La sentenza della Corte d’appello di Trento che si commenta, e che ha ritenuto discriminatorio per ragioni di orientamento sessuale il mancato rinnovo di un contratto a termine a un’insegnante di educazione artistica di una scuola paritaria cattolica, prosegue la complessa opera di rivisitazione, o forse di ricostruzione, dei propri orientamenti avviata dalla giurisprudenza nazionale in ordine all’estensione e ai limiti dei divieti di discriminazione, in esito ai profondi cambiamenti che il sistema delle tutele lavoristiche ha vissuto in un arco di tempo relativamente breve e che hanno attribuito al principio paritario un’inedita centralità anche sul piano applicativo.
Si tratta di una riflessione che ha cambiato indirizzi consolidati e abbandonato affermazioni tralaticie, in uno sforzo di “conformazione” della giurisprudenza nazionale ai principi del diritto dell’Unione che ha in sé un rilievo anche eccedente la materia lavoristica, in quanto indicativo di una più intensa interazione tra l’ordinamento interno e quello sovranazionale
A mutare è in primo luogo la nozione stessa di discriminazione assunta dai giudici nazionali e, quindi in una relazione necessaria, il regime dell’onere di darne prova in giudizio.
Nella giurisprudenza di legittimità il cambiamento di paradigma si deve in primis alla decisione 6575/2016, con cui la Corte regolatrice abbandona la sua consolidata ricostruzione della discriminazione come motivo illecito determinante[1] a favore di una nozione oggettiva e funzionale dei divieti di discriminazione, per cui vietato è un effetto, non un motivo.
La Corte afferma infatti che «la discriminazione − diversamente dal motivo illecito − opera obiettivamente − ovvero in ragione dei mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta − ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro», e, facendosi nella specie questione di discriminazione diretta, non vale ad escluderla «la concorrenza di un' altra finalità, pur legittima», così che, in un chiaro rovesciamento del precedente indirizzo[2], non si dà discriminazione solo in presenza di una ragione alternativa lecita della condotta datoriale avente essa esclusivo rilievo causale.
Ne deriva di necessità una radicale riscrittura dell’onere della prova, non più incentrato sulla dimostrazione di un motivo illecito determinante, posta a carico di chi l’affermi, ma sulla prova di un trattamento differenziale in funzione di uno dei fattori di protezione, resa in concreto praticabile dal regime agevolato assicurato dal diritto derivato dell’Unione. Come è noto, infatti, le disposizioni dell’art. 8 della direttiva 2000/43/CE in materia di parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e poi dell’art. 10 della direttiva quadro 2000/78/CE direttiva quadro in materia di parità di trattamento quanto all’occupazione e alle condizioni di lavoro obbligano gli Stati membri ad adottare «le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un'altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento».
L’agevolazione probatoria, dichiaratamente ispirata dal principio di effettività delle tutele richiamato dal trentesimo Considerando della direttiva 2000/78 (secondo cui «l'efficace attuazione del principio di parità richiede un'adeguata protezione giuridica in difesa delle vittime»), muove dal riconoscimento di un’asimmetria informativa tendenzialmente necessaria tra il lavoratore che assuma di aver subito un trattamento differenziale in ragione di uno dei fattori di protezione previsti dall’ordinamento sovranazionale e il datore di lavoro, l’unico a essere nella disponibilità dei dati sui quali in effetto ha fondato la disparità di trattamento.
E il regime probatorio agevolato opera appunto favorendo il lavoratore attore nella dimostrazione del nesso di causalità tra trattamento differenziato e fattore di discriminazione, una volta che egli abbia provato l’esistenza in fatto di un trattamento differenziato rispetto al termine di comparazione prescelto (e che potrebbe essere non più esistente o anche solo ipotetico).
Così che, assunta la struttura generalmente relazionale del giudizio di discriminazione (ad eccezione della peculiare ipotesi delle molestie), spetterà all’attore:
a) allegare ed eventualmente dimostrare il fattore di discriminazione (una prova di varia difficoltà evidentemente in relazione ai diversi fattori, modestissima per l’età o l’handicap, ben più complessa ad esempio per le convinzioni personali, come belief, credo, non semplicemente opinione);
b) affermare e dimostrare l’esistenza di un trattamento deteriore in suo confronto rispetto al termine di comparazione (e quindi a un soggetto, anche non più esistente o anche solo ipotetico, ma comunque non portatore del fattore protetto), ciò anche a mezzo del dato statistico, uno strumento che la (per la verità ancora scarsa) giurisprudenza intende in senso ampio, ritenendo utilizzabili quindi non solo regolarità scientificamente verificabili, ma più generalmente elementi estrinseci al rapporto indicativi comunque di regolarità causali, fondanti ragionevoli probabilità di accadimento dei fatti.
Assolto quest’onere da parte dell’attore sarà il datore di lavoro a dover dimostrare fatti, necessariamente specifici ed obiettivamente verificabili, idonei a far ritenere:
1) nel caso di discriminazione diretta: l’inesistenza della discriminazione e quindi l’esistenza di una ragione non discriminatoria del trattamento differenziato, alternativa a quella normativamente presunta, e avente esclusiva rilevanza causale (come con chiarezza affermato dalla pronuncia 6575/2016), oppure l’esistenza di una deroga, ossia l’esclusione della fattispecie dall’area del divieto (che può darsi, come si proverà a dire più ampiamente infra, quando il trattamento differenziale dipenda da una caratteristica essenziale della prestazione);
2) in caso di discriminazione indiretta l’inesistenza della discriminazione (e quindi il carattere in effetto non svantaggioso del criterio o della prassi per il gruppo portatore del fattore di protezione) oppure la riferibilità del criterio o prassi potenzialmente svantaggiosi ad una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e necessari.
In ogni caso, ed è ciò che qui rileva, il difetto di prova dell’inesistenza della discriminazione o dell’esistenza dell’esimente resterà a suo danno.
La sentenza che si commenta descrive con particolare efficacia questo schema quando afferma che l’agevolazione probatoria riconosciuta dalle fonti dell’Unione implica che «gli elementi di fatto devono essere … precisi e concordanti e avere un significato intrinseco che autorizzi a ritenere plausibile la discriminazione. Non è invece necessario che questi fatti esauriscano ogni possibile significato e siano incompatibili con una diversa conclusione… il soggetto che chiede tutela ha l’onere di allegare, e se contestati di provare, fatti che possono costituire discriminazione illegittima, il soggetto che si afferma essere autore della discriminazione ha l’onere di dimostrare che ricorrono circostanze univocamente incompatibili con quel significato, onere tanto più difficile da superare quanto più gli elementi di fatto allegati dal primo si approssimano al massimo grado di automatismo valutativo».
Si tratta di un tema centrale nella ricostruzione del dispositivo antidiscriminatorio, come si coglie in un'altra recente pronuncia di legittimità (Cass. n. 23286/2016), che conclude una vicenda di molestie sessuali iniziata davanti al Tribunale di Pistoia e che è significativa per più motivi.
In primo luogo dal punto di vista argomentativo, per il rilievo dato alle fonti superprimarie di diritto dell’Unione (e così all’obbligo di interpretazione conforme del giudice nazionale), e poi più specificamente quanto al decisum già perché assume l’applicabilità del regime probatorio agevolato previsto per le discriminazioni dal diritto derivato dell’Unione anche alle molestie, affermando che in tali casi l’onere di chi deduca la molestia si esaurisce nell’allegazione di fatti idonei a farne presumere l’esistenza, restando in tal caso onere del datore di lavoro dimostrarne l’inesistenza.
Ma la decisione della Corte rileva grandemente anche sotto un altro profilo, in quanto ritiene l’applicazione di quel regime probatorio agevolato nell’ambito di un giudizio ordinario ex art. 414 cpc, diverso quindi da quello previsto dagli art. 38 e segg. del d.lgs 198/2006 per le discriminazioni di genere e altrimenti dall’art. 28 del d.lgs 150/2011.
Un’affermazione di grande importanza, in quanto conferma la strumentalità necessaria del regime agevolato della prova rispetto alla tutela delle posizioni soggettive tutelate dai divieti di discriminazione, così che quel regime dovrà trovare applicazione, quando la violazione dei divieti sia dedotta, anche nel rito specifico previsto dalla l. 92/2012 quando il lavoratore che si affermi discriminato in relazione a uno dei fattori di protezione impugni per questo il licenziamento, chiedendo l’applicazione della tutela ex art. 18 primo comma nel testo modificato dalla l. 92/2012, o nel rito ordinario quando si assuma la discriminatorietà di un licenziamento intimato nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato cd. a tutele crescenti.
Un altro tema decisivo nella ricostruzione dell’ambito applicativo dei divieti di discriminazione, con cui la giurisprudenza più recente non ha mancato di confrontarsi, è quello della natura e dell’estensione delle deroghe nei casi di discriminazione diretta (e per conseguenza dell’oggetto dell’onere di darne prova).
Ne tratta la decisione in commento (sotto vari profili di cui si dirà) e ne trattano altre due pronunce, le prime, a quanto consta, che nel nostro ordinamento si siano occupate della legittimità di trattamenti differenziali connessi alla vestizione sui luoghi di lavoro del velo islamico[3].
In particolare la Corte d’appello di Milano, riformando la decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Lodi, ha ritenuto che integrasse una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa la determinazione di una società di selezione del personale di escludere da una selezione per lo svolgimento della prestazione di hostess/distributrice di volantini presso una fiera della calzatura una lavoratrice a causa della sua decisione di non togliere il velo (hijab) da lei indossato per motivi religiosi e che le copriva i capelli, lasciando scoperto il viso.
Richiesta dell’accertamento dell’esistenza di una deroga al divieto di discriminazione secondo la previsione dell’art. 4 della Direttiva n. 2000/78 (che in tema di «requisiti per lo svolgimento dell’attività lavorativa», attribuisce agli Stati membri la possibilità di «stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’art. 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato») la Corte milanese ha escluso che nella specie la capigliatura (e quindi il capo scoperto) costituisse un elemento essenziale della prestazione, come richiesta dalla committente della società di selezione.
La sentenza quindi riforma la decisione di primo grado proprio in relazione all’argomento più controvertibile di quella pronuncia, che aveva affermato l’inesistenza della discriminazione sul presupposto che il capo scoperto fosse requisito indispensabile della prestazione quale richiesta dal committente.
Tuttavia, poiché la motivazione della Corte muove dal fatto (la circostanza che in concreto il committente non avesse assunto come necessario il requisito della capigliatura fluente), resta estraneo al decisum il tema più generale del criterio di apprezzamento dell’essenzialità del requisito, se esso cioè sia obiettivo e attenga quindi alla natura della prestazione, ovvero dipenda dalla determinazione del datore di lavoro che domandi quella prestazione.
Un tema di cui dice invece la Corte d’appello di Trento, a fronte delle difese dell’istituto scolastico convenuto e relative ad assunte «lamentele/rimostranze segnalazioni» (così la pronuncia a pag. 43) che sarebbero pervenute alla direttrice della scuola circa la relazione omosessuale e la convivenza con una compagna dell’insegnante che si affermava discriminata.
Sul punto la Corte ha escluso la rilevanza di ogni indagine istruttoria su tali «voci» (così ancora pag. 43), in quanto esse non avrebbero avuto comunque alcuna incidenza sulla prova della legittimità del trattamento differenziale, giacché la finalità dei divieti di discriminazione esclude «un’interpretazione che fondi la valutazione circa l’esistenza di una ragione legittima sull’opinione, per quanto condivisa dell’utenza della scuola, della giustificazione della discriminazione, qualora la discriminazione non sia oggettivamente giustificata dalla natura dell’attività da svolgere in relazione al contesta in cui deve essere svolta».
La pronuncia afferma così, del tutto condivisibilmente, il carattere necessariamente obiettivo delle deroghe ai divieti di discriminazione, come obiettivi sono i divieti, così che esse attengono alla natura della prestazione ex se.
E ciò senza che rilevi in contrario il fatto che in tal modo i divieti di discriminazione siano idonei a pregiudicare gli interessi del datore di lavoro (circostanza che, pur nella peculiarità della fattispecie, la scuola verosimilmente intendeva dimostrare chiedendo di provare le asserite “rimostranze” dell’utenza). Corrisponde infatti alla funzione protettiva del principio paritario la sua attitudine ad operare anche (se non necessariamente) in maniera disfunzionale rispetto alle logiche del mercato e dell’impresa, come con chiarezza affermato dalla Corte di giustizia[4].
Ma il tema delle deroghe si pone con particolare complessità nella fattispecie esaminata dalla Corte d’appello di Trento per essere il datore di lavoro una scuola cattolica, seppure paritaria.
È noto infatti che, «nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali», l’art. 4 della direttiva 2000/78 consenta disposizioni in virtù delle quali, nell’ambito di tali organizzazioni, «una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisca discriminazione laddove, per la natura di tali attività, o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione». Così che le norme della direttiva «non pregiudicano il diritto delle chiese o delle altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, e che agiscono in conformità delle disposizioni costituzionali e legislative nazionali, di esigere dalle persone che sono alle loro dipendenze un atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione». Ma la direttiva prevede anche che una simile deroga «non può giustificare una discriminazione basata su altri motivi».
Il testo della legge di trasposizione (il comma 5 dell’art. 3 del d.lgs 216/2003) dispone poi che «non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’àmbito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività».
La vicenda all’esame della Corte d’appello di Trento mostra chiaramente i termini del problema quando si faccia questione di organizzazioni la cui etica comprenda l’affermazione come doverose anche di regole concernenti le relazioni sessuali.
In quella vicenda la Corte ha escluso l’esistenza della deroga per diverse ragioni, ciascuna delle quali probabilmente di per sé sufficiente.
In primo luogo in conseguenza della natura di scuola paritaria dell’organizzazione coinvolta «che, come tale fa parte del sistema nazionale di istruzione, beneficia di finanziamenti pubblici e rilascia titoli di studio aventi valore legale e che, in quanto scuola gestita da un ordine religioso gode della libertà di cui al comma 4 dell’art. 33 della Costituzione di orientamento culturale e di indirizzo pedagogico-didattico, ma nel rispetto degli altri principi di libertà garantiti dalla Costituzione dello Stato italiano (art. 1)».
È in relazione a questo specifico contesto allora che la Corte ritiene debba essere «valutato se… un determinato orientamento sessuale dell’insegnante possa essere richiesto quale requisito essenziale, determinante, secondo principi di proporzionalità e ragionevolezza per lo svolgimento dell'attività lavorativa», per concludere negativamente.
Infatti il carattere necessariamente obiettivo delle deroghe impone di escludere che «l’orientamento sessuale dell’insegnante, così come la sua vita privata, possano avere rilevanza nell’insegnamento della materia di educazione artistica in una scuola paritaria ancorché gestita da un ordine religioso» mentre «l’armonia con i principi costituzionali, compresi l’art. 21 e l’art. 3, declinato quest’ultimo in senso esplicitamente antidiscriminatorio dall’art. 21 Carta di Nizza, implica che la libertà di orientamento culturale e di indirizzo pedagogico-didattico riconosciuta alle scuole paritarie non possa comportare anche la libertà di attuare discriminazioni per l’accesso al lavoro in base a fattori estranei alla qualità della prestazione lavorativa richiesta»[5].
D’altro canto, in punto di fatto, il giudice di Trento esclude che il progetto educativo dell’istituto scolastico (che l’insegnante, all’atto dell’assunzione, si era impegnata a rispettare) comprendesse la condivisione della dottrina cattolica e verifica (compiendo così l’accertamento comparativo tipico del dispositivo antidiscriminatorio) il trattamento differenziale rispetto agli insegnanti eterosessuali, cui non sarebbe stata richiesta l’adesione confessionale alla religione cattolica, alle sue regole di comportamento sessuale o alla sua concezione della famiglia e del matrimonio quale condizione per la loro assunzione, così che il datore di lavoro avrebbe mancato di dimostrare un trattamento uguale e non meno favorevole connesso all’orientamento sessuale.
Ma più radicalmente la Corte mostra di non condividere l’affermazione, svolta dalla difesa dell’istituto scolastico, che siano connesse all’omosessualità convinzioni personali contrarie alla concezione dell’ordine morale affermato dall’ordine religioso che gestiva la scuola.
Si legge nella pronuncia che la difesa della scuola «non distingue tra orientamento affettivo, regole di comportamento sessuale e principi fondamentali di etica sociale e di relazione a cui è ispirato il progetto educativo». E che è comunque non conseguente in quanto implica l’affermazione, da un lato, che la persona omosessuale non possa avere fede religiosa, dall’altro che le regole di comportamento sessuale riassumano (o esauriscano) la concezione dell’ordine morale della religione cattolica e valgano perciò a escludere dalla comunità cattolica la persona omosessuale che vive il proprio orientamento affettivo.
Sono argomenti che muovono, condivisibilmente, dall’espressa disposizione della direttiva che non consente, neppure nei rapporti di lavoro alle dipendenze di chiese e organizzazioni di tendenza, discriminazioni basate su motivi diversi dalla religione e dalle convinzioni personali, e dall’impossibilità di assimilare l’orientamento sessuale alle convinzioni personali.
Un’impossibilità che è certamente normativa, giacché i due fattori di protezione sono separatamente previsti (e protetti) dal diritto dell’Unione, ma che prima appartiene alla realtà dei fatti, se si assume la nozione comune di orientamento sessuale, come orientamento affettivo, attrazione emozionale e/o sessuale, quindi come connotato della persona ordinariamente sprovvisto dei caratteri di consapevole volizione che qualificano le convinzioni personali.
D’altro canto neppure potrebbe darsi rilievo, ai fini che interessano, alle scelte di vita conseguenti alla propria preferenza sessuale (nella specie l’assunta convivenza con una compagna da parte dell’insegnante), in quanto queste contrastanti con le regole di comportamento e quindi con l’etica dell’organizzazione.
Infatti, in sé considerate, e quindi indipendentemente dal carattere pubblico, e perciò noto o conoscibile nell’ambiente di lavoro, tali scelte non possono che essere ritenute espressione necessaria di un modo di essere della persona (l’orientamento sessuale, appunto), come tali irriducibili a una convinzione, a un credo, che comunque presuppongono libere determinazioni dell’agente tra più alternative consapevolmente apprezzate[6].
Ove, invece, (ed è un tema che sembra non essere stato estraneo alle difese della scuola, secondo quello che si comprende dalla decisione in commento) si intendano tali scelte come contrastanti con l’etica dell’organizzazione in ragione del loro carattere pubblico (“il pubblico scandalo”, cui fa un cenno la pronuncia) a maggior ragione dovrebbe escludersi l’esistenza della deroga.
È di una certa evidenza infatti che la contrarietà di talune condotte a regole etiche di comportamento non possa essere considerata rilevante ai fini dell’apprezzamento dell’«atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione», che la direttiva considera esigibile dai dipendenti di organizzazioni di tendenza, in relazione al carattere manifesto, o invece clandestino, della violazione, giacché l’etica per definizione non dovrebbe curare l’apparenza.
Infine merita rammentare, ed è una considerazione cui perviene anche la decisione che si commenta, come ogni caso di dubbio in ordine all’esistenza di una deroga non possa che essere risolto per l’inesistenza della deroga medesima, per essere le norme che la prevedono senz’altro di stretta interpretazione, come emerge inequivocamente dal tenore del considerando 23 della direttiva 2000/78, secondo cui esse non possono darsi che «in casi strettamente limitati», da indicarsi «nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione».
[1] Si veda per tutte Cass. Civ. Sent. n. 16155 del 9 luglio 2009 secondo cui: «… le indicazioni delle varie ipotesi di licenziamento discriminatorio, contenute nelle citate disposizioni, costituiscono specificazione della più ampia fattispecie del licenziamento viziato da motivo illecito, riconducibile alla generale previsione codicistica dell'atto unilaterale nullo ai sensi dell'art. 1345 c.c. (in relazione all'art. 1324 c.c.)... Conseguentemente l'area di tutela del licenziamento discriminatorio, nella sua accezione più ampia − rectius estensiva −, attiene a quei motivi che integrano perseguimento di finalità contrarie all'ordine pubblico, al buon costume o ad altri scopi espressamente proibiti dalla legge e non quando rivelino altri fini che in sé non siano confliggenti con tali divieti (V. Cass. 7832/98)».
[2] Che assumeva che il motivo discriminatorio, per essere rilevante dovesse essere esclusivo: così testualmente Cass. Civ. Sez. lavoro, 14 luglio 2005, n. 14816: «Per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l'intento discriminatorio e di rappresaglia per l'attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso»; nello stesso senso da ultimo, ma ex plurimis, Cass. Civ. Sez. lavoro, 18 marzo 2011, n. 6282. Per l’affermazione dell’onere per il lavoratore attore anche di una specifica deduzione del vizio, in mancanza non essendo consentito al giudice di apprezzare i fatti allegati al fine dell’accertamento della discriminazione Cass. Civ. Sez. lavoro, 21 dicembre 2004, n. 23683.
[3] Si tratta della decisione 3 luglio 2014 del Tribunale di Lodi e di quella, che riforma la prima, della Corte d’appello di Milano del 4 maggio 2016
[4] Cfr. Corte di Giustizia, Grande Sezione, 10 luglio 2008, Feryn. Meritano di essere riportate testualmente anche le conclusioni dell’Avvocato generale in quel procedimento al punto 18, nel quale si legge che: «L’affermazione del sig. Feryn secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei lavoratori di una determinata origine etnica è del tutto irrilevante rispetto alla questione dell’applicabilità della direttiva. Quand’anche tale affermazione corrispondesse al vero, essa dimostrerebbe solo che “i mercati non cureranno la discriminazione” e che l’intervento del legislatore è essenziale».
[5] Da qui deriva, secondo la Corte d’appello di Trento, l’inconferenza nella specie della sentenza della Corte Edu del 23 settembre 2010 Obst c. Germania, che ha considerato legittimo il licenziamento da parte della Chiesa Mormone di Germania di un proprio dirigente, impiegato in qualità di direttore del dipartimento di relazioni pubbliche per l'Europa, dopo che questi aveva confidato ad un proprio superiore di avere avuto una relazione extraconiugale, giacché nel caso trattato dalla Corte di Strasburgo, assumeva rilievo la funzione dirigenziale svolta dall'interessato nell’ambito dell’organizzazione, che valeva a connotare in maniera specifica il suo dovere di lealtà verso l’ente.
[6] Ma anche a ritenere diversamente e, di conseguenza assumendo che un’organizzazione religiosa possa richiedere ai propri fedeli scelte di vite contrastanti con loro caratteri personali (e così ad esempio l’astinenza alle persone omosessuali), è certo che un simile canone non potrebbe essere imposto a dipendenti dell’organizzazione la cui attività non sia intrinsecamente collegata alla trasmissione dei valori etici dell’ente, come ritenuto dalla Corte Edu nella decisione 23 settembre 2010, Schuth c. Germania, che ha considerato illegittimo il licenziamento intimato da una parrocchia della Chiesa cattolica di Germania al proprio organista dopo che questi aveva divorziato e aveva avuto un figlio da un'altra relazione. In quel caso la Corte di Strasburgo ha escluso che il datore di lavoro potesse legittimamente imporre a un lavoratore la cui attività non era espressiva dell’etica dell’organizzazione di aderire al codice canonico che lo avrebbe obbligato, dopo il divorzio, a vivere nell'astinenza sessuale, con ciò incidendo in misura sproporzionata sul suo diritto al rispetto della vita privata.