Abbiamo chiesto a un avvocato, un docente universitario e tre magistrati di rispondere ad alcune domande sullo stato della giustizia del lavoro. La sintesi del forum è pubblicata sul numero 4/2014 della rivista trimestrale. Qui pubblichiamo le risposte integrali: di seguito il quarto contributo.
1) La mia storia professionale è riassumibile in poche parole, avendo optato fin dall’inizio per un impegno a tempo pieno in Università. Dunque, non esercito la professione legale, tranne qualche rara attività consulenziale per le pubbliche amministrazioni. Tuttavia, poiché ritengo che un giurista non possa dirsi tale se non si confronta con la carne e il sangue di cui è intriso il diritto, e il diritto del lavoro in particolare, ho sempre cercato di dedicare una parte importante del mio impegno allo studio della giurisprudenza e di valorizzarla in sede didattica, soprattutto nelle iniziative formative avanzate che ho avuto modo di organizzare. Così, ad esempio, il Master di diritto del lavoro di secondo livello, attivato nella mia Università nel 2000 e ancora oggi in essere, è dedicato principalmente allo studio dell’esperienza giurisprudenziale. Questo mi ha consentito un incontro fecondo, sul piano della didattica e della ricerca, con magistrati e avvocati. Peraltro, da qualche tempo sono stato designato come componente universitario nel Consiglio Giudiziario della Corte di Appello di Catanzaro e questo mi consente ora di avere una visione più ampia della condizione generale in cui versa l’organizzazione del sistema giustizia.
2) Anche grazie a questo incontro, ho potuto verificare progressivamente come il processo riformatore che ha investito il diritto del lavoro abbia cambiato anche il modo di essere e di percepirsi dei giudici del lavoro, con i quali spesso, ormai amici di lunga data, condividiamo riflessioni e ragionamenti sul senso stesso della scelta di dedicarsi ad un ramo così affascinante ma anche difficile dell’ordinamento. In verità, da giurista accademico, non saprei immaginare un diritto del lavoro senza processo del lavoro e senza quella generazione di giudici del lavoro che ha incarnato nella redazione delle sentenze, e più ancora nella quotidianità del processo (penso all’ascolto delle parti e all’esercizio dei poteri d’ufficio), il principio costituzionale che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli - e fra questi anche quelli connessi, in senso ampio, all’accesso alla giustizia - che impediscono la piena partecipazione dei cittadini.
A dire il vero, è proprio questa tensione costituzionale, che è tipica e propria del diritto del lavoro, ad aver orientato le mie scelte durante gli anni universitari ed a suggerirmi di ritenere ancora essenziale il ruolo del diritto del lavoro per una società più equa. Non a caso, per rappresentare agli studenti il valore della disciplina mi capita spesso di richiamare il titolo di un volume di Antonio Baylos, dell’Universidad de Castilla-La Mancha, «Derecho del trabajo: modelo para armar» cioè un modello per progettare. E non caso, il punto di aggressione più avanzato delle strategie di riconduzione del diritto del lavoro al diritto comune dei contratti è dato proprio dal ruolo del giudice del lavoro, del quale si invoca la sostanziale marginalizzazione a beneficio di strumenti alternativi di risoluzione, spesso a carattere equitativo, affidati alla gestione delle parti e dei loro avvocati, trovando a tal fine facile sostegno tanto dilatazione dei tempi e nella varietà degli esiti processuali.
Al riguardo, mi permetto solo di evidenziare due elementi. Il primo lo racchiudo nelle parole di Massimo D’Antona: la libertà inizia dove finisce l’eguaglianza. Il che vuol dire che la valorizzazione dell’autonomia individuale non può determinare una mera ed immediata riconduzione del diritto del lavoro alle regole del diritto civile. Il secondo è che quanto più il sistema lavoristico si destruttura, quanto più aumentano i microsistemi normativi, tanto più risalta la centralità della Costituzione come criterio ordinatore del sistema: sono proprio i principi costituzionali a dover svolgere una funzione unificante per l’interpretazione delle singole leggi, sempre meno generali ed astratte e sempre meno riconducibili a sistema ordinato, e a guidare il giudice nell’individuazione della soluzione specifica per il singolo caso di fronte alla difficoltà della legge di prevedere e regolare i casi concreti (basti pensare al ruolo attuale, e alle ancora non pienamente esplorate potenzialità processuali, del diritto antidiscriminatorio). Per queste ragioni, vale la pena evidenziare che il giudice è “giudice dei diritti” più che “giudice della legalità”.
3) Alla luce di ciò, vorrei proporre un breve ragionamento, partendo dall’osservazione della complessità e delle sue dimensioni. Una complessità interna al sistema giuslavoristico, segnato da prospettive ideologiche e da tecnologie giuridiche non sempre tra loro coerenti, tanto da indurre a dubitare della stessa valenza euristica di tradizionali approcci sistematici ed a suggerire semmai l’adozione di più articolate logiche sistemiche, di tipo reticolare, che il diritto del lavoro considerano a stregua di sistema complesso e cioè di sistema di (micro)sistemi. Complessità che è anche e soprattutto, anzi direi: originariamente, esterna al sistema, trovando linfa nelle trasformazioni sociali, nelle innovazioni organizzative ed infine nelle suggestioni culturali che si riflettono sui modelli tradizionali di rappresentanza collettiva e sulle stesse forme di partecipazione democratica.
Tale contesto impone un adeguato e coerente sforzo ricostruttivo, che non può dunque limitarsi alla mera contrapposizione tra libertà ed eguaglianza ovvero tra autonomia e subordinazione, tra flessibilità e stabilità (e così via), e rappresenta la cornice al cui interno tratteggiare la questione del giudice del lavoro.
Non è certo una questione di rito e neppure di dubbia terzietà, come qualcuno ha impropriamente suggerito e che si traduce oramai e sempre in accuse di parzialità o sospetti di dietrologie lobbistiche (che, se talvolta non possono essere negate, neppure però possono essere generalizzate). Non è neppure una questione relativa all’individualismo interpretativo ed al soggettivismo giudiziario. Purtroppo si tratta di una eventualità non recente e ben conosciuta, che può essere risolta solo con severi sistemi di autocontrollo interno alla categoria e affidata al maturare di una condivisa coscienza deontologica. Eventualità peraltro oggi esaltata dalle tecnologie informative proprie di quella che è stata definita google generation, adusa a ricercare le sentenze più su un motore di ricerca che su di un repertorio, cartaceo o telematico che sia. Da qui l’emergere di un approccio (conoscitivo e deliberativo) che, perdendo il senso della storicità e il valore della sedimentazione, alla fine tende a dare eguale pregnanza alla sentenza più recente di un tribunale monocratico piuttosto che ad una sentenza a sezione unite della Corte di Cassazione.
E’ invece, a me pare, una questione propriamente di metodo, dal momento che l’apertura cognitiva del giurista, teorico o pratico, necessaria a fini euristici, deve essere coniugata con il carattere chiuso del sistema giuridico. Ciò sposta dunque l’attenzione su due elementi essenziali: la teoria e la pratica dell’argomentazione, da un lato, e, dall’altro, la formazione del giudice del lavoro. Su questi profili vorrei spendere qualche parola.
4) Inizierei dalla questione della formazione, ma soltanto per segnalare fin da subito una sensazione che nel corso del tempo si è consolidata in me nelle aule universitarie: mi duole dirlo, ma i percorsi scolastici e, in genere, il contesto degli anni di formazione, non aiutano il maturare di una consapevolezza critica in persone abituate invece all’apprendimento di una disciplina per contenuti essenziali (con scarsa attenzione alle sfumature) e all’esaltazione della creatività individuale tradotta spesso in una malintesa originalità. In questo contesto di progressiva semplificazione dei saperi e di omologazione delle competenze, non meraviglia che la carica innovativa data dalla creazione di un giudice ad hoc sia stata depotenziata dalla sua sostanziale “civilizzazione” che ha trovato un momento, a mio avviso discutibile, nella prevista utilizzabilità dei giudici onorari nell’ambito delle controversie di lavoro, sia pure attraverso il sistema dell’affiancamento combinato con il criterio dell’anzianità inversa. Capisco che ciò è espressione della logica dei flussi, ma temo che l’apatia di cui parla Roberto Riverso in un suo scritto sulla «Rivista italiana di diritto del lavoro» abbia radici profonde e forse esterne al sistema giudiziario.
Proprio per questo, è auspicabile la riscoperta di uno dei tratti più significativi ed intensi della passata stagione: intendo riferirmi all’importanza di una più intensa relazione tra aule, del foro e dell’università, per consentire la circolazione di esperienze e il maturare di consapevolezze comuni. Fra queste, la più importante è relativa alla necessità imperativa di coniugare problema e sistema. Solo la capacità, per usare le parole di Hartmann, di mantenersi sistematicamente a contatto con il problema, lo sforzo cioè di inserire la soluzione del caso concreto in un tessuto ordinamentale democraticamente stabilito, consente di evitare pericolose forme di soggettivismo decisionale, assicurando l’universalizzazione della decisione.
Per questo, meccanismi incentivanti la produttività giudiziaria, quali la sentenza breve o a richiesta, peraltro nel momento stesso in cui si chiede all’avvocato di proporre modelli di sentenza, non possono che sollecitare uno sguardo critico in quanto scivoli pericolosi verso modelli di giudice decisore e forse anche decisionista. A maggior ragione occorre ribadire che la professionalità del giudice rappresenta una condizione della legittimazione democratica dell’attività giurisdizionale e pertanto deve sussistere “a livello diffuso”, dal momento che, a differenza di quanto avviene per i difensori o per altri professionisti, il cittadino non ha la possibilità di scegliersi il giudice competente ed ha quindi il diritto che lo stato lo assicuri della professionalità del giudice, quale che sia il magistrato che andrà a giudicarlo.
5) Passando al secondo dei profili prima richiamati, mi pare d’obbligo evidenziare fin da subito che la motivazione è l’elemento essenziale di legittimazione (e non solo di giustificazione) della decisione giudiziaria. Affermare la “verità banale” della natura creativa della giurisprudenza significa ammettere che anche i giudici, nei limiti e nelle forme fissati dall’ordinamento, concorrono alla determinazione ed alla produzione del diritto. Nei limiti dati, che qui posso considerare ben noti, quella del giudice è una attività evidentemente creativa, la cui validità non si misura nei termini dell’originalità ovvero dell’abbandono di ogni mediazione sistematica, bensì nella sapiente abilità di chi sa innestare la soluzione del caso concreto in un alveo ordinamentale che, frammentato e debole, ritrova senso nella Costituzione (basti pensare, tanto per fare un esempio lontano, al lontano dialogo delle Corti superiori in materia di prescrizione, e per converso all’attuale silenzio sul tema pur dopo le incertezze derivanti dalla disciplina della c.d. “legge Fornero”). Forse per questo motivo, il diritto del lavoro, non può fare a meno del giudice del lavoro. Ma di un giudice del lavoro che sappia riconoscere che la legittimazione del suo operato passa attraverso argomentazioni pertinenti ed adeguate e non già attraverso suggestive affermazioni.
E sappia riconoscere anche i suoi limiti, dal momento che l’assenza della politica non potrà essere né impedita né supplita dalle sentenze. La vicenda dell’art. 18 è, da questo punto di vista, emblematica dando conferma del fatto che l’imprevedibilità della decisione giudiziaria (si pensi ora anche alla questione del fatto rilevante, alla luce della recente Cass. n. 23699/2014) è imputabile, alla radice, più alla formulazione che all’applicazione della norma. Ed egualmente potrà probabilmente dirsi del licenziamento per motivi economici del quale tratta il c.d. Jobs Act, senza preoccuparsi di definirne la fattispecie (si pensi alla rilevanza del repêchage ai fini della configurazione della fattispecie e dunque dell’identificazione delle sanzioni applicabili), salvo poi lamentare le distorsioni interpretative.
Abbiamo bisogno di giudici che sappiano fare bene il proprio mestiere, ma abbiamo ancora più bisogno di una politica che sappia autorevolmente riprendere il suo ruolo e che assuma finalmente il coraggio delle scelte.