Gli operai hanno smesso di votare a sinistra.
Da questa constatazione − dimostrata da tutte le analisi del voto delle ultime tornate − parte Loris Campetti, già giornalista storico de Il manifesto e attento conoscitore del mondo del lavoro.
E confeziona, con uno stile asciutto ed essenziale, questo bel libro che si interroga sui motivi di tale distacco e, in generale, sull’attuale situazione esistenziale degli appartenenti ad una classe sociale che aveva ricoperto invece, negli anni Sessanta e Settanta, un ruolo sociale centrale. A quella centralità della classe operaia si contrappone oggi, in epoca di neoliberismo, una condizione psico-sociologica nuova del lavoratore, diventato atomo competitivo nei confronti dei suoi vecchi compagni, oggi concorrenti.
Bel libro perché, malgrado l’esplicitato orientamento politico del suo autore, si mette a cercare risposte agli interrogativi con un metodo che è distante anni luce dall’ideologismo: va infatti alla ricerca di testimonianze concrete in realtà operaie topiche, facendone parlare direttamente i protagonisti.
Altri studiosi del distacco fra classe operaia e partiti di sinistra hanno parlato, a proposito della scelta di votare partiti come la Lega e il Movimento 5 Stelle, di voto di vendetta [1], cioè di un voto anti-establishment, dato per punire chi aveva tradito.
Ritroviamo questa motivazione pienamente dimostrata nelle interviste raccolte da Campetti che aggiunge all’odio maturato verso il Pd (colpevole di aver emanato il Jobs Act, in linea con le legislazioni precarizzanti precedenti, e di aver appoggiato le politiche anti-sindacali di Marchionne) un ulteriore odio verso gli stranieri immigrati, vissuti come concorrenti al ribasso nella ricerca del lavoro. Da qui forme esplicite di razzismo, che riescono a far sfogare la frustrazione legata alla disoccupazione o all’impiego in lavori sempre meno garantiti e sottopagati.
Su tutto poi svetta la profonda delusione e l’allontanamento dalla politica in blocco, senza più distinguere fra partiti di destra o di sinistra, nella convinzione che siano proprio quelli di pseudo-sinistra (oggi diventati di destra camuffata) ad essersi macchiati della colpa del tradimento.
Da questo mix la scelta di votare per partiti come la Lega e il Movimento 5 Stelle che cavalcano, da un lato, il razzismo e, dall’altro, il rifiuto dell’establishment, considerato in blocco autoreferenziale e corrotto.
Molte sono le realtà indagate da Campetti.
Si parte dalla storica fabbrica Beretta di Gardone in Val Trompia, leader nelle esportazioni di armi in tutto il mondo, dove, a parte un ristretto gruppo di operai sindacalizzati, le idee predominanti sono quelle di odio verso la politica, giudicata ladra in toto (si ha disamore per la cosa pubblica e si preferisce fare il tifo per questo o quello nei talk-show televisivi piuttosto che battersi per il bene comune). Mentre si grida allo scandalo per l’altezza delle indennità dei parlamentari, si accetta come naturale la differenza abissale fra reddito del lavoratore e quello del suo dirigente, differenza sentita come giustificata perché ricollegata ad un lavoro che permette ai dipendenti di lavorare.
Nei cantieri navali di Monfalcone, zona storicamente rossa passata nel 2016 ad eleggere una sindaca leghista, vi è un marcato dumping lavorativo indotto dagli appalti e subappalti di mano d’opera, costituita da stranieri, in gran parte del Bangladesh: gli operai italiani si sentono assediati e il clima è di guerra fra poveri con forme di razzismo spiccate contro lo straniero vissuto come nemico. Un motivo per passare nel governo della città dal centro sinistra alla Lega, qui, è stato l’atteggiamento dell’allora sindaca Pd che accettò, con l’appoggio anche di Rifondazione comunista, una mancia di 140.000 euro da Fincantieri per uscire dal processo per le morti da amianto, rinunciando alla costituzione di parte civile. Un altro tradimento. Da qui la decisione di vari operai di smettere di turarsi in naso e votare il meno peggio, decidendo di non votare o votare la Lega.
A Belluno tutto ruota intorno alla produzione di occhiali della Luxottica, gigante nelle esportazioni. Leonardo Del Vecchio ha programmato tutta la vita dei suoi dipendenti, dall’asilo al pagamento delle tasse universitarie, alle colonie estive per i figli, dalla pensione al welfare e ai benefit per i dipendenti (esclusi dalla tassazione e dal conteggio previdenziale). Nessuno qui osa parlar male del datore di lavoro. I bambini delle elementari, interrogati sul lavoro che pensano di fare, rispondono operai della Luxottica. Ma anche qui la forza lavoro non è tutta dipendente da Del Vecchio, perché è in gran parte somministrata, cioè data in affitto da un’agenzia di intermediazione, con danno per il lavoratore in termini di stabilità, salario, diritti e con la chiamata al lavoro stop and go attraverso il semplice invio di un sms. Nessun collegamento solidaristico esiste fra operai stabilizzati e precari con uno spiccato viraggio verso un individualismo menefreghista. Anche qui netti atteggiamenti antimmigrati accusati di portar via il lavoro.
Il mondo un tempo dorato delle cooperative rosse di Reggio Emilia, attive nell’edilizia e nella metalmeccanica, è andato in fumo. Complici una legislazione degli anni 2000 sempre più liberista e la crisi del 2008 con scoppio della bolla edilizia, le cooperative edili si sono trasformate in imprese immobiliari in cui il lavoro viene esternalizzato e vi è quindi una vera esplosione dei fenomeni dei muratori a partita iva e del cottimo. È il liberismo allo stato puro che precarizza e abbatte i diritti dei lavoratori. Il tutto complicato e rafforzato dalle infiltrazioni massicce nel tessuto produttivo da parte della ‘ndrangheta. La contrazione del lavoro ha portato ad un massiccio ricorso alla cassa integrazione e poi ai sussidi di disoccupazione. Anche qui, l’orientamento politico si è spostato dal Pd al Movimento 5 Stelle o all’astensione, giustificato dal pensiero che sulle tematiche del lavoro non c’è differenza fra le politiche del Pd e quelle della destra.
Esempio di sfruttamento emblematico è poi quello dei riders, cioè dei ciclo-fattorini di pasti. Campetti intervista quelli torinesi che erano pagati 5 euro all’ora e dovevano dotarsi a spese proprie della bicicletta tenuta in perfetta efficienza. Quando avevano chiesto di essere pagati 7,5 euro come i colleghi milanesi, si erano visti cambiare dalla tedesca Foodora il rapporto di lavoro passando al cottimo puro, pagato con 2,7 euro a chiamata. Davanti alle proteste pubbliche dei riders, la Foodora aveva offerto 3,60 euro a chiamata e una convenzione per le riparazioni delle bici, ma aveva anche semplicemente cancellato dal suo indirizzario i fattorini che si erano più esposti nella protesta, di fatto licenziandoli. Quando l’opinione pubblica è stata coinvolta nella vicenda, la difesa di Foodora è stata quella di sottolineare che quello non era un vero lavoro ma solo un lavoretto che permetteva di arrotondare le proprie entrate con il piacere di andare in bici. Persa la causa di reintegro davanti al giudice del lavoro (che ha disconosciuto il carattere subordinato del lavoro svolto) i riders hanno incassato anche il perfetto disinteresse delle loro condizioni da parte dei sindacati confederali e si sono rivolti ai sindacati di base.
Come si pone politicamente un rider oggi? Non si riconosce nei partiti e vede di buon occhio solo chi propone un reddito minimo garantito, con ampie riserve peraltro per il carattere verticistico del Movimento 5 Stelle.
Solo a Torino, nella sede della Fiom, Campetti ritrova il ricordo dello spirito di appartenenza ad un’identità operaia. Due operai metalmeccanici, usciti dalla produzione a seguito della crisi, raccontano com’è potuto succedere che le nuove generazioni di lavoratori siano oggi del tutto prive di riferimenti politici e di rappresentanza sindacale: «Gli ultimi entrati erano privi di cultura operaia e noi non siamo riusciti a intercettare i precari e i giovani assunti con contratti a tempo determinato. Con la crisi aziendale ci siamo progressivamente indeboliti. I giovani precari vedono lontanissimo il sindacato...». Alle ultime comunali torinesi Giorgio Airaudo aveva perso, pagando paradossalmente per i disastri altrui: «Quelli provocati da Piero Fassino che veniva raccontato dai media come il sindaco più amato d’Italia, mentre il suo comportamento aveva scatenato la rabbia operaia, delle fasce più deboli e delle periferie abbandonate. Quel Fassino che, quando Marchionne lanciò il referendum ricattatorio “lavoro in cambio di diritti”, non trovò di meglio da dire: “Se fossi un operaio della Fiat, voterei sì”».
Così, al ballottaggio fra Fassino e Chiara Appendino, il risentimento operaio aveva preso la forma del voto a favore di Appendino oppure dell’astensione, pensando così di punire e spazzar via nel modo più efficace la politica di Fassino e Renzi. Un voto di vendetta, secondo la definizione di Marco Revelli.
Questa condizione di solitudine, di disorientamento e di mancanza di riferimenti politici causa una perdita di ruolo sociale così marcata da indurre in un giovane operaio somministrato della Brembo di Curmo Bergamo, leader nella produzione di sistemi frenanti, a vergognarsi quasi del lavoro di operaio fatto per una vita da suo padre, ora pensionato.
Infine il viaggio di Campetti si conclude a Varese presso l’Agusta Westland, produttrice di elicotteri destinati in gran parte all’esportazione. Anche qui un dipendente, già impegnato nei Giovani Ds, ne L’Ulivo e diventato persino segretario di un circolo Pd, gli dice: «Con Letta ho chiuso la mia militanza nel Partito democratico, sentivo avanzare la cultura liberista appena ammorbidita da un po’ di vaselina, e sui temi economici non mi ritrovavo nelle scelte del partito, anche se non c’era ancora il fuoco ad alzo zero di Renzi contro i diritti del lavoro e i sindacati, quando al liberismo è stata tolta anche la vaselina…».
E, dunque, che fare per tentare di riportare i voti operai a sinistra?
Campetti è ben consapevole delle difficoltà che una tale impresa incontra, tanto da intitolare l’ultimo capitolo del suo libro «Ci vorrebbe un Quarantotto».