Nella Roma del dopoguerra, nel quartiere Esquilino, un giovane esce di casa per andare a scuola. Percorre qualche centinaio di metri e arriva a Piazza Vittorio, la più grande di Roma. Oltre non riesce ad andare. La piazza è bloccata per le riprese di un film. Si intitola Ladri di biciclette e nel 1949 vincerà anche un premio Oscar. Dietro la macchina da presa c’è Vittorio De Sica.
Il protagonista fa l’attacchino per il comune di Roma, ha subito il furto di una bicicletta e spera di ritrovarla lì, in compagnia di suo figlio, sotto i portici della Roma umbertina. Quel giovane curioso decide di marinare la scuola, assiste alle riprese di un capolavoro del neorealismo e pensa: «Un giorno, anche io farò il cinema». Potrebbe iniziare così un soggetto sulla vita di Ettore Scola, l’ultimo grande maestro del cinema italiano. Ieri, il suo cuore ha smesso di battere dopo 84 anni.
Nato nel 1931 a Trevico, in provincia di Avellino, Scola si trasferisce a Roma con la famiglia a soli quattro anni. È ancora un adolescente quando inizia a collaborare come disegnatore con quella fucina di talenti che fu la rivista Marc’Aurelio. I suoi lo avrebbero voluto medico, lui ripiega su giurisprudenza, ma a spuntarla è la passione per il disegno e per il cinema.
I primi soggetti e sceneggiature risalgono ai primi anni ’50 quando a Roma prende vita una straordinaria miniera di sceneggiatori (Amidei, Sonego, Age, Scarpelli, Maccari) che sceglie di raccontare l’Italia e le sue trasformazioni con il paradigma della comicità. Scola ne sarà una colonna portante. È la stagione della commedia all’italiana, che lui stesso definirà «un ginepraio in cui è difficile districarsi, una specie di mercato delle pulci dove c’è stato di tutto». Collabora con Pietrangeli, Steno, Bolognini, Loy, Puccini, Salce, Zampa, Lizzani. Ma il suo nome è legato soprattutto a Dino Risi e al suo Il sorpasso (1963), film-specchio dell’Italia del boom economico.
L’esordio alla regia è datato 1964 (Se permettete, parliamo di donne), con Vittorio Gassman ancora nelle vesti di mattatore. La piena maturità arriverà nell’Italia degli anni ’70. In un paese che inizia a non ridere più di se stesso, incupito dalle bombe e dalla violenza, ma capace anche di scrivere una straordinaria pagina di battaglie civili, Scola realizza i suoi capolavori. Sono storie di proletari senza rivoluzione, idealisti disillusi, avvocati rampanti, onesti lavoratori, sottoproletari senza scrupoli, emarginati dalla storia, nuovi e vecchi mostri, intellettuali opportunisti e vittimisti.
Una parabola cinematografica che andando dalla popolaresca e malinconica tragicommedia di Dramma della gelosia (1970), arriva fino ai “mostri da terza pagina” de La terrazza (1980). Nel mezzo ci sono le eredità della Resistenza, i destini della sinistra italiana, l’amore per il cinema, l’ossessione per De Sica e per Ladri di biciclette («un film che porto nel cuore», dirà più volte) di C’eravamo tanto amati (1974). C’è la Roma da poco orfana di Pasolini – che avrebbe dovuto partecipare al film con una specie di prefazione video – in cui Scola disegna l’avidità che stritola la vita di una famiglia di baraccati a due passi da San Pietro in Brutti, sporchi e cattivi (1976).
Due emarginati dalla retorica fascista – una donna angelo del focolare pronta a dare al regime i suoi figli della lupa e un omosessuale destinato al confino – sono i protagonisti di Una giornata particolare (1977). Sulle loro spalle viene catapultato il peso della Storia. Scola torna così alla sua infanzia, alla Roma imperiale che salutava l’arrivo di Hitler nel 1938. Prima di chiudere con il decennio c’è ancora spazio – in compagnia di Risi e Monicelli – per un ritratto caustico del Paese con I nuovi mostri (1977). L’arrivo del riflusso e del disimpegno viene salutato con La terrazza, film più volte messo a confronto con l’universo fatuo di Jep Gambardella, il protagonista de La grande bellezza di Paolo Sorrentino.
Negli anni a venire ancora molto cinema, fra i tanti film ricordiamo La famiglia (1988), epopea di quattro generazioni e il ricordo della sua amicizia con Fellini in Che strano chiamarsi Federico (2013). Ma di Scola, del suo sguardo sereno, della sua criniera bianca, da conservare c’è la sua idea di settima arte, di un cinema che «non deve dare soluzioni» ma ha il dovere di essere «dubitativo, non affermativo».