Con l’articolo che qui pubblichiamo si chiude, al principio dell’anno 2019, la Rubrica Controcanto che aveva preso avvio nell’aprile del 2017.
A Donatella Stasio, che di quella rubrica è stata l’ideatrice e che nella sua intera durata la ha regolarmente alimentata con i suoi scritti, Questione Giustizia deve molto.
In una Rivista fatta quasi interamente da magistrati ed alla quale collaborano quasi esclusivamente giuristi ed uomini di legge, lo sguardo dall’esterno di chi esamina ed analizza i temi della giustizia ed il funzionamento della giurisdizione da spettatore interessato, ma senza essere personalmente coinvolto nel loro farsi quotidiano, ha rappresentato uno straordinario arricchimento.
Lo è stato, crediamo, per i lettori; ma certamente lo è stato anche per i redattori della Rivista, i quali dal confronto con quel diverso punto di vista hanno tratto spunti ed insegnamenti preziosi. E l’insegnamento più importante, in un’epoca caratterizzata da una comunicazione politica esasperata, in cui prevalgono il rancore ed il disprezzo per l’altro, si ricava forse soprattutto dal tono generale che Donatella Stasio ha saputo dare alla sua Rubrica: sempre appassionato, ma al tempo stesso misurato e sobrio; fatto di argomenti e non di invettive polemiche; attento agli accadimenti del presente ma sapendo collocarli nel flusso della storia, perché senza la consapevolezza di quel che è stato è impossibile comprendere davvero ciò che è ed intuire quel che sarà.
A Donatella Stasio va perciò il nostro sincero ringraziamento. La sua Rubrica ci mancherà, ma saremo sempre felici di dare voce al suo pensiero se in futuro vorrà inviarci altri suoi scritti.
Dedicato ai giovani magistrati vincitori dell’ultimo concorso
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Ventinove anni fa – avete letto bene – il processo penale era già in stato comatoso. A certificarlo, i dati e i toni gravi dell’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi. Che, in quel contesto, profetizzò vita breve, e difficile, per il neonato Codice di procedura penale. Un anno di tempo per sopravvivere o morire, fu la sua prognosi ad appena due mesi dall’entrata in vigore del Codice Vassalli-Pisapia. Correva l’anno 1990 e la giustizia – che veniva già da decenni di acciacchi – puntava molto sulla riscrittura del vecchio Codice di procedura penale. Eppure, quella riforma epocale si rivelò quasi subito un “vorrei ma non posso”. Non solo per ragioni culturali – che impedirono agli addetti ai lavori, all’opinione pubblica e alla stessa politica di accettare il nuovo modello di giustizia penale – ma anche e soprattutto per quella cronica mancanza di risorse che – al netto delle lacune normative o delle norme ad personam – da sempre segna il destino delle riforme, facendole vivere o morire. Spesso, modificandole geneticamente.
Ventinove anni dopo, di quella riforma è sopravvissuto poco o nulla. Ma molti interventi sono stati funzionali più a carenze organizzative e di risorse che alla necessità di migliorare l’impianto originario coerentemente allo spirito con cui era stato concepito.
Ventinove anni fa, molti dei vincitori dell’ultimo concorso in magistratura non erano neppure nati. A me, invece, è capitato di essere cronista anche del trentennale “vorrei ma non posso”, di raccontarne aspettative, contraddizioni, fallimenti, passi indietro e in avanti, aspirazioni... . Una narrazione scandita da numeri impietosi sull’arretrato, sulle prescrizioni e soprattutto sui tempi lunghi del processo che ne hanno moltiplicato l’aspetto afflittivo invece di rafforzarne la funzione di accertamento o meno delle responsabilità degli imputati.
Dal 1989 si sono susseguite un centinaio di modifiche legislative, e alcune proposte di riforma – mini, maxi, pseudo, tentate, consumate – sono state accompagnate da svariati slogan: nel 2000, a seguito della riforma dell’articolo 111 della Costituzione, si parlò di processo giusto anche con riferimento alle successive modifiche di legge ordinaria; poi fu la volta del processo breve, del processo europeo, passando per il processo lungo. Riforme in taluni casi stoppate dalla moral suasion del Quirinale e magari riproposte in forme più o meno analoghe in contesti politici diversi. L’ultima risale ad appena un anno fa, o poco più, e come tutte quelle che l’hanno preceduta è stata accompagnata da scontri politici e di categoria (tra magistrati e avvocati) pur promettendo una “svolta” nei tempi e nella qualità della risposta della giustizia penale.
Benché sia prematuro stabilire oggi se quella promessa sia stata mantenuta, ecco che già si annuncia una nuova riforma del processo penale, da confezionare addirittura entro l’anno e con l’accordo di magistrati e avvocati (che su molte, rilevanti, proposte, continuano però ad essere divisi). Ma ancora una volta le possibili modifiche vengono valutate – e piegate - non tanto in funzione delle esigenze della giustizia penale (e quindi dei cittadini, vittime o imputati che siano) quanto dell’incapacità del sistema di renderle efficaci.
Quest’incapacità finisce perciò per “dettare la linea” delle modifiche, a scapito di un processo penale efficiente e democratico e a vantaggio, invece, di interventi settoriali e incoerenti. Tant’è che – a distanza di pochi anni e alla luce di statistiche sempre uguali – arrivano puntuali nuovi interventi, spesso emergenziali e, dunque, ancora più nefasti. Un continuo, infinito, apparente processo riformatore che di fatto sancisce il perenne immobilismo della giustizia penale.
La giustizia è un servizio ma anche un potere. Luciano Violante ha ricordato che, secondo una regola ferrea della politica, nessun potere è disposto a riconoscere a un altro i mezzi per funzionare meglio se non sono chiari i presupposti e i confini della sua azione. Pertanto, la politica non sarà mai disposta a far funzionare la giustizia nell’interesse dei cittadini se prima non avrà definito i poteri della magistratura e messo sé stessa in sicurezza. Dall’altro lato, la magistratura continuerà a usare come alibi la carenza di mezzi per giustificare le proprie inefficienze.
Un gioco di sponda, insomma. Che, come annotavo nel mio primo Controcanto con riferimento alla riforma delle intercettazioni, da sempre consente alla politica inadempiente sul fronte delle risorse di delegittimare la magistratura per le inefficienze della giustizia, e alla magistratura, invece, di trovare in quelle inadempienze un comodo alibi alle proprie responsabilità, di qualunque natura. Perpetuando così un immobilismo funzionale ai reciproci interessi ma micidiale per quelli dei cittadini.
Ho voluto sommariamente ricordare la vicenda del processo penale perché senza memoria storica non può esserci futuro né tanto meno cambiamento ma solo l’inutile, compulsiva replica di comportamenti, sia pure sotto mentite spoglie. La memoria ci soccorre e ci esorta a evitare gli errori del passato, ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione degli auguri ai rappresentanti delle istituzioni, della politica e della società civile. La memoria ci aiuta anzitutto a riconoscere le responsabilità, individuali e collettive. E questo è il primo passaggio per costruire il futuro. Con la convinta consapevolezza – aggiunge Mattarella – che solo il dialogo, e non il conflitto, rappresenta lo strumento per affermare valori, principi, interessi di ciascuna comunità nel contesto della più vasta comunità dei popoli. Ripartire dalla memoria per dare sostanza ai nostri valori e attuarli in qualunque settore non significa rinunciare alla diversità. Anzi: La democrazia non teme la diversità; al contrario ne ha bisogno, ma va sempre coltivato e difeso il senso del futuro comune.
È con questo spirito, e con questa passione, che ho cercato di interpretare ogni mio Controcanto, fin dalla prima pubblicazione. Spero di esserci riuscita e di lasciare ai lettori il senso della diversità di questa inedita Rubrica, che oggi si conclude. Un saluto particolare a Questione Giustizia, luogo straordinario di conoscenza, di approfondimento, di confronto, di pluralismo delle idee. E, quindi, di crescita culturale.
Donatella Stasio