Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Gli accordi con la Libia e la lotta ai trafficanti*

di Lucia Tria
consigliere della Corte di cassazione
Le raccapriccianti violenze e le spaventose violazioni dei diritti umani che si consumano nelle prigioni libiche per migranti non si possono più ignorare. Si tratta di fenomeni che hanno origini lontane e che sono stati favoriti dagli errori commessi dall’Ue nell’affrontare il tema dell’immigrazione. Ridefinire il Sistema comune di asilo europeo, con riguardo sia all’ingresso che al soggiorno dei migranti, sembra, ormai, scelta non più differibile anche se non è chiara la direzione delle attuali iniziative delle istituzioni Ue

1. È noto a tutti che in Libia attualmente decine di migliaia di rifugiati e migranti sono imprigionati in parte in centri di detenzione gestiti dal Dcim (Department for Combating Illegal Migration-Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale, creato nel Ministero dell’interno nel 2012 per contrastare i flussi migratori nel Paese) e in parte in luoghi di detenzione gestiti da milizie e bande criminali. In tutti i casi si tratta di persone esposte a spaventose violazioni dei diritti umani, come è stato testimoniato da molte persone che hanno descritto con dettagli raccapriccianti gli abusi subiti, che hanno portato addirittura alla vendita all’asta di esseri umani, come schiavi, secondo quanto rivelato da un’inchiesta della Cnn del novembre 2017 [1].

Sappiamo anche che alcuni prigionieri riusciti ad uscire dal ghetto di Sabha – la più spaventosa delle prigioni dei trafficanti di uomini in Libia – hanno trovato il coraggio di collaborare con la polizia e la magistratura italiana, così consentendone l’arresto [2].

È anche molto significativo che la Corte di assise di Milano, con la sentenza 10 ottobre-1 dicembre 2017, abbia condannato un cittadino somalo all’ergastolo con isolamento diurno per tre anni, oltre alle sanzioni accessorie, nonché al risarcimento dei danni nei confronti di alcune vittime costituitesi parte civile e dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, per i delitti − commessi nei “campi di raccolta” dei migranti in Libia, in due dei quali (Bani Walid e Sabrata) l’imputato, emigrato dalla Somalia, collaborando attivamente con i gestori dei campi, sottoponeva a violenze “esemplari” gli altri migranti privi della libertà, onde ottenere dalle famiglie il pagamento di un riscatto per liberarli e avviarli all’emigrazione in Europa − di sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte dei sequestrati (con assorbimento dei contestati omicidi), violenza sessuale pluriaggravata, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina pluriaggravato [3].

Tutto questo può sicuramente servire a rafforzare la condanna degli accordi che gli Stati membri dell’Unione europea, a partire dal nostro Stato, hanno stipulato − presumibilmente senza chiedere ai suddetti organismi libici garanzie per la protezione dei diritti fondamentali − al precipuo fine di aumentare la capacità di contrasto dei trafficanti e prevenire le partenze irregolari, con la Guardia costiera libica e il Dcim, di cui oggi è emersa inequivocabilmente la responsabilità per la commissione di gravi violazioni dei diritti umani.

Tali aspetti, peraltro, sono stati evidenziati anche dal Tribunale permanente dei popoli che, nella sessione dedicata ai diritti dei migranti e dei rifugiati tenutasi a Palermo dal 18 al 20 dicembre 2017, ha condannato senza mezzi termini le politiche italiane ed europee in materia di immigrazione e asilo, sulla base di un atto di accusa presentato da ben 96 associazioni e ong italiane ed incentrato sul contenuto e le conseguenze − oltre che sulle relative modalità di approvazione che li hanno sottratti al controllo parlamentare e giurisdizionale − dello Statement tra Ue e Turchia del 18 marzo 2016, del Memorandum stipulato nel 2016 dall’Italia con il Sudan di Omar al-Bashir, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, e del Memorandum del 2 febbraio 2017 firmato dal Presidente del Consiglio Gentiloni e da Serraj, presidente di un ancora precario Governo di riconciliazione nazionale in Libia.

2. Tuttavia, per la maggior parte dei cittadini europei e italiani – dopo eventuali indignazioni più che altro di maniera – ciò che conta è che il numero di arrivi in Italia è calato del 67 per cento fra luglio e novembre 2017 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e che le morti in mare sono diminuite in maniera proporzionale. Quindi l’accordo con la Libia “ha funzionato”.

Mentre solo una minoranza della popolazione europea considera che la drastica riduzione degli sbarchi provenienti dalla Libia, grazie al potenziamento della Guardia costiera locale e alla creazione di una zona operativa Sar − Search and Rescue, cioè “ricerca e salvataggio”  di tale Guardia costiera “a estensione variabile”, ha portato i trafficanti di migranti a sostituire il business dei viaggi via mare con quello della detenzione nei campi destinati al trattenimento delle persone respinte o recuperate in mare [4].

È, quindi, evidente che se realmente si vuole affrontare la questione in modo efficace si deve proprio riflettere sul suddetto “comune sentire”, perché esso è la cartina di tornasole degli errori commessi nell’affrontare il tema dell’immigrazione in Europa.

Certamente non può che essere positivo che aumentino le notizie e le denunce sulle prigioni libiche e che, oltre alle citate iniziative, anche la Procura internazionale della Corte dell’Aja stia conducendo una importante inchiesta sui crimini contro l’umanità commessi in Libia «in collaborazione con una serie di Stati, organizzazioni internazionali e regionali e altri partner nella raccolta e analisi di informazioni e prove relative a presunti crimini contro i migranti in Libia», ivi compreso l’Onu, il cui Segretario generale, Antonio Guterres, in un articolato rapporto, ha posto l’accento sulla «condotta spregiudicata e violenta della Guardia costiera libica nel corso di salvataggi e/o intercettazioni in mare», cui si aggiungono i crimini di trafficanti, milizie, autorità locali.

3. Ma sarebbe semplicistico – e forse anche liberatorio – pensare che l’unico modo per affrontare la questione sia quello di denunciare e sanzionare gli orrori, perché in tal modo si continuerebbe a percorrere la strada della ignoranza delle numerose sfaccettature e della portata storica e sociale dell’immigrazione verso l’Europa e delle sue degenerazioni.

Sappiamo che sia il fenomeno dell’immigrazione verso l’Europa attraverso le numerose rotte del mare Mediterraneo – a cominciare dalla Libia – sia quello dei trafficanti di esseri umani hanno origini molto remote e sono il portato di situazioni economiche e politiche di più ampio respiro proprie del continente africano, ma soprattutto sono il prodotto di fondamentali errori nelle politiche migratorie europee [5].

La più eclatanti manifestazioni di tali errori si sono avute già alla fine degli anni novanta quando – a causa dell’aggravarsi della crisi politico-economica interna dovuta anche all’embargo internazionale imposto nel 1992 – la Libia, fino ad allora principale destinazione delle rotte migratorie dai Paesi del Sahel e del Maghreb, nel tentativo di riabilitarsi a livello internazionale, principalmente attraverso la manifestazione di un particolare interesse per i rapporti con l’altra sponda del Mediterraneo, si è avvicinata sempre di più all’Europa.

Nello stesso periodo molti Stati europei avevano concluso una serie di accordi con i Paesi del Maghreb – che è l’area più a ovest del Nordafrica, affacciata sul mar Mediterraneo e sull’oceano Atlantico – per il controllo dei flussi migratori, che all’epoca cominciavano ad arrivare sulle coste europee. La gran parte di tali accordi invitavano gli Stati della sponda Sud del Mediterraneo a chiudere le proprie frontiere meridionali, andando quindi a incidere sulla rete di traffici informali e di collegamenti consolidatasi nei precedenti anni.

Contemporaneamente in ambito Ue si ebbe l’inasprirsi della politica di controllo delle frontiere esterne, che ha cominciato a manifestarsi da quando (nel 1999) l’acquis di Schengen è stato integrato nel quadro istituzionale e giuridico dell’Unione europea in virtù di un protocollo allegato al Trattato di Amsterdam.

Nel corso del tempo, con il progressivo allargamento dello spazio Schengen, si è così determinata una implementazione della cooperazione tra gli Stati membri ma solo sul fronte amministrativo-poliziesco, lasciando sullo sfondo la cooperazione in materia di tutela dei diritti fondamentali dei migranti.

Un’evidente dimostrazione di tale impostazione “sbilanciata” è data dalla tolleranza dimostrata, per molto tempo, dalla Ue rispetto all’adozione, da parte dei diversi Stati membri di possibile approdo dei migranti (come la Grecia, la Spagna, Malta, l’Italia), di sistemi di “allontanamento” non conformi al diritto internazionale né ai valori comuni della Unione, sanciti dall’art. 2 del TUE e sui quali si basa la stessa Unione, rappresentati dal rispetto, parte degli Stati membri dell’Ue, «della dignità umana e dei diritti umani, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto» [6].

Tra queste pratiche rientrano quella delle “riammissioni” dai porti italiani del mare Adriatico verso la Grecia (effettuate sulla base di un accordo bilaterale Italia-Grecia stipulato il 30 aprile 1999) nonché la prassi dei respingimenti collettivi in mare verso la Libia seguita dall’Italia, a partire dal 6 maggio 2009, quando è entrato in vigore il Trattato di amicizia concluso con la Libia.

Tale ultima prassi è stata abbandonata solo per effetto della famosa sentenza della Corte di Strasburgo del 23 febbraio 2012 resa dalla Grande camera, sul caso Hirsi e altri c. Italia, relativo all’intercettazione, avvenuta nel maggio 2009, da parte di navi militari italiane in acque maltesi di barconi partiti dalla Libia e occupati da migranti provenienti dalla Somalia e dalla Eritrea, seguita dai respingimenti in mare verso la Libia. La Grande camera ha condannato il nostro Paese facendo riferimento sia all’art. 3 della Cedu (che vieta la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti), sia − all’epoca, per la seconda volta (dopo la sentenza del 5 febbraio 2002, nel caso Čonka e altri c. Belgio) − all’art. 4 del Protocollo n. 4 che sancisce il divieto delle espulsioni collettive di stranieri.

A questa sentenza hanno fatto seguito altre analoghe condanne del nostro Paese da parte della Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 3 della Cedu (sul divieto di trattamenti inumani e degradanti) ed anche (a volte) dell’art. 4 del Protocollo n. 4 con le sentenze del 24 giugno 2014 sul caso Alberti c. Italia e dell’1 luglio 2014 sul caso Saba c. Italia; 21 ottobre 2014 sul caso Sharifi e altri c. Italia e Grecia; 15 dicembre 2016 della Grande camera, sul caso Khlaifia e altri c. Italia.

Va sottolineata la tolleranza dimostrata dalle istituzioni Ue rispetto alle anzidette prassi violative dei diritti fondamentali dei migranti − non solo italiane − che è la stessa che si è riscontrata rispetto alle prassi adottate da alcuni Stati membri Ue (in particolare: Malta, Portogallo, Spagna, Cipro, Bulgaria), sull’esempio del Regno Unito – che per primo ha adottato misure di facilitazione per naturalizzare stranieri facoltosi – consistenti nell’offrire un trattamento preferenziale a cittadini extracomunitari benestanti, onde indurli a “parcheggiare” nel proprio territorio le loro ricchezze, creando così un sistema di inclusione golden visa, la cui espansione sta procedendo speditamente e comporta che mentre i normali “migranti”, se considerati “economici”, vengono respinti, per i golden migrants si costruiscono “ponti d’oro”, pur essendo la loro immigrazione evidentemente di tipo economico e spesso i loro capitali di provenienza non lecita, come sembra sia accaduto nel caso che si è concluso con l’omicidio della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia.

4. Per quel che concerne la Libia, l’effetto perverso dei menzionati accordi conclusi dagli Stati europei con alcuni Paesi dell’Africa settentrionale (nell’ottica della strategia di esternalizzazione delle frontiere) è stata l’affermazione del moderno trafficante di esseri umani. Tale figura rappresenta una “evoluzione” di quello che tradizionalmente veniva chiamato il “passatore” – figura nata all’inizio dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi libici, che rese molto redditizio il trasporto di migranti soprattutto da Egitto e Tunisia verso la Libia – il quale pur svolgendo un lavoro formalmente illegale comunque era una figura non considerata di per sé come negativa in quanto, agli esordi, si limitava a scortare, dietro compenso, gruppi di migranti da un Paese all’altro.

Con la militarizzazione delle frontiere i gruppi degli ex “passatori” sono stati portati ad armarsi, le rotte sono diventate via via più rischiose e con il progressivo irrigidimento delle leggi in materia di immigrazione, soprattutto in Libia, in un primo momento molti passatori sono stati arrestati e poi, via via, soppiantati da gruppi più organizzati, spesso composti da cittadini libici o tunisini.

L’attività di queste persone è stata facilitata dai tentativi di chiusura delle frontiere e così sono stati favoriti soprattutto coloro che potevano vantare legami con le organizzazioni criminali transnazionali, come la mafia sudanese e quella nigeriana, il cui coinvolgimento ha comportato che il trasporto di migranti sia venuto sempre più spesso ad accompagnarsi ad altre attività parallele e altrettanto redditizie, come il traffico di armi e di droga o la tratta femminile con lo scopo di sfruttamento della prostituzione.

Anche il giro di vite organizzato dal regime di Gheddafi nel biennio 2008-2009, sotto la spinta degli accordi con l’Italia e l’Unione europea, non ha fatto altro che accentuare questo percorso di trasformazione, il quale gradualmente ma progressivamente ha portato il governo delle vie delle migrazioni nelle mani dei soggetti più forniti di denaro, armi e peso politico.

Con la guerra civile libica del 2011 e le sue conseguenze in tutta la vasta zona sahelo-sahariana la situazione è peggiorata ulteriormente, tanto più che, nella prima fase del conflitto contro le forze anti-regime, Gheddafi aveva liberato dalle prigioni libiche gran parte dei trafficanti arrestati negli anni precedenti, vanificando gli anni di repressione e fornendo ulteriori armi a quelli disposti a servire come mercenari fra i lealisti.

L’incapacità dei governi succedutisi dopo la caduta di Gheddafi, la successiva frammentazione del Paese – protrattasi fino ai nostri giorni, con la coesistenza del governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu e tenuto dal presidente Fayez al-Sarraj e del dominio del generale Khalifa Haftar in Cirenaica [7] – la distruzione dell’industria petrolifera libica e l’interruzione dei trasferimenti in denaro dalla Libia ai Paesi più a Sud hanno poi permesso al sistema di traffici di ripartire indisturbato e prendere sempre più campo, rendendo l’economia dei traffici la più importante (se non l’unica) fonte di reddito in un ampio spazio di territorio.

5. Intanto i contraccolpi della crisi economico-politica libica si sono fatti pesantemente sentire nei Paesi la cui economia era maggiormente legata a quella libica, come il Niger e il Mali, i cui bilanci statali dipendevano in larga misura dalle rimesse degli emigrati, sicché l’espulsione o la fuga dalla Libia di molti migranti verso il territorio di questi Paesi ha causato in tutto il Sahel – la vasta area africana, posta immediatamente a Sud del Sahara che attraversa l’Africa dall’Atlantico al mar Rosso – una serie di pericolose reazioni a catena.

Fra queste, il protrarsi dei conflitti e della violenza legata al gruppo armato di Boko Haram, che dal Nord-est della Nigeria si è estesa in zone dei Paesi situati nei pressi del lago Ciad – in particolare, nel Nord del Camerun, nel Ciad occidentale e nel Sud-est del Niger – con effetti devastanti sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza, che si sono tradotti in ripetute terribili carestie, le quali a loro volta fanno incrementare sia le migrazioni sia il reclutamento dei giovani disoccupati da parte dei gruppi terroristici.

Non a caso il 16 febbraio 2014 è stato costituito a Nouakchott, in Mauritania, il G5 Sahel o G5S, tra cinque Paesi della zona: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger, al fine di rafforzare i reciproci legami tra sviluppo economico e sicurezza e combattere insieme la minaccia delle organizzazioni jihadiste che operano nella regione (Aqim, Mujwa, Al-Mourabitoun, Boko Haram).

E nel giugno 2017, su iniziativa della Francia, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, in appoggio al G5S, ha approvato all'unanimità lo schieramento di una task force contro il terrorismo del Sahel.

Mentre poco prima la Turchia ha donato 5 milioni di dollari alla Forza congiunta anti-terrorismo del G5 nel Sahel (FC-G5S), ufficialmente per solidarietà ai Paesi della zona che sono in costante pericolo, ma per molti con il reale obiettivo di non perdere future opportunità commerciali, soprattutto sul versante minerario.

6. Dal 2015, con il cosiddetto Processo di Khartoum, che era finalizzato a fermare i flussi migratori a Sud della Libia, l’Europa ha cercato di coinvolgere sempre di più il Niger in una possibile operazione anti-trafficanti, nel tentativo di chiudere la rotta nigerina di Agadez [8], una delle principali arterie migratorie dall’Africa equatoriale.

Ma ciò è stato fatto senza dare il dovuto peso alla condizione socio-politica del Niger [9] che è un Paese privo di reali fonti di reddito, per la cui economia i proventi dei traffici restano fra le poche fonti di guadagno stabile, specialmente dopo la scomparsa del mercato libico, da sempre sbocco privilegiato per i lavoratori nigerini.

Da tale ultima osservazione si desume che la “guerra ai trafficanti di esseri umani” vada portata avanti con determinazione, ma anche con la consapevolezza che per alcuni Paesi africani del Sahel persiste un’attività dei trafficanti non direttamente collegata con la criminalità organizzata, che ha un importante peso per le economie nazionali, in quanto l’eliminazione anche fisica di Gheddafi e del suo regime ha contribuito a destabilizzare ulteriormente l’area, nella quale le armi, i mercenari, i tuareg, i trafficanti di droga e di persone hanno trovato uno spazio propizio per accomodare i loro interessi.

D’altra parte, ai fini della suddetta “guerra”, va tenuto anche presente che il migrante proveniente da un Paese dell’Africa subshariana si affida ai trafficanti volontariamente perché questo è il solo modo che ha di arrivare all’altra sponda del Sahara e quindi non sempre può essere considerato come una semplice “pedina” in mano ai suoi traghettatori.

7. Inoltre, per quanto riguarda il ruolo attribuito in materia di immigrazione al Niger da parte della diplomazia occidentale, va considerato che questo Stato, pur essendo il quinto produttore di uranio al mondo con una popolazione di venti milioni di persone, rientra tra i dieci Paesi più poveri del pianeta, visto che non sono i nigerini a sfruttare l’uranio ma i Paesi occidentali, a partire dai francesi, anche se dal 2007 il governo locale ha iniziato un processo di diversificazione di attori del settore, concedendo circa 122 licenze estrattive a società cinesi, americane, sudafricane, canadesi e australiane.

E non è un caso che il governo di Parigi abbia in Niger un contingente militare con un ruolo di primo piano, insieme con Stati Uniti e Germania, mentre di recente anche l’Italia, dopo aver aperto ufficialmente la prima ambasciata in Niger a dicembre 2016, ha inviato cinquecento soldati, per una missione che l'allora Ministro della difesa Roberta Pinotti ha definito «strategica», in quanto collegata all’accordo tra Italia, Germania, Francia, Spagna, Niger, Ciad e Libia in cui aiuti economici per la collaborazione nel controllo dei flussi e la costruzione di centri di accoglienza per i migranti di transito sono stati offerti in cambio di un maggior impegno nella lotta al traffico di migranti da parte dei governi locali.

In base all’accordo di collaborazione militare sottoscritto a settembre 2017 dal nostro Ministro della difesa i soldati italiani in Niger hanno anche il ruolo di contribuire a rafforzare la difficile lotta contro il jihadismo islamista, che nelle aree di frontiera tra Niger, Libia e Algeria (a Ovest) e Niger, Libia e Ciad (a Est) ha assorbito i reduci delle lunghe battaglie algerine e ha sfruttato la frammentazione della Libia per rafforzarsi e diventare sempre più insidioso.

Comunque, l’approvazione da parte dell’Italia della suddetta missione in Niger è stata definita «strategica» soprattutto perché ha il chiaro duplice obiettivo del controllo dei flussi migratori e della complessa stabilizzazione della Libia.

Quindi, si tratta di una decisione che si collega al Memorandum d’intesa sottoscritto tra Italia e Libia il 2 febbraio 2017, il quale ha avuto il sostegno dei membri del Consiglio Ue con la Dichiarazione di Malta sull'immigrazione del 3 febbraio 2017 sulla cui base la Ue ha destinato, per i prossimi anni, trentuno miliardi di euro per fondi allo sviluppo africano, con priorità ai progetti di migrazione relativi alla Libia.

Queste recenti iniziative diplomatiche dell’Unione europea e dei singoli Stati membri pertanto si prefiggono di realizzare il suddetto duplice obiettivo lavorando con le autorità libiche e con i vicini Paesi del Sahel, per spingerli a contrastare con più efficienza il traffico di migranti.

Ma per molti osservatori con esse – al pari di quanto accaduto per analoghe iniziative degli anni passati – l’Europa continua a mostrarsi disposta a trascurare i crimini e le violazioni dei diritti umani compiute direttamente o indirettamente dagli esponenti politici locali, spesso corrotti e interessati a lucrare sugli aiuti europei.

Non va, del resto, dimenticato che in alcuni Paesi – come il Niger – gli aiuti allo sviluppo hanno creato una situazione di rendita e di dipendenza dello Stato che, anziché contribuire alla soluzione delle profonde criticità locali, ne è stata una concausa. E lo stesso rischia di accadere per i recenti aiuti della Ue legati al contrasto del traffico di migranti.

Infatti, essendo il traffico di esseri umani un fenomeno che per una parte rilevante della popolazione sahelo-sahariana rappresenta l’unica alternativa economica per avere un reddito, se non si interviene sulle ragioni che determinano la domanda di migrazione − che sono prevalentemente legate a situazioni di povertà − finché ci sarà domanda il traffico (sia pure illecito) continuerà ad andare avanti, magari spostandosi su altre rotte più pericolose o armandosi ancora di più per bilanciare gli effetti della repressione [10].

Mentre le denunce dei crimini e la loro repressione, doverose e importanti, non potranno da sole eliminare il fenomeno che nasce da ragioni economico-sociali, che andrebbero affrontate dagli Stati europei con un impegno certamente non solo finanziario e militare.

8. Finora si è principalmente percorsa tale strada, che deriva dalla miope impostazione della politica migratoria della Ue e del Ceas (Sistema Europeo Comune di Asilo-Common European Asylum System) – mai divenuto davvero comune – dando preminenza schiacciante alle ragioni di tipo securitario e repressivo, mentre secondo gli accordi ci si era impegnati a caratterizzare la disciplina della condizione dei migranti tenendo conto della coesistenza di ragioni di ordine pubblico e controllo delle frontiere, con ragioni di tutela di diritti fondamentali, che vanno tra loro bilanciate e considerate in modo non separato, visto che le politiche riguardanti il primo aspetto hanno inevitabili ripercussioni su quelle che concernono il secondo, come più volte ha affermato la nostra Corte costituzionale (vds., per tutte la sentenza n. 148 del 2008).

In questi lunghi anni non siamo stati capaci di “governare”, comprendere e spiegare ai cittadini europei un fenomeno che fa parte della storia dell’uomo e che, per quanto riguarda le migrazioni dall’Africa verso l’Europa, certamente non solo non può considerarsi “emergenziale” ma ha cause che in parte risalgono al comportamento degli stessi Paesi europei.

E anche dopo le tragedie in mare di cui, via via nel corso degli anni, si è avuta notizia − e alle quali oggi la maggioranza dei cittadini europei si è quasi assuefatta, purtroppo − si è preferito non mutare la linea poliziesca ormai “tradizionale”, tanto che anche ora si persevera nel parlare di protezione delle “frontiere”, anziché degli “uomini”.

9. Così, in una sconfortante indifferenza, non ci è neppure accorti che tutto questo ha alimentato pericolosi sentimenti xenofobi, razzisti e antieuropeisti, sulla scia della logica della “paura dell’altro” e che da questi sentimenti prendono forza partiti politici che li veicolano, la cui presenza imponente rischia di far crollare tutto il “progetto europeo”, così faticosamente creato.

Se ne vedono alcune conseguenze nella spaccatura che spesso si verifica a livello decisionale – sui più vari argomenti − tra Stati del Nord Europa e Stati del Sud dell’Europa, spaccatura che fino a pochi anni fa era molto meno marcata.

Ma quel che più preoccupa è l’atteggiamento di chiusura dei Paesi del gruppo di Visegrád [11], emerso in modo evidente nella vicenda conclusasi con la sentenza della Corte di giustizia Ue (Grande sezione, 6 settembre 2017 cause riunite C-643/15 e C-647/15), che trova riscontro nella situazione politica dell’Ungheria di Viktor Orbán e nella marcia della  “Polonia pura, Polonia bianca”, svoltasi a novembre 2017 nonché nelle scelte del governo polacco [12].

10. Questa complessa situazione ha alimentato nelle opinioni pubbliche sentimenti in prevalenza solo negativi nei confronti dei migranti, il che ha reso i governi incapaci non solo di fare scelte coraggiose  magari poco gradite ai loro elettori  ma anche di tenere conto delle posizioni della stessa Commissione Ue, la quale, in più occasioni, ha evidenziato che un eventuale aumento del numero di migranti se nel breve periodo può comportare difficoltà, politiche ed economiche, per la relativa accoglienza, comunque nel medio-lungo periodo è da considerare come un elemento idoneo a influire in maniera positiva sulla situazione finanziaria dei Paesi ospitanti.

Anche il Fondo monetario internazionale sostiene da tempo che le migrazioni attuali possono avere effetti positivi per le economie europee, contribuendo al tasso di crescita del Pil, a condizione che i governi siano in grado di garantire ai migranti un processo di assimilazione nell’economia nazionale rapido ed efficiente ed una flessibilità alta all’interno del mercato del lavoro.

Del resto, è noto a tutti l’invecchiamento della società che si registra in Europa insieme ad una diffusa denatalità, elementi che sono alla base della recente Risoluzione del Parlamento Ue del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale (cd. “lavoro agile”).

Purtroppo però che, alle condizioni indicate dal Fmi, il contributo dei migranti abbia effetti positivi non viene sufficientemente spiegato e comunque sembra non interessare a nessuno, in quanto la politica dell’emigrazione è gestita dagli europei emotivamente e non razionalmente e i rappresentanti dei cittadini, invece di far ragionare gli elettorati ne seguono gli umori.

Tutto questo, oltre ad aver determinato, nei fatti, un isolamento del nostro Paese nella materia – che non solo è in patente contrasto con la solidarietà reciproca che gli Stati Ue si sono impegnati a darsi, ma ha anche avuto pesanti ricadute interne  dimostra che il nostro continente, da sempre considerato un “faro di civiltà giuridica”, si sta imbarbarendo e non riesce a riflettere sulla necessità di fare tesoro delle esperienze del passato onde evitare di perseverare su strade sbagliate, né riesce a fare scelte politiche di ampio respiro, nel campo dell’immigrazione, così come per il lavoro e per il disagio sociale in genere, come ha denunciato anche la Commissione Ue nel fare (nel 2014) il bilancio di medio termine della riuscita della Strategia Europa 2020, varata dalla Commissione stessa nel marzo del 2010 «come strategia integrata a lungo termine dell’Ue per rilanciare la crescita e l’occupazione e aiutare l’Europa ad uscire dalla crisi».

11. Ora che la terribile situazione dei migranti nelle prigioni libiche non si può più ignorare, così come non si possono ignorare le cause che spingono le persone a migrare, si spera che si riesca finalmente ad ottenere un deciso “cambiamento di rotta” nella politica migratoria della Ue che tenga conto del fatto che l’aumento delle diseguaglianze e delle povertà mette a rischio la democrazia inclusiva e partecipativa, sulla quale è fondata la stessa Unione europea, nella quale fino a poco tempo fa prevaleva decisamente uno spirito di “accoglienza” per tutti, anche in memoria di ciò che si era verificato nei campi di sterminio nazi-fascisti.

Come suggerito dalle organizzazioni del settore tale cambiamento di rotta, oltre ad accompagnarsi a missioni di tipo umanitario in loco (come quelle di Unhcr e del Cir) dovrebbe, in primo luogo, portare alla creazione di adeguati canali sicuri e legali per entrare in Europa (sia per rifugiati che per lavoratori migranti) perché solo così le traversate irregolari non saranno più considerate come l’unica opzione e quindi, in ultima analisi, anche come una scelta razionale da parte di persone perseguitate e/o desiderose di migliorare il proprio destino.

Da recenti stime i migranti “bloccati” in Libia sarebbero circa 300.000 e vanno aiutati tutti a salvare la vita e a tutelare la dignità, senza che abbia rilievo la “convenzionale” distinzione tra migranti cd. “forzati” (che cercano protezione internazionale o, nel nostro Paese, umanitaria) e migranti economici.

12. Per la fase successiva non possiamo però non porci il problema del futuro che offriamo ai migranti e in proposito dobbiamo fare i conti non solo con una migliore politica di aiuto allo sviluppo nei Paesi di origine e di transito, ma anche con un’equa distribuzione delle persone tra gli Stati membri Ue.

Da tempo è in corso, nelle istituzioni Ue, il dibattito sulla riforma di Dublino III, che vede una divisione tra gli Stati che, per il principio di solidarietà chiedono la ripartizione dei migranti fra tutti i Paesi secondo un sistema di quote e i fautori della linea dura, che invece puntano sull’esternalizzazione delle frontiere e un coinvolgimento soltanto finanziario dei Paesi.

Per i primi la cosa principale da modificare nel sistema Dublino è la sua regola cardine, che attribuisce l’esame delle domande di asilo nonché l’accoglienza del richiedente allo Stato di primo ingresso nella Ue, così determinando un carico di lavoro eccessivo per i Paesi di confine, come l’Italia.

A novembre 2017 il Parlamento Ue – in applicazione dell’art. 80 del Trattato sul funzionamento della Ue, che in materia di migrazione impone il «principio di solidarietà ed equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri», anche (e non solo) sul piano finanziario – ha approvato un testo nel quale è stato proposto di abbandonare la suddetta regola e si è prevista la suddivisione fra tutti i Paesi membri, in base a un sistema permanente di quote, dei migranti solo se richiedenti asilo.

Ora il testo è all’esame del Consiglio Ue e intanto è partita la prima iniziativa legislativa dei cittadini europei in materia di immigrazione, ispirata al recupero dei valori di accoglienza e solidarietà che sembrano in via di estinzione.

L’iniziativa ha un triplice contenuto:

1) introdurre un finanziamento ad hoc e direttamente accessibile ai privati per le sponsorhip private per l’ingresso di richiedenti asilo (sul modello canadese e dei nostri corridoi umanitari);

2) modifica della direttiva 2002/90 affinché sia previsto come reato negli Stati membri solo il favoreggiamento dell’ingresso irregolare realizzato a scopo di profitto;

3) agevolare l’accesso alla giustizia delle persone non regolarmente soggiornanti e disciplinare l’ingresso dei lavoratori non altamente qualificati.

13. Seppure dovesse prevalere la visione degli Stati che si ispirano al principio di solidarietà, comunque difficilmente verranno affrontati i limiti propri nella protezione internazionale (da esaminare eventualmente in sede Onu) e le diversità e le inefficienze della maggior parte dei sistemi di integrazione dei Paesi Ue.

Quanto alla protezione internazionale, è noto che per il riconoscimento del diritto di asilo, dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria si fa riferimento alla situazione dell’interessato nel suo Paese di origine e deve trattarsi delle specifiche situazioni indicate nella Convenzione di Ginevra del 1951 e negli atti successivi.

Fra tali situazioni non sono compresi i disastri ambientali e le carestie e, d’altra parte, se un migrante si muove da un Paese nel quale non versa nelle condizioni previste dalla Convenzione e lo fa per povertà o disagio sociale, anche se lungo la strada o al passaggio dalla Libia subisce delle violenze, non può di per sé avvalersi della protezione internazionale.

Queste persone – rispettivamente definite come «profughi o migranti ambientali» e «migranti economici» – all’arrivo in Europa, salve condizioni specifiche rilevanti, possono sperare soltanto di ottenere un titolo di «protezione complementare», quale nel nostro Paese la protezione umanitaria, che è una forma di protezione che si aggiunge a quella internazionale ma ha carattere nazionale ed esiste in diversi Paesi europei, sulla base delle direttive Ue che ne consentono la previsione.

Si tratta di una forma di protezione il cui riconoscimento spesso dipende da scelte di carattere discrezionale dei giudici o delle amministrazioni nazionali e che può comportare l’attribuzione di standard di diritti sociali più bassi di quelli propri delle qualifiche della protezione internazionale. In ambito Ue è comunque riconosciuto un «nucleo minimo europeo di protezione» e, nel nostro ordinamento, attualmente ai titolari del permesso di soggiorno umanitario sono riconosciuti gli stessi diritti attribuiti ai beneficiari di protezione sussidiaria (art. 34, comma 5, d.lgs n. 251 del 2007). Del resto, non va dimenticato che in Italia la protezione umanitaria è stata prevista molto tempo prima del recepimento delle direttive comunitarie in materia di qualifiche, sulla base dell’art. 10, terzo comma, Cost., che riconosce il diritto di asilo cd. “costituzionale”.

In base al consolidato orientamento della Corte di cassazione  affermatosi a partire da Cass., 26 giugno 2012, n. 10686  si è esclusa la sopravvivenza di margini residuali di diretta applicazione della suddetta norma costituzionale sul presupposto che il diritto di asilo si deve considerare interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario. È, pertanto, evidente che se, in ipotesi, tale assetto normativo venisse modificato in senso restrittivo – ad esempio con riguardo alla protezione umanitaria – si riespanderebbe l’ambito di diretta applicabilità della indicata disposizione costituzionale.

14. Comunque, l’attribuzione di un valido titolo di protezione non è sufficiente ma implica una riflessione sul nostro sistema di integrazione e quindi anche sui sistemi di integrazione degli altri Stati europei.

Non possiamo, infatti, immaginare di “liberare” – in ipotesi – queste 300.000 persone, limitandoci a farle entrare nel nostro e negli altri Paesi Ue, pensando che la legalizzazione del loro soggiorno con il riconoscimento di un titolo per la protezione internazionale o almeno con la protezione umanitaria sia sufficiente, senza quindi porci il problema di offrire agli immigrati condizioni di vita dignitosa, a partire dal lavoro e da un alloggio.

Certo con tale ipotetica “liberazione” potremo dire di avere salvato, nell’immediato, delle vite umane, ma poi se gli interessati finiscono con il vivere, come schiavi (nuovi schiavi, molto numerosi nel nostro Paese ma anche in Europa, come risulta da plurime rilevazioni), di prostituzione ovvero alle dipendenze dei caporali (fenomeni presenti in tutta Italia, da Nord a Sud), non potremo sicuramente dire di avere integrato queste persone nelle nostre società.



[*] L'immagine di copertina è un fotogramma tratto da L'ordine delle cose, un film di Andrea Segre (2017)

[1] Le aste per la vendita degli schiavi in Libia, in Ilpost.it, 14 novembre 2017, https://www.ilpost.it/2017/11/14/mercati-schiavi-migranti-libia/.

[2] Libia: un oscuro intreccio di collusione. abusi su rifugiati e migranti diretti in Europa, Amnesty International, 2017.

[3] Per un approfondimento al riguardo, vedi: Campi libici, l’inferno nel deserto. La sentenza della Corte di assise di Milano, in questa Rivista on-line, 3 aprile 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/campi-libici-l-inferno-nel-deserto-la-sentenza-della-corte-di-assise-di-milano_03-04-2018.php.

[4] Come è stato sottolineato dal Tribunale permanente dei popoli nella occasione citata nel testo. Sul punto vedi: M. Ventrone, Il Tribunale permanente dei popoli condanna l’Italia e l’Unione europea per concorso in crimini contro l’umanità a causa delle politiche sull’immigrazione, in questa Rivista on-line, 11 aprile 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/il-tribunale-permanente-dei-popoli-condanna-l-ital_11-04-2018.php.

[5] Per questa parte si rinvia all’interessante approfondimento di F. Rossi, Libia: chi sono i trafficanti di esseri umani? in Pandorarivista.it, 19 gennaio 2018, https://www.pandorarivista.it/articoli/libia-i-trafficanti-di-esseri-umani/. Vds. anche: L. Tria, Il viaggio, in Europeanrights.eu, 4 luglio 2014, http://www.europeanrights.eu/public/commenti/LUCIA_TRIA_IL_VIAGGIO_EUROPEANRIGHTS-1.pdf.

[6] L. Tria, Stranieri extracomunitari e apolidi – La tutela dei diritti civili e politici, Giuffrè editore, Milano, 2013.

[7] Per molti osservatori tale situazione di stallo fra i due Governi dovrebbe concludersi con l’uscita di scena – per motivi di salute se non addirittura per morte – di Haftar. Ma non è chiaro se l’evoluzione sarà positiva o negativa, cioè se porterà ad una ricomposizione politica del Paese o sene aumenterà il caos interno.

[8] D. Quirico, Ad Agadez con un trafficante di migranti: “Vendevo uomini e destini per fare soldi”, lastampa.it, 7 ottobre 2017, http://www.lastampa.it/2017/10/07/esteri/ad-agadez-con-un-trafficante-di-migranti-vendevo-uomini-e-destini-per-fare-soldi-Q8sAgTLKkzNJl1j9M1y9gM/pagina.html

[9] M. Armanino, Il Niger come spazio di transito e di futuro, in Riflessioni.it, agosto 2014, https://www.riflessioni.it/esperienze/niger-transito-futuro.htm.

[10] Vedi: F. Rossi, cit.

[11] Il Gruppo di Visegrád si è costituito a seguito di un vertice dei capi di Stato e di Governo di Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia tenutosi nella città ungherese di Visegrád il 15 febbraio 1991, al fine di stabilire e rafforzare la cooperazione fra questi tre Stati (divenuti quattro il 1 gennaio del 1993 con la divisione consensuale della Cecoslovacchia) per promuoverne l’integrazione unitaria, come gruppo, nell’Unione europea. Nel corso del tempo si è passati a rapporti diretti tra i singoli Stati candidati e la Ue. Quindi, tutti i membri del Gruppo di Visegrád sono entrati nell’Unione europea il 1 maggio 2004, e l’unico Paese tra questi ad aver adottato l’euro è la Slovacchia dal 2009. La cooperazione e l’alleanza fra i quattro Stati è comunque proseguita nei campi della cultura, dell’educazione, della scienza, nonché in quello dell’economia.

[12] L. Tria, Una brezza di solidarietà soffia sull’Unione europea. Brevi osservazioni a proposito della sentenza della Corte di Giustizia UE (Grande Sezione) 6 settembre 2017 cause riunite C 643/15 e C 647/15, in Lavoro Diritti Europa fascicolo n. 1/2017, https://www.lavorodirittieuropa.it/images/articoli/pdf/tria_impaginato_1.pdf.

11/06/2018
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