«Non bisogna scoraggiarsi. Non bisogna − solo perché nei periodi di generale turbamento sociale anche i giudici soffrono di queste incoerenze − cessare di avere fiducia nella giustizia». Le “incoerenze” di cui parla Piero Calamandrei sono quelle che emergono essenzialmente nelle motivazioni dei provvedimenti giudiziari durante «i grandi trapassi storici e fino a che il nuovo ordine non abbia superato la fase di assestamento». Siamo negli anni ’50 quando questi pensieri vengono annotati sotto il titolo «Crisi della motivazione». Ma oggi non hanno perduto di attualità: sia pure con le evidenti differenze, anche oggi siamo in presenza di un “trapasso storico” e di un “generale turbamento sociale” – qualcuno parla addirittura di Terza Repubblica – con il conseguente dissidio tra legge e giustizia, che si scarica essenzialmente su quest’ultima nonché sulla motivazione dei suoi provvedimenti, principale veicolo di legittimazione della giustizia stessa. La motivazione è infatti il luogo, lo strumento, il momento della trasparenza, del rendere conto e della coerenza della decisione adottata (per lo più prima della motivazione).
Storicamente, la motivazione “va in crisi” per ragioni diverse. Certamente nobili furono i motivi che, durante la dittatura fascista, spinsero i giudici a «cercare ingegnosi pretesti dialettici per eludere nei loro giudizi la spietata follia delle abominevoli leggi razziali: la motivazione era spesso lo schermo abilmente studiato per compiere questo generoso tradimento». Sì, Calamandrei lo definisce proprio così: generoso tradimento, giustificato da “leggi inumane”, come quelle di persecuzione razziale, che rendevano incontenibile il senso dell’ingiustizia e al tempo stesso rivelavano quanto la giustizia fosse in pericolo. «Sarebbe interessante ricostruire, attraverso lo studio analitico delle motivazioni, lo sforzo dei magistrati per restringere e attenuare la portata delle leggi odiose, contrarie alla loro coscienza», osserva Calamandrei. E chiosa: «Nell’esito di questa indagine si può trovare la misura del livello morale della magistratura in quel periodo».
Ma la “crisi della motivazione”, riflesso del dissidio tra legge e giustizia, si manifesta anche dopo la caduta del regime fascista, in modo diverso ed opposto. Gran parte delle vecchie leggi erano rimaste in vigore sebbene la Costituzione ne imponesse l’abrogazione o comunque il superamento ma i giudici continuarono ad applicarle come avevano fatto nel ventennio precedente, essendosi «assuefatti a interpretarle con spirito di conformismo» e non con il nuovo spirito democratico attraverso la cosiddetta interpretazione «evolutiva», osserva sempre Calamandrei. Di qui altre “dissonanze o sfasature” registrate nelle motivazioni delle sentenze: «leggi repubblicane interpretate con spirito monarchico, leggi antifasciste interpretate con spirito fascista, leggi innovatrici interpretate con spirito conservatore». In alcuni casi, motivazioni in aperto contrasto con il dispositivo. Anzi, che puntavano “addirittura a screditare il dispositivo”. Le cosiddette “sentenze suicide” o le “sentenze polemiche”…
Secondo Calamandrei, la crisi della motivazione «si placa» con il ricambio generazionale dei giudici, quando i vecchi vanno in pensione sostituiti dai «giovani cresciuti nel nuovo clima politico».
Ai giuristi che in quegli anni ’50 parlavano di “declino del diritto” e di “crisi di legalità che attraversa l’Europa”, Calamandrei risponde che, invece di rattristarsi per la giustizia che tramonta, dovrebbero adoperarsi «per far sì che la legalità riesca ad essere, più che strumento di conservazione, strumento pacifico di rinnovamento sociale, capace di guidare il mondo, senza nuove catastrofi, verso il chiarore della giustizia che spunta».
È un auspicio per certi versi valido tutt’oggi. La “guida” o la bussola è la Costituzione. La legalità costituzionale è l’unico antidoto contro il dissidio tra legge e giustizia, e dunque contro la crisi della giustizia, che porta con sé sfiducia e disincanto. Ma è anche e soprattutto l’antidoto contro il rischio di una disgregazione sociale, contro il senso di vuoto e la paura. Al disgelo costituzionale degli anni ’60, durato circa quarant’anni, è seguita quella che Elvio Fassone (Una Costituzione amica, Garzanti, 2012) definisce la “nuova glaciazione” costituzionale (per certi versi analoga a quella degli anni ’50) dovuta non tanto a un’ostilità verso i contenuti della Costituzione «quanto a un’insofferenza per tutto ciò che è normativo, regole giuridiche ma anche regole dello stile, della cultura, della compostezza, della convivenza, e soprattutto della solidarietà che permea l’etica della nostra Carta». Secondo Fassone, non bastano i giudici per dare alla Carta «il senso di una sua effettività, quando esso è smarrito dal contesto politico e sociale». È questo “senso” che bisogna quindi ritrovare, e non solo nelle aule di giustizia.
Fassone definisce la Costituzione “amica”, “materna”. «Di fronte alla ragione di Stato può avere il peso leggero di un sentimento – scrive – ma è un sentimento che diventa forza quando si teme che qualcuno voglia strappare quel pezzo di carta che racchiude un’idea di giustizia». Perché, se è difficile definire che cosa sia la giustizia, è invece di immediata percezione che cosa sia l’ingiustizia: le disuguaglianze pesanti tra le persone, nonché tra uomini e donne; le limitazioni alla libertà di pensiero e di espressione; le discriminazioni; l’indifferenza sociale verso le situazioni di sofferenza.
Andando in giro per carceri, nei mesi scorsi, molti detenuti mi hanno detto: «Belle parole, quelle della Costituzione, ma la realtà è un’altra: non c’è lavoro e ci sono un sacco di ingiustizie». Vero. Ma non è colpa della Costituzione. Che, anzi, indica la strada da seguire. E, per citare sempre Fassone, «ci dice che c’è stato – e ci deve essere ancora, oggi e sempre – un ethos comune che fa da amalgama al nostro vivere insieme e ci trasforma da massa informe in popolo di “soci”. In forza di questo ethos, e di una Costituzione che lo scolpisce, legge e giustizia tornano a ricomporsi».
Donatella Stasio