Un paio di notizie, anzi tre, rischiano di passare inosservate in questo autunno caldo. La prima: in base al Rapporto biennale della Cepej (la Commissione che misura l’efficienza della giustizia nei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa) l’Italia resta “maglia nera” nella classifica sulla durata dei processi, civili ma anche penali dove la media europea viene più che raddoppiata in primo grado (310 giorni contro 138) e addirittura sestuplicata in appello (876 giorni contro 143). La seconda: da qualche mese la popolazione carceraria sta aumentando a un ritmo preoccupante e il 22 ottobre (fonte Dap) era arrivata a quota 59.820 detenuti, su una capienza regolamentare di 50.598 posti (di cui 5mila sarebbero però inagibili), quindi poco meno dei 61mila di dieci anni fa quando esplose la bomba sovraffollamento. A queste due importanti notizie se ne aggiunge una terza, che ha a che fare con l’indice della criminalità: secondo quanto riferito nei giorni scorsi dal Sole 24 Ore in base ai dati forniti dal Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno, anche nel 2017 si conferma il trend al ribasso dei delitti (-2,3 annuo), fatta eccezione per alcune tipologie, come le violenze sessuali e le truffe informatiche.
Dunque, i reati diminuiscono ma si arresta di più, tant’è che le galere tornano ad essere sovraffollate, mentre i tempi dei processi, malgrado piccoli progressi, non garantiscono una durata ragionevole per arrivare a sentenza definitiva. È un quadro preoccupante, anche se, per quanto riguarda il terzo dato, va precisato che i numeri della Cepej si riferiscono al 2016 per cui − in linea teorica − successivamente potrebbe essersi verificato qualche miglioramento dello zero virgola nelle performance dei processi. Che continuano ad arrancare anche per mancanza di risorse umane, tant’è che il Procuratore della Repubblica di Torino Armando Spataro ha deciso di “arruolare” come volontari un gruppo di stranieri richiedenti asilo della cooperativa sociale L’Isola di Ariel per aiutare il personale amministrativo in una serie di lavori semplici ma necessari. E questa, forse, è l’unica vera buona notizia della storia. Per il resto, ci sono tutti gli ingredienti di una storiaccia, non compatibile con gli standard di efficienza europei e di tutela dei diritti.
Prendiamo il carcere. I numeri sull’attuale sovraffollamento sono di poco inferiori a quelli di dieci anni fa, quando si contavano 61mila detenuti e gli ingressi giornalieri e settimanali erano così numerosi da far presagire 70mila presenze in poco tempo (20mila in più dell’allora capienza regolamentare); scenario scongiurato solo perché la Corte di Strasburgo cominciò a condannare l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, dovuti anche al sovraffollamento, e da allora in poi i Governi furono costretti ad adottare politiche di contenimento e, più in generale, di razionalizzazione dell’esecuzione penale.
Oggi ci risiamo. Le statistiche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) rivelano un costante aumento settimanale dal 23 luglio di quest’anno al 22 ottobre, periodo in cui i detenuti sono passati da 58.616 a 59.820. Anche l’analisi mensile – che abbraccia il periodo più ampio compreso tra il 30 settembre 2017 e il 30 settembre 2018 − registra un aumento progressivo dei detenuti, da 57.661 a 59.275. Lo stesso trend si ritrova nella tabella sui detenuti in attesa di primo giudizio, ed è particolarmente marcato nel periodo che va dal 23 luglio al 22 ottobre di quest’anno, in cui si passa da 9.339 a 10.212 detenuti in custodia cautelare in attesa della sentenza di primo grado. È interessante notare, invece, che nell’arco temporale più ampio – dal 30 settembre 2017 al 31 luglio 2018 − l’andamento varia: dalle 10.247 presenze iniziali si scende alle 9.634 di dicembre, poi si susseguono piccoli aggiustamenti verso l’alto e verso il basso fino ad aprile 2018 quando comincia una costante riduzione fino a luglio di quest’anno (9.163) e poi, invece, si ricomincia a salire, arrivando al 30 settembre scorso con 10.008 detenuti in attesa di primo giudizio.
Negli ultimi mesi, quindi, si è arrestato di più, anche se le leggi sono sempre le stesse e i reati sono diminuiti. Ci hanno sempre spiegato che gli arresti risentono del clima politico, per cui, se un Governo predica la «tolleranza zero» sarà più facile e frequente il ricorso alle manette, magari anche con qualche forzatura… E poco importa se la permanenza in carcere sarà breve: l’effetto «porte girevoli» si scaricherà sul sistema, creando sovraffollamento, comprimendo i diritti e acuendo in generale i problemi del carcere. A cominciare dai suicidi. Nel 2017 sono stati 52 ma il trend è in aumento: la contabilità dei primi 9 mesi del 2017 ne registrava 45 ma nello stesso periodo del 2018 sono saliti a 49.
Dieci anni fa il Governo pensò di puntare sulla costruzione di nuove carceri, varando un piano straordinario poi fallito miseramente, tanto che la Corte di Strasburgo – già intervenuta nel 2009 con la sentenza Sulejmanovic, di condanna dell’Italia per trattamenti inumani e degradanti – tornò a farsi sentire nel 2013, con l’ormai famosa sentenza Torreggiani: non solo fummo di nuovo condannati al risarcimento danni per trattamenti inumani e degradanti ma, considerata la pioggia di ricorsi, fummo messi in mora rispetto a una «riforma strutturale» che risolvesse il problema del sovraffollamento e soprattutto garantisse un’esecuzione della pena rispettosa dei diritti fondamenti dei detenuti.
In quel modo, la Corte europea dei diritti dell’uomo imponeva, sia pure indirettamente, una netta sterzata alla politica emergenziale portata avanti negli anni precedenti in nome della sicurezza dei cittadini, che spesso si era tradotta in riforme sconnesse dirette ad aumentare le pene o a infierire sui recidivi, con la conseguenza di moltiplicare il numero dei detenuti, soprattutto stranieri e tossicodipendenti. E in effetti la politica criminale sterzò, almeno in parte, anche grazie ad alcuni interventi della Cassazione e della Corte costituzionale su tossicodipendenti, recidivi, migranti.
Il resto è storia recente. L’Italia (con Governi tecnici e politici di diverso colore) imbocca la strada della de-carcerizzazione attraverso misure deflattive e alternative al carcere, e così si libera degli scomodi panni di «sorvegliata speciale», evita risarcimenti milionari, riscatta l’onore di un Paese che tutela i diritti fondamentali. A fine 2014, la popolazione carceraria tocca il minimo storico degli ultimi vent’anni con 55.600 detenuti, e senza che le statistiche registrino aumenti della criminalità… Anzi, come abbiamo visto, da anni si conferma un trend discendente…
Certo, se nel percorrere questa strada vi fosse stata e vi fosse più determinazione, oggi guarderemmo avanti invece che indietro. Se la classe dirigente avesse dimostrato e dimostrasse di credere davvero ai principi che hanno messo in moto quel percorso virtuoso, oggi non avremmo alle porte un’altra emergenza sovraffollamento e le carceri sarebbero «fabbriche di libertà», costruite cioè con il “cemento” dei valori costituzionali.
Ronald Dworkin, uno dei maggiori filosofi del diritto contemporanei, diceva che la violazione dei diritti fondamentali produce un danno incalcolabile perché «mortifica l’orgoglio, l’onore di una nazione». L’Italia non può permettersi altre mortificazioni del genere. Non c’è consenso popolare che bilanci la perdita dell’onore. Un “bene” che dovrebbe stare a cuore a qualunque cittadino e, quindi, a qualunque forza politica.
Se questa è la posta in gioco, la partita impone di abbandonare tentazioni securitarie, di cui la storia si è già incaricata di dimostrare l’inutilità e soprattutto la pericolosità.
Personalmente ribadisco quanto ho sempre scritto: una politica che rinuncia a depenalizzare seriamente e a puntare su pene e misure alternative alla detenzione, che fa la faccia feroce aumentando le dosi di carcere per i reati di strada e brandendo la galera a ogni piè sospinto, che non lascia “respirare” il carcere ma lo condanna a una dimensione claustrofobica, che per rincorrere il consenso nutre i cittadini di luoghi comuni e paure, questa politica – qualunque colore abbia – forse incasserà voti ma sarà perdente perché condannerà il Paese all’immobilismo e alla paura. Ma sarà soprattutto responsabile di aver scavato un baratro talmente profondo tra il Paese e i suoi valori costituzionali da metterne in gioco la tenuta democratica.
E qui va recuperata ancora una volta la lezione di Dworkin quando diceva che il rispetto dei diritti umani non è un impiccio di cui liberarsi per placare la paura e riscuotere consensi ma è invece la «briscola», cioè la carta vincente di ogni partita, anche di quella sulla sicurezza.
Donatella Stasio