Il volume di Umberto Romagnoli, Giuristi del lavoro nel Novecento italiano. Profili, pubblicato nel 2018 da Ediesse, traccia una storia del diritto del lavoro italiano soffermandosi sulla elaborazione scientifica – ma anche sulla vicenda biografica ed intellettuale – di alcuni tra i suoi massimi studiosi.
Sono proposti i ritratti di quindici giuristi, appartenenti a differenti generazioni, elaborati dall’autore «nell’arco degli ultimi trenta anni», in occasione di convegni, seminari ed eventi volti a ricordarne l’opera. Questi sono stati pubblicati ora tutti assieme ed inseriti in tre differenti sezioni: «Il periodo pre-corporativo»; «Dalla Costituzione allo Statuto dei diritti dei lavoratori»; «Il dopo-Statuto».
Nel libro viene però anche rivolto «uno sguardo d’insieme sui giuristi del periodo corporativo». Nessuno dei quali è in effetti ritenuto meritevole di specifica attenzione, facendo Romagnoli proprio il «giudizio impietoso» di Norberto Bobbio, che ne sottolinea «la monotonia mortifera degli argomenti, l’angustia dell’orizzonte culturale, la totale mancanza di analisi concreta delle situazioni reali».
Mentre la Premessa all’opera è dedicata alla «lezione di Giovanni Tarello»: filosofo del diritto genovese cui si deve una celebre, acuta e dissacrante analisi della metodologicamente eterodossa (se non eretica), anche se progressivamente egemone, dottrina giussindacale italiana, nel corso degli anni Sessanta (e poi nei primissimi anni Settanta). Secondo il quale d’altra parte – ricorda Romagnoli nelle prime righe dell’opera, così idealmente collegandosi a lui – «poco si comprende del funzionamento dell’organizzazione gius-politica di un’epoca e di un paese se non se ne conoscono gli operatori: tra questi, principalmente i giuristi».
Infine e soprattutto l’autore parla (anche) di sé. Inevitabilmente, per certi aspetti. Ampiamente e necessariamente tuttavia: considerato che Romagnoli rientra a pieno titolo nel ristretto ambito dei «giuristi-scrittori capaci di accendere» i lampioni che hanno illuminato la strada a «generazioni di viandanti». Che è stato allievo oppure coetaneo (all’incirca) oppure ancora maestro di buona parte dei giuristi considerati nel volume. Che è uno dei pochissimi costruttori del diritto del lavoro, nell’Italia repubblicana e democratica «fondata sul lavoro», cui è toccata in sorte la non comoda situazione di confrontarsi oggi con il «day after» del medesimo.
Da qui la necessità di «imparare a disimparare, almeno in parte, ciò che prestigiosi giuristi-scrittori del Novecento mi avevano insegnato». Inoltre la precisazione che i profili dei giuristi proposti molto probabilmente oggi non li avrebbe riscritti «tali e quali».
Romagnoli indica in modo più chiaro, all’interno di un saggio collocato nell’ultima sezione del libro, significativamente denominata «Ritorno al futuro», come e quanto sia stato costretto od indotto a disimparare: la «cittadinanza industriosa» sembrandogli oggi il punto di riferimento – o «il paradigma scientifico» – attorno a cui provare a raccogliere quel che nel ventesimo secolo proveniva proprio dal diritto del lavoro. Quando – a differenza di oggi, sostiene appunto l’autore – «la condizione di cittadino derivava da quella di lavoratore».
Il volume pertanto – unendo in una ideale connessione, certo non priva di discontinuità, passato e futuro – si presta oltre modo a riflessioni sul contemporaneo diritto del lavoro. Un settore dell’ordinamento giuridico giovanissimo (avendo in Italia poco più di un secolo d’età: e nel mondo circa il doppio) ma di cui oramai da decenni viene annunciata la crisi, secondo alcuni esiziale; la cui parabola appare in effetti strettamente legata alla vicenda, a sua volta in problematico divenire, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, nel contesto sociale trasformato dalle differenti rivoluzioni industriali; regolato dalla legge secondo una logica «strutturalmente compromissoria»: dove da sempre convivono, in precario equilibrio, la tutela dei prestatori così come la legittimazione dei poteri dell’imprenditore; portatore in generale di uno «statuto epistemologico» come di un «paradigma disciplinare» incerti ed ambigui, permanentemente in tensione tra il diritto privato e pubblico: di cui è probabilmente proprio il contratto collettivo a costituire l’espressione più originale, significativa ed anzi paradigmatica.
Appare dunque chiaramente quanto risulti improbabile proporre in questo ambito «la mitologia pan-creazionista secondo la quale, “come un dio creò l’universo, così il legislatore crea il diritto”»: dice Romagnoli. Mentre «la storia di questo ramo del diritto è più dottrinale che legislativa e più giurisprudenziale che dottrinale»: aggiunge.
Anche se è probabilmente corretto sottolineare come sia stata proprio l’autonomia collettiva a fornire i principali materiali fondativi del “nuovo diritto”: su cui giurisprudenza e dottrina si sono poi soffermate in sede ermeneutica nonché – con indubbie maggiori difficoltà – sistematica.
Non sembra quindi casuale che il volume sia stato pubblicato presso l’editore Ediesse, di proprietà della Cgil: in un dialogo virtuale proprio tra la dottrina ed il sindacato.
I quindici ritratti sono presentati con lo stile vivace, colto ed immaginifico che rende Umberto Romagnoli conosciuto e riconoscibile ben oltre i confini nazionali. Si tratta di approfondimenti colmi di annotazioni, le quali costituiscono una preziosissima miniera di informazioni per comprendere l’elaborazione scientifica dei giuristi: a partire dagli elementi di contesto in cui la medesima sorge e si sviluppa.
La prima sezione ospita dunque i quattro riconosciuti primi esploratori nonché sotto alcuni profili “padri fondatori” del diritto del lavoro.
Ludovico Barassi, «tardopandettista», autore dell’opera monografica Il Contratto di lavoro, risalente al 1901, è rappresentato come alla ricerca di «un costruttivo equilibrio» tra «l’esigenza di mantenersi fedele al passato» e quella «di modernizzare le categorie interpretative di cui dispone». In un ambiente culturale e politico ben definito tuttavia: che lo vede debitore degli «input trasmessi» dal Corriere della sera ad esempio; e lo induce conseguentemente ad esorcizzare «le coalizioni operaie» e marginalizzare «la legislazione sociale, per quanto esigua ed erratica, confidando nel suo veloce declino come accade alle mode passeggere».
Ciò non impedisce al giurista dell’Università cattolica di Milano di cogliere pure elementi decisivi, caratterizzanti il nuovo diritto in formazione: che finirà con il costruire la propria «identità culturale» ed «autonomia scientifica» proprio «attorno ad un concetto inclusivo di lavoro subordinato» da lui elaborato.
Anche Francesco Carnelutti si confronta a lungo, come studioso, con il diritto del lavoro. Ma, a differenza di Barassi, con «smisurato orgoglio del mestiere»; con elevatissima consapevolezza di sé e del proprio ruolo; con «straordinaria capacità di comunicare»; con una cultura giuridica vastissima, se, come allora veniva sottolineato, «non è un processualista né un privatista né un commercialista: è tutto».
Se nella fase giovanile alcuni scritti di Carnelutti, in particolare sullo sciopero, sembrano tuttavia segnalare attenzione e sensibilità per le nuove forme ed istanze collettive poi lo scenario muta: proprio a proposito del conflitto, inoltre del licenziamento, ancora sulla necessità dell’intervento legislativo emergono «discontinuità», nel percorso personale e scientifico, che conducono il giurista (ma altrettanto accadrà per Barassi) ad aderire convintamente alle sopravvenienti istanze fasciste.
Di Giuseppe Messina invece sono rimaste poche informazioni, pur essendo egli il privatista cui si deve il primo organico approfondimento sul “concordato di tariffa” alias contratto collettivo: figura giuridica sorta da qualche decennio, quando il giurista le dedica attenzione, ma per più versi allora (come oggi?) misteriosa.
Infine si parla di Enrico Redenti, eminente giusprocessualista, che esordisce giovanissimo negli studi con un approfondimento, divenuto oltremodo noto, dedicato alla giurisprudenza probivirale: quest’ultima, assieme ai regolamenti di fabbrica ed ai concordati di tariffa, nell’interpretazione dei quali peraltro in buona parte la medesima si forma, individua in effetti un prezioso riferimento per la successiva regolamentazione normativa del diritto del lavoro.
Dopo il fascismo ed il corporativismo l’entrata in vigore della Costituzione avrebbe dovuto introdurre profonde soluzioni di continuità nell’ordinamento lavoristico: così, come noto, è però avvenuto solo in parte.
Negli anni Cinquanta e soprattutto Sessanta del secolo scorso è invece proprio la dottrina giuslavoristica che assume prese di posizione decisive – anche distoniche, se non apertamente polemiche, rispetto al disegno costituzionale, se si guarda in particolare al diritto sindacale – per la vera e propria edificazione del diritto del lavoro nazionale.
A Francesco Santoro Passarelli – «giurista di razza … maître a pensèr e punto di riferimento della cultura giuridica. Non solo civilistica né solo italiana» – in ogni caso si deve il deciso ritorno del diritto del lavoro nell’alveo privatistico: in contrasto con impostazioni, come quella del costituzionalista Costantino Mortati, riconducibili al «corporativismo cristiano sociale». Questo permettendo di valorizzare «con una fermezza priva di precedenti i corpi intermedi e la loro autonomia».
Santoro Passarelli introduce però anche «elementi e motivi paradigmatici della cultura liberal-democratica in un ambiente in cui essa è sempre stata deficitaria»; rivendica la «centralità delle esigenze della persona del lavoratore senza inquinare il metodo giuridico»; ricerca ed individua «un compromesso d’alto profilo tra la realtà del conflitto e l’esigenza della stabilità».
Luigi Mengoni, altro insigne civilista, subentra nell’insegnamento a Barassi, presso l’Università cattolica di Milano. Mentre la curiosa vicenda che a ciò lo conduce, raccontata nel volume, mostra come «fino agli anni Sessanta del secolo scorso l’insegnamento universitario del diritto del lavoro non desse prestigio culturale né promettesse appetitosi redditi professionali»; inoltre come allora fosse presente la tendenza, nel diritto del lavoro, «ad imperniarsi su studiosi che in gioventù hanno esordito in questo settore disciplinare per caso».
Nell’opera di Mengoni «le regole del lavoro» assumono rilievo «come il più fertile terreno di verifica di una concezione del diritto come valore, ossia come scienza anche dei fini». Ed è in armonia con tale acquisizione che lo studioso pratica «una metodologia di ricerca ove il pensiero sistematico deve poter coesistere col pensiero problematico»: ciò imponendo «doti elevate di cultura e di equilibrio valutativo». Ferma per Mengoni resta d’altra parte la consapevolezza che «il diritto del lavoro si è staccato dal diritto civile … ma non è autosufficiente: infrastrutture e snodi gli sono pur sempre forniti» dal secondo.
In Federico Mancini convivono invece la conoscenza e professione della dogmatica civilistica, in cui il giurista «primeggiò … anche perché riusciva a padroneggiarne i mezzi espressivi come a pochissimi era riuscito prima e riuscirà dopo», assieme alla «realizzazione di obiettivi anticonformisti», innanzitutto di politica del diritto. Questi ultimi ponendosi in linea con l’esperienza de Il Mulino, casa editrice da lui «fondata a Bologna nel 1951 con un gruppo di ex compagni del liceo» così descritti da Luigi Pedrazzi (altro fondatore): «democratici e antifascisti, né comunisti né anticomunisti, cattolici ma non democristiani, laici ma non laicisti».
Tra le operazioni di politica del diritto legate al suo nome è ancora celeberrima la prolusione bolognese del 1963: con la «spietata denuncia», a proposito dell’articolo 39, della «incapacità del costituente di rinunciare agli schemi che avevano caratterizzato l’esperienza sindacale fascista se non per spogliarli del loro carattere autoritario, ossia della sua incapacità di ripensare il problema in termini radicalmente nuovi».
Mancini soggiornerà quindi a Lussemburgo, come giudice della Corte di giustizia, per quasi un ventennio: l’Italia in tal modo risultando a lungo presente «nei vertici comunitari attraverso un erede e continuatore della migliore élite intellettuale».
Se a Mancini Romagnoli risulta legato da «un sodalizio basato su un patrimonio ideale e culturale comune» (una «scuola in senso accademico», secondo «l’immaginario collettivo dell’università italiana, lestissimo … a banalizzare ed involgarire tutto») nonché dalla prolungata comune frequentazione, «per anni e anni, dalle sei e mezzo alle otto, otto e un quarto, … nello studio di Enrico Redenti, maestro di Tito Carnacini, dove si confezionava la Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», il rapporto dell’autore del volume con Gino Giugni si consoliderà invece in seguito, secondo dinamiche ed occasioni differenti. Ma non sarà, a quel che pure traspare dalla lettura dei diversi profili, meno intenso.
Giugni tuttavia è innanzitutto molto vicino a Mancini, a partire da un casuale incontro sul piroscafo Vulcania, diretto verso gli Stati Uniti, meta comune di studi, divenuto una sorta di evento mitico-fondativo del diritto del lavoro italiano: che consentirà di sviluppare «uno dei più singolari rapporti di amicizia che, per complessità e profondità, meriterebbe un discorso a sé stante a cui sono impreparato».
A lui si devono «all’inizio degli anni Sessanta, … una monografia» (Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva) «che, sul piano della cultura giuridica, segna un passaggio d’epoca»; dieci anni dopo inoltre un contributo fondamentale nella elaborazione del più importante provvedimento legislativo del diritto del lavoro nazionale: se è vero che «tutti i giornalisti lo hanno sempre chiamato … il papà … dello Statuto».
Successivamente invece i ruoli politici ed istituzionali diverranno per il giurista genovese prevalenti. Da Ministro della Repubblica Giugni, tra l’altro, sottoscrive l’accordo del 23 luglio 1993: ciò rendendo «ancora più insolubile il “dilemma” che, a parere di Gino, rappresenta il riepilogo della sua biografia: “non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto”».
In Giugni Romagnoli individua «uno dei pochi possessori … del pre-requisito costituito da una sofisticata miscela di sensibilità, cognizioni scientifiche, progettualità, pragmatismo ed insieme esprit de finesse, maturità di pensiero». Anche questo probabilmente rendendolo, accanto alla vicenda scientifica e quindi politica unica da lui vissuta, ideale bersaglio per «gli abietti protagonisti degli anni di piombo che eseguirono l’attentato programmato per ucciderlo». Fortunatamente, nel suo caso, senza raggiungere il risultato.
Giuseppe Pera d’altro canto, pur essendo stato molto vicino in gioventù a Giugni, anche quanto agli ideali politici, appare figura a lui quasi perfettamente contrapposta. Infatti Pera ha «il culto della casistica giudiziaria» ed «è allergico all’astrattezza del discorso giuridico». È il primo lettore della menzionata fortunatissima (anche se non immediatamente!) monografia di Giugni: ma gli fa «capire che era spazzatura». Quando lo Statuto dei lavoratori viene emanato, oramai risultando in nettissima ed aspra contrapposizione con «una stagione di forsennato ripudio di tutti i principi», «è il primo tra i giuristi del lavoro che fanno opinione a criticarne il testo», quale «legge pessimamente fatta in termini tecnici».
Più in generale d’altra parte «ciò che imbarazza il giurista della Lucchesia – l’incompiutezza, la provvisorietà, l’approssimazione – è esattamente ciò che fa la felicità di Gino Giugni». A partire dalla grande questione dell’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione.
Pera tuttavia, cui «piace stare sempre in minoranza», è anche «un uomo “vero, sincero, autentico”; un intellettuale che ha familiarità con la saggezza riconoscibile nell’arbitrium boni viri; un giurista d’insospettabile buona fede»: «proclive a lottare contro le prevaricazioni da qualunque parte provengano, perché deteriorano il clima di una civile convivenza». Ed alla fine, «con la lealtà che gli è abituale ammette: “in un certo senso è giusto” che Giugni abbia stravinto: “è giusto perché è il più bravo di tutti, soprattutto come protagonista, teorico e pratico, della politica del diritto del lavoro”».
Giorgio Ghezzi è un’altra figura fondamentale, nella vicenda scientifica e personale di Romagnoli. E lo è, molto più modestamente, anche per chi scrive queste righe: che ha avuto l’occasione e fortuna di esserne allievo.
Nella scuola bolognese fondata da Tito Carnacini, Federico Mancini in effetti è il primo allievo, precedendo «per ragioni anagrafiche» Giorgio Ghezzi: a sua volta seguito però proprio da Umberto Romagnoli e quindi da Luigi Montuschi. Ghezzi e Romagnoli saranno poi autori di un noto manuale, scritto e ri-scritto più volte: mantenendo, non solo per questa ragione, una reciproca stretta frequentazione, pur nella differenza dei rispettivi percorsi, per l’intera vita.
Ghezzi tuttavia, che pure condivide quasi integralmente l’iniziale «cammino» di formazione scientifica di Mancini, esprime una «Weltanschauung» distinta da quella del «fratello maggiore» (come di Giugni stesso: e forse anche di Romagnoli?): perché da sempre cattolico; quindi attentissimo alle «lotte studentesche del ‘68» come alle «lotte operaie», che «prese terribilmente sul serio»: schierandosi conseguentemente «da una parte sola», iscrivendosi al Pci e collaborando costantemente con la Cgil. Ghezzi fu inoltre autore, sempre alla fine degli anni Sessanta, di «tre scritti», a proposito dei quali Tarello parla di «modello neo-rivoluzionario»: dove la «stessa sistemazione dottrinale» di Giugni viene messa in discussione, perché accusata «di prestarsi nei fatti ad operazioni interpretative sostanzialmente conservatrici».
Ciò che comunque Romagnoli sottolinea di Ghezzi – che nei decenni successivi unirà alla permanente presenza in ambito scientifico e didattico, testimoniata proprio dalla redazione del manuale, una intensa attività politica ed istituzionale: inferiore probabilmente a quella di Giugni solo perché in gran parte svolta dai banchi parlamentari dell’opposizione – è «l’inesausta combattività», frutto della «capacità di unire utopia e disincanto». Un uomo «per cui insomma il disincanto non era altro che “una forma agguerrita della speranza”».
Gli autori che seguono, riconosciuti protagonisti del «dopo-Statuto», sono invece presenti «nella raccolta perché – spezzate dalla violenza cieca o dell’essere umano o d’una natura matrigna – le loro biografie intellettuali, se non sono ancora storia, nemmeno sono più cronaca».
A Gaetano Vardaro, «personalità intellettualmente irrequieta e culturalmente insoddisfatta che coniugava una passione non priva di acerbo candore col disincanto dello studioso maturo», Romagnoli riconosce il merito di aver introdotto «i giuristi del lavoro alla conoscenza dell’esperienza della Repubblica di Weimar». Si tratta di «un intellettuale che prediligeva la storia del diritto – del lavoro innanzitutto» – di cui non gli sfuggiva la complessità»: da lui ritenuta «un formidabile cannocchiale puntato sulle trasformazioni della società e dello Stato».
«Si commemora Vardaro», sottolinea Romagnoli, «per dire ai più giovani che uno come loro ci riuscì a progettare itinerari di ricerca che lo avrebbero fatto crescere in piena autonomia di giudizio, senza che ciò comportasse la perdita dell’umiltà necessaria per confrontarsi sui risultati via via raggiunti, sapendo in anticipo che sono relativi e provvisori».
La vasta opera di Massimo D’Antona, ucciso «con brutalità e ferocia» venti anni addietro, si sviluppa invece attorno a due «costanti»: «La prima. Massimo pensava scientificamente e mostrava con semplicità. La seconda. Massimo credeva nella forza non-violenta della parola».
Con queste caratteristiche D’Antona giunge a «rivisitare il modello antropologico che sta alla base del diritto del lavoro e del suo sistema di valori»: auspicando evoluzioni che lo rendano «a misura d’uomo nel senso di soggetto, persona, cittadino nella pienezza delle sue prerogative». In tal modo viene rivolta centrale attenzione al «bisogno dell’individuo», anche «dentro la sfera della tutela collettiva»; ci si propone altresì l’obiettivo di «ridistribuire le tutele … concentrate sul lavoro subordinato per trasferirne al “lavoro senza aggettivi” uno “zoccolo minimo”».
Anche «l’uccisione di Marco Biagi appartiene alla storia di un Paese che si trascina dietro relitti di un passato di delirante settarismo».
Studioso attratto dal diritto del lavoro perché «vi ravvisa la stessa tensione solidaristica che caratterizza il suo impegno civile; un impegno che veniva da lontano: “dalla fede cattolica e dall’inclinazione … a prodigarsi per gli svantaggiati, senza clamore e come scelta di campo», Biagi, con approccio pragmatico, è portato ad intendere «la missione del giurista in chiave propositiva». Secondo una prospettiva che vede tuttavia assumere rilievo prioritario l’esigenza «di migliorare il contesto nel quale opera l’impresa, incoraggiandone lo sviluppo al livello di competitività».
Marco Biagi si dedica quindi soprattutto agli studi di comparazione giuridica: anche perché «la comparazione è l’unica prova di laboratorio di cui disponga il giurista». Nell’obiettivo appunto di utilizzare le conoscenze in tal modo acquisite per «intervenire nell’attualità».
La scomparsa di Mario Giovanni Garofalo spegne «una delle voci più limpide, coerenti e affidabili del pluralismo culturale che ha conosciuto il suo momento fondativo … nell’Università barese, dove è cominciato il magistero di Gino Giugni del quale – quando si dice il caso – Gianni era allievo».
Ben cosciente della metamorfosi subita dal diritto del lavoro, Garofalo non fa però proprie le istanze «di un riformismo che è nuovo soltanto perché è capovolto»: piuttosto continua ad individuare nell’articolo 3, comma 2, della Costituzione «la pietra angolare sulla quale si regge» tutta la propria «elaborazione politico-culturale». Costantemente Gianni Garofalo in particolare celebra «l’apologia della coalizione spontanea degli interessi e della genuinità delle dinamiche sociali che essa è in grado di promuovere»; sostiene inoltre, in coerenza con questa impostazione, che «il singolo lavoratore deve potersi difendere “anche di fronte alla stessa organizzazione sindacale ed alla sua possibile involuzione in senso burocratico e autoritario”».
Massimo Roccella infine «è una figura paradigmatica della tradizione di militanza politico-culturale». Uno studioso «che non ha mai smesso di considerare» il diritto del lavoro «uno strumento che … gli dava l’opportunità di “spendere le sue energie per difendere i diritti dei lavoratori e, insieme ad essi, i valori di giustizia ed equità sociale in cui fermamente credeva”».
Roccella «pretendeva dall’avversario prima di tutto lealtà. Pulizia morale e onestà intellettuale. Su questo terreno la severità con se stesso legittimava la sua intransigenza verso gli altri».
Senza di lui, commenta Romagnoli, «sarà più difficile sconfiggere il buio dell’imminente black-out di una cultura giuridica del lavoro poco meno che secolare».
Seguono nel volume quindici utili e sintetiche Schede biografiche.
Va da sé che le brevi osservazioni qui proposte non possono in alcun modo essere confrontate con gli originali, per creatività della scrittura, capacità di suscitare interesse, completezza e profondità della analisi.
Certamente a causa della notevolissima distanza tra gli autori della sintesi e del testo sintetizzato.
Anche però, mi si conceda, del fatto che quest’ultimo non è in definitiva sintetizzabile.
L’opera di Umberto Romagnoli, un po' come quella di Gabriel García Márquez, per citare un Continente dove il giurista bolognese è oltremodo conosciuto e stimato, non si presta a riduzioni sintetiche.