futuro di superare possibili contrasti giurisprudenziali?

1. I fatti. L’esito dei giudizi di primo grado

Il 23 marzo 2014 si svolse a Milano, su iniziativa congiunta dell’Unione nazionale combattenti della Repubblica Sociale e dell’Associazione nazionale arditi d’Italia, una manifestazione di commemorazione «dei caduti della rivoluzione fascista del 23.3.1919 e dell’anniversario dei “fasci di combattimento”».

Per alcuni (otto) dei partecipanti a questa manifestazione (comunicata alla Questura solo come iniziativa di commemorazione dei defunti) fu accertato che i presenti non si erano limitati alla commemorazione dei defunti ma si erano resi autori anche di manifestazioni tipiche del disciolto partito fascista («chiamata del presente» e «saluto romano»). Nei confronti di queste otto persone fu pertanto esercitata l’azione penale per il delitto di cui all’art. 2 legge 25 giugno 1993 n. 205 (cd legge Mancino).

All’udienza fissata per il dibattimento uno degli imputati chiese il giudizio abbreviato mentre nei confronti degli altri imputati si procedette con il rito ordinario. All’esito entrambi i giudici ritennero che i fatti accertati integrassero astrattamente non il reato contestato bensì il delitto previsto dall’art. 5 legge 20 giugno 1952 n. 645 (cd legge Scelba) che sanziona le «manifestazioni fasciste» ma opposto fu l’esito dei giudizi perché – mentre l’imputato che aveva chiesto il giudizio abbreviato fu condannato a congrua pena per il reato ritenuto dal giudice – gli imputati giudicati con il rito ordinario furono assolti con la formula «perché il fatto non sussiste».

2. Le divergenti valutazioni delle sentenze in commento

L’impianto teorico che sta alla base delle due sentenze in commento è identico anche se, nella valutazione dei fatti accertati, una delle sentenze (quella di assoluzione) tende ad avvalorare un tono sommesso della celebrazione che pare smentito dalle stesse frasi pronunziate da uno dei partecipi e riportate nella sentenza (il richiamo alle «canaglie rosse» e ai «schifosissimi motivi politici» che avrebbero indotti molti ex sodali all’abbandono dei movimenti fascisti).

I due giudici di merito – si è già osservato – hanno individuato un’identica ipotesi di reato astrattamente idonea a descrivere i fatti accertati e hanno, nella sostanza, concordato nel ritenere che l’ipotesi descritta configurasse un reato di pericolo concreto. Hanno però valutato diversamente i fatti accertati sotto il profilo che la loro accertata esistenza fosse idonea a creare il pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista.

Ma su quali argomentazioni vengono fondati i due diversi giudizi in relazione al punto essenziale su cui vi è stata una divergenza di giudizio tra le due decisioni: l’esistenza del pericolo concreto di riorganizzazione del più volte ricordato partito?

La sentenza 27 novembre 2018, depositata il 19 febbraio 2019 (giud. Varanelli) [1], che ha condannato l’imputato, prende le mosse dall’accertamento che la manifestazione fu comunicata alla Questura di Milano come manifestazione volta esclusivamente alla commemorazione dei defunti ma, in realtà, si trasformò da subito in una manifestazione volta a celebrare la costituzione, avvenuta il 23 marzo 2019 nella piazza San Sepolcro a Milano, dei fasci di combattimento e a rivendicare la continuità ideale «con gli emblemi e i valori fondanti della successiva RSI».

Le manifestazioni fasciste furono dunque, secondo il giudice – sia nella fase iniziale svoltasi nel sacrario che in quella successiva davanti alla tomba del poeta Filippo Tommaso Marinetti – «pericolose in concreto in relazione al momento e all’ambiente».

Opposta è la valutazione sull’esistenza del pericolo concreto contenuta nella sentenza 20 febbraio 2019, depositata il 22 febbraio 2019 (giud. Dani). La sentenza riconosce che gli imputati avevano posto in essere «un gesto avente una precisa simbologia fascista, ossia il saluto romano»; non attribuisce un particolare significato alla «chiamata al presente»; ribadisce che «le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista (al di là della loro condanna storica) non sono vietate in sé, attese la libertà di espressione e di libera manifestazione del pensiero costituzionalmente garantite, ma sono vietate solo se connotate da circostanze tali da renderle idonee a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste, così da poter determinare il pericolo di ricostituzione di tali organizzazioni, in relazione al momento e all’ambiente in cui sono compiute, e da attentare in concreto alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori allo stesso sottesi».

In conclusione il giudice esclude l’esistenza di questo pericolo sia per il limitato numero di persone che avevano partecipato alla manifestazione (non superiore a sessanta), sia perché il discorso commemorativo, pronunziato da uno degli imputati, aveva avuto «nel complesso un tono sommesso ed un valore unicamente commemorativo». Inoltre da alcuno furono pronunziate frasi o slogan di propaganda o tenuti «comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti»; né «fatti riferimenti a lotte o a rivendicazioni politiche aventi una qualche attualità».

3. La disciplina normativa di contrasto al fascismo

Su che cosa si fonda questa divergenza di valutazione di un medesimo fatto storicamente accertato in modo non difforme dai giudici che l’hanno esaminato? Per dare una risposta a questo quesito è necessario ricostruire le fonti normative che consentono, nel nostro ordinamento, un trattamento differenziato, e deteriore, delle manifestazioni (non delle idee) fasciste rispetto alle manifestazioni di diversi orientamenti politici.

Esistono in Italia più ipotesi di reato astrattamente e specificamente applicabili ai fenomeni neofascisti che sempre più stanno prendendo piede in Europa e nel nostro Paese e occorre quindi esaminarle separatamente sia dal punto di vista della disciplina normativa che dell’applicazione giurisprudenziale tenendo conto della ormai risalente elaborazione dottrinale sul punto [2].

La prima fonte ha rango costituzionale e riguarda in particolare la ricostituzione del disciolto partito fascista; la disposizione XII delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Questa norma ha grandissimo rilievo perché rende inapplicabile, nei confronti dei movimenti fascisti, la libertà di associazione, prevista dall’art. 18 della Costituzione, e credo condizioni significativamente anche la libertà di manifestazione del pensiero (prevista dall’art. 21 Cost.) quando non sia limitata alla sola espressione delle proprie opinioni (che la Repubblica garantisce anche ai fascisti).

In applicazione della XII disposizione transitoria fu approvata, nel 1952, la cd. legge Scelba (legge 20 giugno 1952 n. 645). Questa legge, dopo le modifiche che vedremo, precisa (art. 1) che cosa si intenda per «riorganizzazione del disciolto partito fascista» che si ha quando un movimento «persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». La legge prevede pesanti sanzioni penali per chi venga condannato per questo reato e sanzioni di minor gravità per i reati di apologia del fascismo (art. 4) e di manifestazioni fasciste (art. 5).

In particolare per quest’ultima disposizione la legge 22 maggio 1975 n. 152 ha previsto (art. 11) un significativo aggravamento di pena con la trasformazione in delitto dell’ipotesi contravvenzionale in precedenza prevista. Si tratta di normative le cui linee direttive hanno caratterizzato anche il trattamento normativo dei movimenti neofascisti o neonazisti operanti in altri Stati [3]. Ma isolati risultano, sia nella giurisprudenza di merito che di legittimità, i casi di applicazione di questa normativa [4].

4. Gli interventi della Corte costituzionale

Prima di esaminare alcune delle applicazioni giurisprudenziali di questa normativa è però necessario ricordare che la Corte costituzionale, già nel 1957 e nel 1958 (con le sentenze 16 gennaio 1957 n. 1 e 25 novembre 1958 n. 74) ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 4 e 5 della legge Scelba (apologia del fascismo e manifestazioni fasciste) ma con argomentazioni di carattere generale che riguardano l’intero impianto della legge. Entrambe le sentenze fondano la loro decisione sul testo della XII disposizione transitoria e ritengono che – per ritenere la possibilità di sanzionare penalmente le condotte vietate – sia necessario accertare che tali condotte abbiano creato un pericolo di riorganizzazione del partito fascista.

La sentenza n. 1/1957 [5], con riferimento all’apologia di fascismo (art. 4), ritiene che non sia sufficiente «una difesa elogiativa» del regime ma che debba trattarsi di «una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista». La sentenza n. 74/1958 [6], che ha esaminato il problema in relazione alle «manifestazioni fasciste» (art. 5), ha affermato analoghi principi precisando peraltro che deve ritenersi la legittimità costituzionale non solo delle sanzioni penali che prendono in considerazione «soltanto gli atti finali e conclusivi della riorganizzazione» bensì anche di «quelli idonei a creare un effettivo pericolo» di tale riorganizzazione.

Insomma, per sintetizzare: non è sufficiente che le condotte pongano in essere attività astrattamente qualificabili come «apologia di fascismo» e «manifestazioni fasciste» ma è necessario che il fatto trovi «nel momento e nell’ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesione e consensi e a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste».

È ancora da ricordare che la Corte costituzionale ha nuovamente esaminato nel 1973 (con la sentenza 14 febbraio 1973 n. 15) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 legge 645/1952 dichiarandone l’infondatezza, peraltro senza alcun particolare approfondimento della questione.

5. La natura dei reati volti a contrastare le organizzazioni neofasciste

Già dalle motivazioni delle sentenze della Corte costituzionale del 1957 e del 1958 emergono le ragioni di fondo che hanno dato luogo non solo al contrasto tra le decisioni del Tribunale di Milano che stiamo commentando ma anche ad analoghe significative differenziazioni sia nella giurisprudenza di merito che in quella di legittimità.

La sentenza del giudice delle leggi n. 74 del 1958 prende atto della circostanza che il legislatore costituzionale ha voluto (o consentito) una significativa riduzione dei diritti (di manifestazione del pensiero e di associazione) nei confronti delle forze politiche che si ispirano al passato regime. Ma non si tratta di una copertura costituzionale a 360 gradi perché il divieto costituzionale fa espresso riferimento alla «riorganizzazione» del disciolto partito fascista. Di qui la conseguenza (inevitabile? Ne parleremo più avanti…), che una condotta che in qualche modo richiami i «valori» del disciolto partito fascista sarà punibile solo se, in qualche modo, crei il pericolo di una riorganizzazione del partito fascista.

Su questo aspetto la sentenza del 1958 del giudice delle leggi è nettissima: è da escludere «che la norma denunziata preveda come fatto punibile qualunque parola o gesto, anche il più innocuo, che ricordi comunque il regime fascista e gli uomini che lo impersonarono ed esprima semplicemente il pensiero o il sentimento, eventualmente occasionale o transeunte, di un individuo, il quale indossi una camicia nera o intoni un canto o lanci un grido». Il legislatore «ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall’art. 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare».

È evidente come le argomentazioni della Corte pervengano alla costruzione di un reato cd. “di pericolo”: si tratta dei reati nei quali è sufficiente che il bene protetto venga posto in pericolo e non si richiede invece che venga leso (come avviene invece nei reati cd. “di danno”). Mi sembra poi corretto affermare che si tratti di un reato di pericolo “concreto” (nel quale il giudice deve accertare se il bene protetto sia stato in concreto messo in pericolo) e non di pericolo “astratto” o “presunto” (nel quale è il legislatore stesso a determinare a priori se una determinata condotta sia idonea a porre in pericolo il bene) [7].

Questa soluzione (reato di pericolo “concreto”, quindi da accertare caso per caso) sembra avvalorata, a mio parere, dalla circostanza che le “manifestazioni” fasciste non sono descritte dalla norma incriminatrice. A una diversa costruzione teorica potrebbe forse pervenirsi se il legislatore avesse indicato specificamente le manifestazioni vietate: per esempio il saluto romano o la “chiamata del presente”. In questo caso si potrebbe affermare che il legislatore ha presunto che quelle manifestazioni siano idonee a creare il pericolo di riorganizzazione di cui stiamo parlando.

6. La cd. legge Mancino (legge 25 giugno 1993 n. 205)

La seconda fonte normativa che abbiamo già ricordato trova origine nella legge 13 ottobre 1975 n. 654 (ratifica della convenzione di New York del 7 marzo 1966 contro la discriminazione razziale) e ha trovato compiuta applicazione con la legge 25 giugno 1993 n. 205 (cd legge Mancino, che ha convertito il dl 26 aprile 1993 n. 122 contenente misure urgenti in tema di discriminazione razziale, etnica e religiosa, riformulando anche l’art. 3 della legge del 1975). In sintesi questa normativa punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, istiga a commettere discriminazioni etc.; ovvero organizza movimenti che hanno tra i loro scopi quelli indicati o partecipa ad essi [8].

I temi disciplinati da queste normative sono destinati a sovrapporsi e frequentemente si è posto il problema di verificare quale fosse l’ipotesi di reato applicabile nel caso specifico. Nel fatto storico esaminato dalle due sentenze che stiamo esaminando entrambi i giudici hanno ravvisato la medesima ipotesi di reato, diversa da quella contestata dal pm, anche se poi l’esito delle due decisioni è stato difforme.

Va detto peraltro che, in linea di massima, un criterio utile per verificare quale sia la norma in concreto applicabile potrebbe essere quello che fa riferimento allo scopo delle norme ricavabile dal bene protetto da esse: scopo delle norme che, nel caso della legge Scelba, era ed è, esclusivamente, l’antifascismo mentre la legge Mancino ha di mira la tutela di tutela dei diritti costituzionali inviolabili della persona (art. 2), di uguaglianza (art. 3), di adeguamento alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (artt. 10 e 117). E comunque nel caso di sovrapposizione tra le normative incriminatrici è lo stesso art. 1 della legge Mancino a stabilire che si applica la disciplina prevista per il reato più grave.

Va però precisato che la legge 22 maggio 1975 n. 152 ha modificato l’art 1 della legge Scelba inserendo lo svolgimento della propaganda razzista tra gli elementi sintomatici della riorganizzazione del partito fascista; il che, tra l’altro, rende punibile questa condotta anche ai sensi dell’art. 4 legge Scelba (apologia di fascismo) che richiama espressamente le finalità indicate nell’art. 1. Questo effetto estensivo della legge 152/1975 anche ai movimenti razzisti è invece dubbio possa essersi verificato per l’ipotesi di reato prevista dall’art. 5 della legge Scelba che per un verso non ha formato oggetto di alcuna modifica ad opera della legge 152/1975; per altro verso non richiama l’art. 1 della legge Scelba. Insomma si è creata una situazione normativa paradossale in base alla quale l’apologia di fascismo può riguardare l’esaltazione del razzismo ma le manifestazioni fasciste non potrebbero ricomprendere quelle razziste sanzionabili quindi solo in base alla legge Mancino.

La legge Mancino non è mai stata esaminata dal giudice delle leggi; le relative questioni di costituzionalità sono state infatti sempre ritenute manifestamente infondate dai giudici di merito e di legittimità che le hanno esaminate. Tra queste ricordo la sentenza Cass. sez. V, 24 gennaio 2001 n. 31655, Gariglio [9], importante perché affronta per la prima volta la questione di legittimità costituzionale della legge Mancino rilevando come questa normativa non violi il diritto di associazione garantito dalla Costituzione perché i divieti stabiliti dalla legge sono strumentali al fine di evitare che l’incitamento alla discriminazione e alla violenza comprimano, nei confronti di altre persone, il libero esercizio dei diritti civili. Neppure può ritenersi violato il diritto di liberamente manifestare il proprio pensiero perché la condotta di istigazione realizza qualcosa di più rispetto alla semplice manifestazione di opinioni.

7. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità

Non è da stupirsi che, anche in relazione al medesimo fatto storico, possano tra i giudici di merito verificarsi così significative divergenze di valutazione. Analoghe divaricazioni si sono infatti verificate anche nella giurisprudenza di legittimità anche se la medesima giurisprudenza tende a sottovalutarle o, addirittura, a negarle.

Tra le decisioni della Corte di cassazione – che hanno affrontato i temi più rilevanti di questo corpo di norme introdotte al fine di affrontare sul piano penale le forme organizzate di tipo fascista o dirette alla discriminazione razziale – mi sembra opportuno segnalare anzitutto, tra le più recenti, la sentenza sez. I, 25 marzo 2014 n. 37577, imp. Bonazza e altro (relativa al saluto romano e all’uso della parola “presente” urlata in coro nel corso di una manifestazione di Casapound) [10]. In questo caso era stata contestata l’ipotesi prevista dall’art. 5 della legge Scelba (manifestazioni fasciste) e la Corte ha confermato la condanna degli imputati precisando che «non è la manifestazione esteriore in quanto tale ad essere oggetto di incriminazione, bensì il suo venire in essere in condizioni di “pubblicità” tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione, il che esclude ogni contrasto con gli invocati parametri costituzionali».

Questa interpretazione è risalente perché già nel 1982 (sentenza sez. I, 4 ottobre 1982 n. 11943, Loi) [11] la Cassazione si era pronunziata in senso analogo in relazione ad una manifestazione di imputati – i quali, dopo la lettura della sentenza di condanna, avevano fatto il saluto romano pronunziando più volte le parole «sieg heil» – ritenendo che in tale atteggiamento non si poteva disconoscere l’esistenza di un pur minimo pericolo per le istituzioni democratiche. Analoghe considerazioni, in precedenza, erano state svolte da Cass., sez. I, 18 gennaio 1972, n. 3826, Libanore [12], che aveva ritenuto che il saluto romano, da solo insufficiente ad integrare il reato di cui all’art. 5 della legge Scelba, acquisiva rilievo a questo fine perché in quel caso l’autore era munito di manganello.

Non è però una giurisprudenza univoca. Più recentemente la prima sezione della Cassazione ha pronunziato una sentenza (2 marzo 2016 n. 11038, Goglio) [13] che, anche se lo nega, si pone in netto contrasto con la citata sentenza Bonazza perché, a fronte di manifestazioni identiche (saluti romani, “chiamate al presente”, esposizione di croci celtiche) ritiene invece che non possa ritenersi l’ipotesi criminosa contestata (in quel caso l’art. 5 legge Scelba modificata dall’art. 11 della legge 152/1975) perché non diretta alla ricostituzione del partito fascista.

È vero che il giudice di legittimità, in questo caso, ha dichiarato inammissibile il ricorso del pm perché volto, secondo la sua interpretazione, ad una ricostruzione dei fatti diversa da quella operata dai giudici di merito ma della correttezza di questa affermazione è lecito dubitare perché, dalla lettura della sentenza, sembra di poter ricavare che l’impugnante censurava la sentenza di secondo grado non per la ricostruzione dei fatti operata – sostanzialmente condivisa – ma perché i fatti accertati, secondo la sua valutazione – integravano l’ipotesi di reato contestata. In buona sostanza il vizio dedotto, secondo l’impostazione del ricorrente, era quello di «erronea applicazione della legge penale» [art. 606, comma 1, lett. b) del cpp]. Libero il giudice di legittimità di ritenere infondato (o manifestamente infondato) il ricorso – e quindi rigettarlo o dichiararlo inammissibile – ma in questo caso sembra che ciò sia avvenuto per un vizio diverso da quello denunziato.

Questo orientamento del giudice di legittimità ha peraltro trovato, negli ultimi tempi, un’ulteriore conferma: la sentenza 14 dicembre 1917 n. 8108 (depositata il 20 febbraio 2018), Clemente [14]. Anche in questo caso erano state contestate come manifestazioni fasciste la chiamata “al presente” e il saluto romano e la Corte richiama espressamente la motivazione della sentenza Goglio e l’interpretazione che questa sentenza ha dato della sentenza Bonazza.

È peraltro da rilevare che, nella giurisprudenza di legittimità, non esistono orientamenti chiari e definiti perché il “saluto fascista”, in altra decisione, è stato, dalla Cassazione, ritenuto integrare l’ipotesi di reato prevista dalla legge 205/1993 (legge Mancino) perché diretto a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale: in questo senso vds Cass., sez. I, 4 marzo 2009 n. 25184, Saccardi e, più recentemente, sez. I, 8 marzo 2016 n. 20450, De Sabbata, inedita.

Nella giurisprudenza di merito è da segnalare la sentenza Trib. Milano 21 febbraio 2008 n. 13682 [15] per l’accuratezza con cui ha distinto – all’interno di imputazioni relative a varie condotte svoltesi in una manifestazione del M.S. Fiamma Tricolore – i gesti, le frasi e i cori meramente “nostalgici”, ma privi di pericolosità, dalle condotte ritenute invece penalmente rilevanti perché idonee ad istigare alla ricostituzione del partito fascista.

8. La diffusione on-line delle idee fasciste. Le manifestazioni negli stadi

Di grandissimo interesse – perché dimostra come la normativa sanzionatoria vigente non abbia lacune riferibili alla nuove forme di comunicazione e di diffusione delle conoscenze – è poi la sentenza della terza sezione della Corte di cassazione 24 aprile 2013 n. 33179, imp. Scarpino [16], che ha affrontato, in sede cautelare, il tema della diffusione on-line, tramite un blog, di incitamenti alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi. In questo caso era stata contestata l’ipotesi di reato prevista dall’art. 3 della legge 654 del 1975 (modificata dall’art. 1 della legge Mancino).

L’interesse particolare di questa sentenza è costituito dalla circostanza che la propaganda razzista era svolta, in questo caso, esclusivamente tramite l’uso del blog. Il problema di maggiore complessità era dunque costituito dal problema relativo alla possibilità di ritenere esistente l’organizzazione o il movimento sanzionati dalla legge del 1975.

Ebbene la Cassazione perviene all’affermazione dell’esistenza di questo apparato organizzativo ravvisandolo nella comunità virtuale operante via Internet perché destinata: a tenere i contatti tra gli aderenti; a compiere opera di proselitismo con la diffusione di documenti e testi a contenuto razzista; a programmare azioni dimostrative o violente aventi contenuto razzista; alla raccolta di fondi ed elargizioni; all’individuazione degli avversari individuati in coloro che «avevano operato a favore dell’uguaglianza e dell’integrazione degli immigrati».

Non si tratta di un orientamento del tutto innovativo perché già nel 2008 (sentenza sez. III, 7 maggio 2008 n. 37581, Mereu) [17] la Corte di cassazione aveva confermato la sentenza di condanna (questa volta per il reato di cui all’art. 3 legge 13 ottobre 1975 n. 654) per aver diffuso, tramite Internet, idee fondate sull’odio razziale o etnico e sulla discriminazione per motivi etnici e religiosi nei confronti di appartenenti alla comunità ebraica.

Non è poi da dimenticare che esistono altri strumenti normativi di contrasto delle manifestazioni fasciste che possono essere utilizzati in determinati contesti. Ricordo, per esempio, che è stato ritenuto esistente il reato di cui all’art. 2-bis dl 8 febbraio 2007 n. 8 (convertito nella legge 4 aprile 2007 n. 41) – che prevede, nelle manifestazioni sportive, il divieto di striscioni e cartelli incitanti alla violenza o recanti ingiurie o minacce – nel caso di uno striscione che conteneva la data del 25 aprile con un segno di cancellatura (vds. Cass., sez. III, 7 aprile 2016 n. 1766, Brigidini, inedita).

Ed è anche da ricordare che la giurisprudenza di merito è ben attenta ad evitare di sovrapporre il tema del razzismo – ed in particolare dell’antisemitismo – a quello della critica, anche durissima, alle scelte politiche dello stato di Israele. Si veda in proposito la recente sentenza del Tribunale di Vercelli 24 maggio 2017 che ha assolto due attivisti di un’area antagonista – che avevano apposto un drappo alla locale sinagoga con la seguente scritta «stop bombing Gaza Israele assassini free Palestine» – ai quali era stata contestata l’ipotesi di reato prevista dall’art. 3 comma 1 lett. a) della legge Mancino (propaganda di «idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico»).

9. Considerazioni conclusive

Dal quadro normativo e giurisprudenziale in precedenza sommariamente ricostruito emergono le ragioni delle difformi soluzioni adottate dai giudici di merito e da quelli di legittimità quando si sono trovati ad esaminare fattispecie come quelle in precedenza descritte. È però necessaria una considerazione preliminare: i reati di cui stiamo discutendo sono quelli previsti dagli artt. 4 e 5 della legge Scelba (apologia di fascismo e manifestazioni fasciste). Una strada per evitare le difficoltà e le contraddizioni che si sono verificate, anche nella giurisprudenza di legittimità, esiste ed è quella seguita dalla già citata sentenza Cass., sez. I, 4 marzo 2009 n. 25184, Saccardi. Questa sentenza, l’abbiamo già visto, ha confermato l’ipotesi di reato prevista dall’art. 2 della legge 205/1993 (legge Mancino) nella condotta di una persona che aveva più volte fatto il saluto romano – nel corso di una manifestazione di tifosi veronesi che intendevano fare ingresso senza biglietto nello stadio dell’Udinese – perché questa condotta «era inequivocabilmente diretta a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale od etnico».

La sentenza non si pone però il problema dell’esistenza di una norma (l’art. 5 della legge 645/1952) che sanziona condotte tra le quali può agevolmente ricomprendersi quella esaminata nella sentenza. Né la sentenza si pone il problema della necessità di applicare il principio di specialità; l’interprete non può però omettere questo passaggio decisivo e ritenere che la medesima condotta (il saluto romano) possa integrare, indifferentemente, l’una o l’altra ipotesi di reato. Tanto più che l’art. 1 della legge Mancino prevede espressamente, come vedremo, un criterio per la soluzione del problema.

Ma v’è un’altra ragione, di natura storico-giuridica, che rende opinabile l’applicazione automatica della più recente normativa in questione alle manifestazioni fasciste: dire che il saluto fascista ha un’inevitabile connotazione razziale non mi sembra corrisponda all’evoluzione storica di questo movimento e dei movimenti nazionalisti italiani. Pur essendo da sempre presenti, in questi movimenti, orientamenti razzisti (in particolare antiebraici) la loro presenza non prese mai piede all’interno del Pnf fino alla svolta del 1938 (i cui segni premonitori risalgono al più ai due anni precedenti) quando iniziarono ad essere approvate le leggi razziali dopo la pubblicazione del Manifesto della razza.

È un dato storicamente acquisito che il movimento fascista non ebbe, ai suoi inizi e per diversi anni successivi alla presa del potere, una connotazione antisemita. Del resto numerosi furono gli ebrei che aderirono al movimento fascista, tra i cui finanziatori troviamo anche persone di origine ebraica, anche prima della marcia su Roma (a cui parteciparono alcune centinaia di ebrei). Diversi ebrei ricoprirono cariche istituzionali anche al massimo livello (si pensi a Guido Jung, ministro delle finanze fino al 1935 e promotore della fondazione dell’Iri; l’ultimo sindaco ebreo, quello di Ferrara, fu rimosso solo nel 1938: certo era amico personale di Italo Balbo!).

Se si afferma che il saluto fascista ha una connotazione razziale occorre precisare che questa caratteristica si riferisce però solo al periodo successivo al 1937/1938 e, ovviamente, al periodo della Rsi nel quale la discriminazione si trasformò in vera e propria persecuzione anche con la collaborazione dei fascisti repubblicani all’invio degli ebrei nei campi di sterminio. Insomma: la ricostruzione storica dell’evoluzione razziale del fascismo è questione complessa che si è evoluta nel tempo.

Quelle di cui stiamo parlando sono certamente manifestazioni inequivocabilmente “fasciste” ma non necessariamente volte alla discriminazione razziale che, fino ad una certa epoca, fu estranea alla ideologia fascista dominante. Si pensi che una delle tappe della manifestazione oggetto delle sentenze del Tribunale di Milano, di cui stiamo parlando, è stata la tomba di Filippo Tommaso Marinetti che fu convinto fascista (e anche aderente alla Rsi) ma altresì contrario alle leggi razziali (circostanza della quale non credo che i manifestanti milanesi fossero a conoscenza…).

Rimanendo dunque alle ipotesi di reato previste dalla legge Scelba non v’è dubbio che, all’origine delle divergenze verificatesi nella giurisprudenza di legittimità e di merito, stia l’inquadramento giuridico proposto dalle ricordate sentenze della Corte costituzionale. Non tanto la costruzione dei reati di cui stiamo parlando come reati di pericolo concreto quanto il riferimento rigido alla XII disposizione transitoria della Costituzione nel senso che il reato possa essere ritenuto consumato solo se si accerti che la condotta dell’agente ha creato il pericolo concreto di riorganizzazione del disciolto partito fascista.

È evidente che questo pericolo può essere accertato solo in base ad elementi indiziari o sintomatici la cui valutazione – non esistendo parametri oggettivi di valutazione – può avere come risultato risposte contradditorie. Si pensi soltanto al numero dei partecipi alla manifestazione “fascista”: nel caso esaminato dalle due sentenze in commento era prossimo a sessanta. È un numero sufficiente oppure occorre un numero superiore o, ancora, è sufficiente un numero inferiore? Sono necessarie, oltre al saluto romano e alla chiamata “al presente” ulteriori manifestazioni sediziose oppure no? La detenzione di armi (per esempio il manganello cui fa riferimento uno dei casi giurisprudenziali ricordati) vale a far ritenere concreto il pericolo di cui stiamo parlando?

Stiamo parlando non di un pericolo per l’ordine pubblico ma del pericolo di ricostituzione del partito fascista ed è evidente come i parametri per poter ritenere esistente questo pericolo siano estremamente labili. Si aggiunga che spesso queste manifestazioni avvengono su iniziativa di organizzazioni che hanno assunto le caratteristiche di veri e propri partiti senza che le pubbliche autorità abbiano adottato alcun provvedimento per pervenire al loro scioglimento e alla confisca dei loro beni come previsto dall’art. 3 della legge Scelba.

10. Una proposta interpretativa

Esiste un diverso modo di affrontare il problema? Io credo che si debba prendere le mosse proprio dalla XII disposizione transitoria che ha costituzionalizzato il principio relativo al divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista. Ciò significa che la Costituzione ha rifiutato un modello di Stato e di società fondato sulla soppressione delle libertà individuali e collettive e poi approdato al razzismo e all’alleanza con uno dei più feroci regimi politici degli ultimi secoli.

Il problema che si pone mi sembra sia questo: ha senso affermare che il giudizio di disvalore così decisamente ribadito nella nostra legge fondamentale – che rende costituzionalmente legittima la riduzione della libertà di associazione per questi movimenti – voglia solo riferirsi alla costituzione di un nuovo partito fascista e sia priva di rilievo per quanto riguarda le manifestazioni che comunque a quel regime liberticida si ispirano o fanno riferimento?

La decisa presa di posizione della Costituzione non significa forse che la legge fondamentale ha inteso attribuire una valutazione negativa anche alle manifestazioni pubbliche che quel regime richiamano, esaltandolo, indipendentemente dalla circostanza che gli agenti intendano ricostituire il partito fascista e dalla verifica se queste condotte siano idonee a questo scopo? Ha senso vietare la ricostituzione di un partito e consentire senza limiti le manifestazioni che a quel partito si richiamano o lo esaltano?

È evidente che il problema richiederebbe ben altro approfondimento. Ma l’art. 10 comma 1 della Costituzione non consente di ritenere che possano essere applicate (con legge, come è avvenuto) alla manifestazione del pensiero (perché di questo si tratta) i limiti previsti dall’art. 10 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo? Non costituiscono – le sanzioni di cui stiamo parlando – «misure necessarie… per la sicurezza pubblica, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei delitti…»? consentendo così quelle «restrizioni e sanzioni» che la convenzione Edu prevede espressamente [18]?

Naturalmente anche per le ipotesi di reato di cui stiamo parlando valgono i principi generali dell’ordinamento ed in particolare la necessità che venga rispettato il principio di offensività che può costituire un valido ostacolo ad una generalizzazione indiscriminata delle incriminazioni. Andranno quindi esclusi dalla possibilità di essere perseguiti penalmente gli autori di atti e fatti che si dimostrino inoffensivi anche se formalmente rientranti nelle fattispecie tipiche descritte dalla legge. Per esempio nel caso previsto dal primo comma dell’art. 4 (apologia di fascismo), che sanziona la «propaganda per la costituzione di una associazione» con le caratteristiche e finalità vietate l’offensività richiederà che questa «propaganda» non sia limitata ad un ristretto ambito di persone ma sia rivolta ad una comunità significativamente ampia.

E così anche il requisito (previsto dal comma 2 dell’art. 4 – che sanziona la pubblica esaltazione di esponenti, principi etc. del fascismo – e dall’art. 5 comma 1 che riguarda le manifestazioni fasciste) che le manifestazioni avvengano pubblicamente o durante pubbliche riunioni vale a definire meglio le condotte vietate, rafforzandone la determinatezza, e vanno interpretate rigidamente escludendo tutti i casi in cui il bene protetto non sia stato concretamente leso; e fermo restando che la sola condivisione, anche manifestata all’esterno (ma non l’esaltazione caratterizzata da concreta offensività) dei principi fascisti non è vietata dal nostro ordinamento democratico.

Credo che una soluzione interpretativa che si collochi entro queste coordinate, e che certamente meriterebbe un maggiore approfondimento, sia rispettosa della Costituzione e dei principi inderogabili del diritto penale.

11. Il disegno di legge Fiano presentato nella scorsa legislatura

Com’è noto la Camera dei deputati aveva approvato, in prima lettura, un disegno di legge di cui primo firmatario era l’on. Fiano. La fine della legislatura non aveva consentito l’esame al Senato di questa iniziativa legislativa.

Il disegno di legge era volto ad inserire nel codice penale il nuovo art. 293-bis con la previsione della pena della reclusione, da sei mesi a due anni, nei confronti di chi «propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità».

Devo dire che, pur condividendo le finalità del disegno di legge, ho il timore che i promotori di questa iniziativa legislativa non si siano posto alcuno dei problemi sollevati dalla giurisprudenza ordinaria e dalla Corte costituzionale sui temi ai quali abbiamo in precedenza accennato. Le decisioni dei giudici di merito che hanno ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento alla legge Mancino, hanno trovato un fondamento costituzionale ritenendo che la limitazione di alcuni diritti fosse giustificata perché volta a salvaguardare diritti e libertà ugualmente garantite dalla Costituzione. Ciò vale sicuramente per discriminazione, odio o violenza razziale – il cui contrasto trova un sicuro fondamento costituzionale in vari articoli della Costituzione già in precedenza citati (2, 3, 10, 117; ma altri se ne potrebbero aggiungere) – mentre è meno sicuro che possa valere per condotte che si limitino, per esempio, alla vendita di immagini o riproduzioni del duce, sempre che non si inseriscano in una più ampia attività riconducibile a quelle sanzionate dalla legge Scelba.

Tra l’altro ben maggiore efficacia potrebbero avere sanzioni di natura amministrativa (per esempio, nei confronti dei titolari di pubblici esercizi, la sospensione o revoca, nel caso di recidiva, della licenza) che potrebbero avere immediata efficacia senza attendere i tempi che sappiano lunghissimi del processo penale. E per altre ipotesi potrebbero essere previste misure sanzionatorie di natura amministrativa quali quelle già previste dalla legge Mancino ma collegate ad una consumazione di reato. Così come sarebbe auspicabile l’introduzione di un obbligo, per i providers, di controllare che non si verifichi l’immissione in rete di contenuti palesemente razzisti o di propaganda e istigazione alla discriminazione e alla violenza.



[1] La sentenza è pubblicata in Dir. Pen. Con., con nota di A. Galluccio, Il saluto fascista è reato? L’attuale panorama normativo e giurisprudenziale ricostruito dal Tribunale di Milano, in una sentenza di condanna, 29 aprile 2019.

[2] Per un primo inquadramento di carattere generale del tema si veda, oltre a quelli che saranno di seguito citati, lo scritto di S. Vinciguerra, Sanzioni contro il fascismo, voce dell’Enc. dir., vol. XVI, Giuffrè, Milano, 1967, p. 902. In particolare per un esame della disciplina riguardante la ricostituzione del disciolto partito fascista vds. A.A. Calvi, Sul delitto di riorganizzazione del partito fascista, ne L’indice penale, 1977, p. 209.

[3] Per risalenti iniziative giudiziarie avviate in Germania di contrasto ad un movimento neonazista si vedano le considerazioni di E. Collotti, “iedem das sein”. A ciascuno il suo. Il neonazismo in Germania, in Quale giustizia, 1979, fasc. 49–50, p. 161. Per un sintetico esame della più recente giurisprudenza tedesca su analoghe problematiche riferibili alle manifestazioni di movimenti neonazisti vds. P. Caroli, Commemorare i caduti della Repubblica Sociale Italiana con il saluto romano non costituisce reato, in Dir. pen. e processo, 2017, p. 1585.

[4] Per un’applicazione di questa normativa nella giurisprudenza di merito – che nel caso esaminato ha escluso potesse attribuirsi carattere di associazione fascista all’organizzazione denominata “Forza Nuova” – si veda Trib. Castrovillari, 6 aprile 2005, in Giur. merito, 2006, 2474, con nota critica di G. Biondi, È ancora attuale la norma che punisce le associazioni finalizzate alla riorganizzazione del disciolto partito fascista?.

[5] In Foro it., 1957, I, p. 354, annotata sulla medesima rivista (1957, I, p. 952) da M. Bon Valvassina, Apologia di fascismo, divieto di riorganizzazione del partito fascista e libertà di manifestazione del pensiero.

[6] In Foro it., 1959, I,190, annotata da C. Esposito, Misure antifasciste e costituzione, in Giur. costituz., 1958, 958, e da M. Siniscalco, La dodicesima disposizione transitoria della costituzione e il divieto di manifestazioni fasciste, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, p. 166.

[7] Si tenga anche conto che, in dottrina, si è autorevolmente sostenuto che le categorie di pericolo “astratto” e “presunto” non coinciderebbero perché solo nel secondo caso non sarebbe possibile fornire la prova dell’inesistenza in concreto del pericolo Per questa tripartizione si esprime F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Cedam, Padova, 2015, pp. 206 ss. Per una decisa presa di posizione contro l’affermazione che ai reati di cui ci stiamo occupando possa essere attribuita la qualità di reati di pericolo “presunto” e sui dubbi di costituzionalità di questa categoria di reati vds. A.A. Calvi, Sul delitto di riorganizzazione del partito fascista, cit., passim.

[8] Per un ampio esame dei problemi, anche di natura costituzionale, che pone la repressione delle opinioni razziste e xenofobe, può esaminarsi lo studio di A. Ambrosi, Libertà di pensiero e manifestazione di opinioni razziste e xenofobe, in Quaderni costituzionali, 2008, p. 519.

[9] La sentenza è pubblicata in Riv. pen., 2001, p. 1018.

[10] La sentenza è pubblicata in Giur. cost., 2014, 4801, con nota di L. Diotallevi, Sulla permanente “attualità” del reato di “manifestazioni fasciste” ex art. 5 “Legge Scelba”, e in Cass. pen., 2014, 4107, con osservazioni di D. Padrone.

[11] In Riv. pen., 1983, p. 819 (m.).

[12] In Foro it., 1972, II, p. 380.

[13] In Dir. pen. e processo, 2017, p. 1585, con nota di P. Caroli, Commemorare i caduti della Repubblica Sociale Italiana con il saluto romano non costituisce reato.

[14] La sentenza è commentata da A. Nocera, Manifestazioni fasciste e apologia del fascismo tra attualità e nuove prospettive incriminatrici, in Dir. Pen. Con.,9 maggio 2018.

[15] In Giur. merito, 2009, p. 735, commentata da G. Biondi, Brevi considerazioni sul reato di manifestazioni fasciste: può essere considerato un reato di opinione?.

[16] La sentenza è pubblicata in Foro it., 2014, II, p. 90, con osservazioni di S. Di Paola.

[17] In Cass. pen., 2009, 2023, con nota di A. Montagna, La propaganda di idee fondate sull’odio razziale o etnico.

[18] Su questi aspetti si vedano le considerazioni di A. Nocera, Manifestazioni fasciste e apologia del fascismo, cit., pp. 17 ss.

14/05/2019
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