Qualche giorno fa, sul Domenicale del Il Sole 24Ore, il professor Sabino Cassese invitava a leggere assolutamente il volume Democrazia costituzionale in crisi? di Mark Graber, Sanford Levinson e Mark Tushnet (Oxford University Press, 2018) per conoscere lo stato presente della democrazia nel mondo. Una sorta di manuale sulle ragioni (e sui possibili rimedi) del malessere democratico che, con modalità e velocità diverse, attraversa gran parte del globo, al punto da far dire all’ex giudice costituzionale che la democrazia è ovunque in cattiva salute. Anche in Italia, sebbene non sia tra i Paesi espressamente considerati dagli autori.
I segnali del malessere democratico erano visibili, nel nostro Paese, più di un decennio fa ma sono stati sottovalutati o minimizzati da tutti, a cominciare dalle classi dirigenti. Uno di questi segnali è stato senz’altro il deterioramento del linguaggio e ad accorgersene, fra i pochi, fu Giuseppe D’Avanzo, collega e amico purtroppo scomparso il 30 luglio 2011. A rileggerle oggi, ci si rende conto di quanto siano state lucide, raffinate e lungimiranti le sue analisi. Emblematici, da questo punto di vista, gli articoli poi raccolti nel volume Il guscio vuoto – metamorfosi di una democrazia (Laterza, 2012). In particolare il primo, La neo-lingua del potere, uscito su La Repubblica l’11 ottobre 2008, e l’ultimo, Gioca e sii uomo – il rugby, l’anti-calcio che salverebbe l’Italia, del 4 settembre 2007.
In entrambi, D’Avanzo metteva a fuoco i sintomi del malessere della democrazia italiana, accompagnati da una diagnosi lucidissima. Al punto da disegnare già allora il destino del nostro Paese. Il fatto è – lo dice bene in Diagnosi e destino (Einaudi, 2018) lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi – che il più delle volte la diagnosi è un accidente, un fardello, qualcosa che ci fa sentire menomati e bollati proprio mentre siamo più fragili, ma dipende da noi trasformare questa fragilità in una risorsa per ripensare la nostra storia e il nostro futuro. Questo passaggio purtroppo è mancato, forse per paura, forse per superficialità: sebbene l’analisi di D’Avanzo avesse aperto la porta alla conoscenza, quella porta è stata chiusa troppo in fretta.
Perciò ora provo a riaprirla, seppure sommariamente.
Preziosa è l’analisi sul linguaggio, che partiva da un’affermazione (La distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione) tanto radicale quanto essenziale per comprendere il pericolo insito nella progressiva semplificazione brutale del discorso pubblico (sfociata oggi nella volgarità, nell’insulto, nella parolaccia). D’Avanzo puntava il dito contro la semplificazione che riduce ogni complessità, impoverisce il vocabolario, rimuove ogni pensiero pensante e anche la realtà, riscrivendola sotto i nostri occhi. La semplificazione del linguaggio è il presupposto che ridisegna il rapporto tra libertà e politica e guai a minimizzare questo pericolo perché può portare – avvertiva – a un totalitarismo post ideologico tipico delle società a capitalismo avanzato. Una sorta di ospite indesiderato che bussa continuamente alla porta della democrazia, sfruttando anche lo scarto sempre maggiore tra la modernità dei problemi, lo smarrimento sociale che provocano, l’angoscia delle domande e l’inadeguatezza delle risposte collettive e politiche. È lì, in quello scarto, che può attecchire una mentalità totalitaria e una tecnica di potere che, al contrario del Novecento, non ha più alcun contenuto ideologico.
Ma ancora di più voglio richiamare, qui, il suo magnifico pezzo sul rugby, metafora del cammino politico-culturale che l’Italia avrebbe dovuto (dovrebbe) intraprendere per migliorare, curando il suo malessere democratico.
D’Avanzo ricorda anzitutto che il rugby nasce nell’Inghilterra del 1823 attraversata da un processo di modernizzazione, che però divide la Nazione, invece di unirla. Affiora così, scrive, la necessità di trovare ragioni comuni, l’urgenza di creare un sistema educativo capace di formare giuristi, medici, funzionari dello Stato, scienziati che sappiano, sì, lavorare con efficienza ma che siano anche consapevoli dell’interesse pubblico e dotati di buone maniere. Ed è allora che prende forma l’idea di Thomas Arnold, preside della Rugby School, di un nuovo modello educativo fondato su una “cristianità energica”, sul servizio alla collettività, sulla disciplina abbinata al senso di responsabilità; una formazione innervata da valori che cancelli la frattura tra le due Nazioni con il rispetto e la reciproca comprensione, una memoria comune, un progetto non più inconciliabile ma condiviso.
Quanto questo sia oggi necessario all’Italia è inutile dire, chiosava allora D’Avanzo. Quanto questo sia ancora oggi necessario, è talmente lampante da renderlo per certi versi drammatico.
Forse perché sono una ex giocatrice di pallacanestro – grande passione e occasione formativa della mia vita – condivido parola per parola quel che dice D’Avanzo sulle virtù di questo sport di squadra. Che consente di dimostrare forza d’animo, coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la materia grezza di quel fair play, che trova il suo slogan nell’esortazione vittoriana Play up and play the man! (Gioca e sii uomo!).
L’articolo – l’ho già detto – è magnifico e va assolutamente letto o riletto. Non è questione di bella scrittura. Giovani e meno giovani, tutti dovrebbero recuperarlo. Soprattutto chi all’epoca aveva vent’anni o poco più e magari oggi è classe dirigente o aspira ad esserlo, in politica come in magistratura.
In ogni caso, questo Controcanto non può che concludersi proprio con le parole di D’Avanzo, giornalista colto e serio capace di raccontare i fatti con i piedi ben piantati a terra e lo sguardo alto.
«Il rugby è una faccenda per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne) contro quindici, separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in gara per conquistare l’area di meta e schiacciarvi l’ovale. Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura spudorato nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l’apparenza, è l’esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o nel gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture. Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l’odio è paura cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione gregaria, l’arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la violenza o forse proprio grazie a quella. Dite, si può immaginare qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche, comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l’ingegno talentuoso e non il metodo. La furbizia e non la lealtà. L’inventiva e mai la preparazione. Il “miracolo” e mai l’organizzazione. L’individualità e mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del “gruppo chiuso” e mai il desiderio di farsi stimare da chi al “gruppo” (ceto, famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l’ammirazione che suscita nell’avversario. Il rugby – la comprensione del gioco, della sua nervatura, del suo spirito e consuetudine – spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del nostro stare insieme. Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così estraneo all’identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio per riformarla. L’appuntamento è al Velodrome di Marsiglia, l’8 settembre. Le prenderemo, ma non importa. Play up and play the man!» [1].
[1] L’articolo di D’Avanzo esordiva con «un sogno»: l’8 settembre, a Marsiglia, l’Italia avrebbe affrontato All Blacks (Nuova Zelanda) nella partita di esordio della Coppa del mondo 2007. A governare c’era il Prodi II – 28 aprile 2006-febbraio 2008 – preceduto e seguito dai governi Berlusconi. Il sogno di D’Avanzo era di avere allo stadio il premier, il leader dell’opposizione e il Capo dello Stato, In buona sostanza, chi ha sulle spalle la responsabilità di guidare il Paese, perché l’Italia ha bisogno del rugby. L’Italia perse 76 a 14, e allo stadio non si vide nessuno. Ma quel sogno resta.