1. I reati di genere come categoria unitaria ed il bene giuridico tutelato dell’autodeterminazione di genere nelle relazioni di prossimità
Nel volume in commento di Fabrizio Filice, i reati di genere sono inquadrati sistematicamente come una vera e propria parte speciale, con un bene giuridico loro proprio, da individuarsi nel diritto di autodeterminarsi rispetto al proprio genere, senza subire costrizioni né a livello sociale né nella sfera delle relazioni private. Tale diritto si traduce, a livello sostanziale e processuale, in quello di ricevere adeguata protezione dalla violenza che colpisce la persona negli aspetti relativi al suo genere.
L’autore tratteggia la nozione di “genere” attingendo ai gender studies di origine anglosassone [1], corrente di pensiero socio-giuridico, diffusasi già negli anni ’80-‘90, nel cui ambito sociologhe e giuriste hanno dato avvio ad una nuova cultura per portare all’interno del ragionamento giuridico e della prassi giudiziaria le tematiche legate appunto al genere; si tratta di un concetto articolato che comprende tre diversi aspetti: l’identità di genere, il ruolo di genere e l’orientamento sessuale.
L’identità di genere viene definita come il modo in cui una persona percepisce ed esprime la propria appartenenza ad un genere, cioè il modo in cui percepisce sé stesso in quanto “maschio” o “femmina”. Il “ruolo di genere” si riferisce, invece, ai comportamenti, alle attitudini ed ai tratti della personalità che una società, in una determinata cultura e momento storico, definisce come “maschili” o “femminili”. L’orientamento sessuale, infine, è definito quale risposta di una persona ad uno stimolo affettivo o sessuale.
Il concetto di violenza di genere è entrato nel nostro sistema giuridico non solo sotto la spinta delle aperture dell’ambiente accademico nazionale alla prospettiva giuridica tracciata da questi studi di genere ma anche grazie all’impulso dato dalle fonti sovranazionali del diritto euro-unitario, che ha pienamente recepito la definizione di “genere”; il riferimento è alla Convenzione di Lanzarote del Consiglio d’Europa del 25 ottobre 2007, ratificata con legge n. 172/2012 ed alla Direttiva n. 2012/29/UE, cui è stata data attuazione con il d.lgs 15 dicembre 2015 n. 212, strumenti i quali consentono di ritenere ormai acquisite, se non altro in via interpretativa, le nozioni di “genere” e di “violenza di genere”, che hanno trovato poi un autorevole riconoscimento nella sentenza della Corte di cassazione n. 10959 del 29 gennaio 2016 (cd. sentenza Fossati).
La violenza di genere intesa, quindi, come violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, è, non solo socialmente accettata, ma anche istituzionalizzata come forma di estrinsecazione del dominio del genere maschile dominante; la coazione di genere nei confronti delle donne assume storicamente dei livelli particolarmente intensi in quanto al sesso femminile è affidato un ruolo caratterizzato da forti elementi di subalternità sociale ed economica nei confronti del sesso maschile.
Filice mette bene in luce gli aspetti caratterizzanti di questo tipo di violenza: si tratta di violenza cd. di prossimità, che si estrinseca prevalentemente nelle relazioni intime, e che trova nella violenza psicologica una delle modalità di attuazione più diffuse.
L’intimità nell’ambito della coppia e della famiglia pone due persone in una posizione di stretta vicinanza − di prossimità appunto − fisica e psicologica nella quale può verificarsi il passaggio ad una situazione di violenza. L’autore delinea efficacemente le tappe di questo passaggio, come desunte dall’analisi di casi giudiziari: dal primo atto di violenza, che lascia la vittima in una situazione di confusione e di difficoltà di comprendere cosa è successo, si passa alla fase di “luna di miele” che segue alla condotta resipiscente dell’autore; al secondo gesto di violenza, normalmente di intensità maggiore rispetto al primo, segue una nuova “luna di miele” e così via, secondo lo stesso schema, fino a che le fasi di luna di miele si riducono fino a scomparire, a seguito del consolidarsi della situazione di violenza che diventa “oppressione situazionale” senza soluzione di continuità. Si innesca, quindi, una situazione di violenza psicologica in cui l’autore convince gradualmente la vittima di essere lei stessa la causa della violenza e mette la vittima “alla prova”, sfidandola a migliorarsi fino al punto di non necessitare più la reazione violenta; e la vittima accetta la sfida e si mette alla prova per aderire alle aspettative del suo partner che, però, restano sempre deluse perché, a quel punto, la violenza è diventata una necessità della relazione stessa e ne diviene un imprescindibile punto portante.
Così delineata la nozione di violenza di genere, l’autore individua la categoria unitaria dei reati di genere che costituiscono ormai una vera e propria parte speciale, caratterizzata da una coerenza e sistematicità della produzione normativa che li riguarda. La base normativa di tale categoria unitaria è individuata in almeno tre riferimenti normativi: gli articoli 351 comma 1-ter e 392 comma 1-bis cpp (come riformati dal d.lgs n. 212 del 2015 di attuazione della direttiva 2012/29/UE) e l’art. 132-bis d.att. (come modificato dal dl n. 93 del 2013 convertito in legge 119 del 2013). Le fattispecie che sono fatte rientrare in questa parte speciale sono:
a) i delitti contro la personalità individuale di cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro II del codice penale: riduzione o mantenimento in schiavitù (articolo 600), prostituzione minorile (articolo 600-bis); pornografia minorile (articolo 600-ter); detenzione di materiale pedopornografico (articolo 600-quater); pornografia virtuale (articolo 600-quater.1); iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (articolo 600-quinquies); tratta di persone (articolo 601), acquisto e alienazione di schiavi (articolo 602);
b) i delitti di violenza sessuale di cui alla sezione II del capo III del titolo XII del libro II del codice penale: violenza sessuale (articolo 609-bis) con le relative aggravanti speciali (articolo 609-ter); atti sessuali con minorenne (articolo 609-quater); corruzione di minorenne (articolo 609-quinquies); violenza sessuale di gruppo (articolo 609-octies); con le relative disposizioni in materia di ignoranza dell’età della persona offesa (articolo 609-sexies) e querela di parte (articolo 609-septies), adescamento di minorenni (articolo 609-undecies);
c) i delitti relazionali di maltrattamenti (articolo 572) e atti persecutori (articolo 612-bis); d) i delitti di sfruttamento della prostituzione di cui alla legge n. 75 del 1958 (legge Merlin).
2. Le modifiche normative in tema di violenza di genere, dalla legge sul femminicidio al codice rosso
Nel recente periodo, il legislatore ha emanato diverse norme di diritto penale sostanziale e processuale ispirate da una ratio di incremento della risposta repressiva ai reati di genere, da un lato, e di implementazione degli strumenti di tutela processuale della vittima, dall’altro.
Nell’ottica dell’ampliamento della azione repressiva si muove, ad esempio, la legge n. 117/2014 (di conversione del dl 92/2014) che, per quanto riguarda il divieto di applicare la custodia cautelare in carcere se è prevedibile la condanna ad una pena non superiore a tre anni, ha escluso l’applicazione di questo divieto, tra gli altri, ai reati di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori (art. 275 comma 2-bis cpp).
Ispirata, invece, dall’esigenza di ampliare i diritti partecipativi della vittima è la legge 119 del 2013 (cd. legge sul femminicidio) nella parte in cui stabilisce, ad esempio, che nei delitti commessi con violenza alla persona si debba obbligatoriamente procedere alla notifica alla persona offesa della richiesta di archiviazione del pm con elevazione del termine per l’opposizione a venti giorni (art. 403, comma 3-bis cpp), ed alla notifica delle richieste di revoca o sostituzione della misura cautelare e dei conseguenti provvedimenti di revoca o modifica.
Con il d.lgs n. 22 del 2015, con il quale si è dato attuazione alla direttiva 2012/29/UE in tema di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (cd. direttiva vittime), il legislatore è intervenuto su istituti già esistenti al fine di ampliarne l’operatività. Il decreto aggiunge al codice di procedura penale norme relative all’assistenza linguistica, in forza delle quali anche alla vittima e non solo all’imputato devono essere garantiti servizi gratuiti di interpretariato, nel corso dell’intero processo penale, e di traduzione degli atti essenziali all’esercizio dei propri diritti. Risulta poi notevolmente ampliato il catalogo delle informazioni che la persona offesa ha diritto di ricevere dall’autorità giudiziaria procedente, nell’ottica di rendere effettivo il suo diritto di partecipare al procedimento.
Accanto agli strumenti di informazione, vengono potenziati quelli di protezione della persona offesa da forme di cd vittimizzazione secondaria, riconoscendo alla vittima dei reati di violenza di genere uno stato di particolare vulnerabilità. In tal senso, il decreto modifica la disciplina dell’incidente probatorio e della prova testimoniale attraverso modalità protette, disponendo l’applicazione delle specifiche tutele che sono previste nei casi in cui si debba procedere all’esame di una vittima vulnerabile, indipendentemente dal catalogo dei reati che fino ad oggi legittimava l’adozione di questa particolare forma di assunzione della prova. Quindi l’art. 90-quater cpp, introdotto dal decreto, ricollega la condizione della “particolare vulnerabilità” alla vittima in quanto tale, accordando una tutela individualizzata nel rispetto delle esigenze caratteristiche di ogni singola persona.
Da ultimo, le disposizioni del cosiddetto Codice rosso (legge del 19 luglio 2019 n. 69, in vigore dal 9 agosto 2019) sono caratterizzate da un generale inasprimento sanzionatorio; nel reato di maltrattamenti (572 cp) la cornice edittale passa da 2/6 a 3/7 anni; nel reato di atti persecutori, invece, passa da 6 mesi/5 anni a 1 anno/6 anni e 6 mesi.
L’effetto immediato di tale inasprimento sanzionatorio è l’aumento, per questi reati, del termine di fase (indagini) della custodia cautelare da 3 mesi a 6 mesi, così confermando quella linea di (contro)tendenza del legislatore che, a fronte di un generale ridimensionamento del ricorso alla misura custodiale carceraria (ispirazione di fondo della riforma delle misure cautelari di cui alla legge n. 47/2015) per i reati di violenza di genere introduce degli inasprimenti di pena e delle deroghe (si pensi anche alla già citata deroga introdotta dalla legge di legge n. 117/2014, di conversione del dl 92/2014) per agevolare, invece, il ricorso a tali misure restrittive della libertà.
La legge introduce poi un’aggravante speciale che va a sostituire, esclusivamente per i maltrattamenti (art. 572, comma 2 cp), l’attuale aggravante comune di cui all’art. 61, 11-quinquies cp.
Vengono introdotte, inoltre, nuove fattispecie di reato che colmano delle lacune normative: la deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (nuovo art. 583-quinquies cp), la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (cd. Revenge porn, inserito all'art. 612-ter ccp) e la costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis cp).
La nuova legge inasprisce anche le pene per i reati di violenza sessuale e introduce l’obbligo, per tali reati nonché per quelli di maltrattamenti ed atti persecutori, di subordinare la sospensione condizionale della pena alla partecipazione a specifici (ma non meglio specificati) percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati (nuovo testo dell’art. 165 cp).
E ancora, vengono introdotte alcune disposizioni processuali volte a rendere più celeri ed efficaci le indagini preliminari nei procedimenti per i reati di genere, così implementando la corsia preferenziale per la trattazione dei relativi procedimenti, già prevista dall’art. 132-bis delle disposizioni di attuazione al cod. proc. pen.
In particolare, le nuove disposizioni prevedono l’obbligo, per la polizia giudiziaria, di trasmissione immediata, anche in forma orale, della notizia di reato (art. 347, comma 3 cpp) e, per il pubblico ministero, l’obbligo di assumere informazioni dalla persona offesa entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato (art. 362, comma 1-ter cpp). All’articolo 5 del testo, si annuncia poi la necessità di un percorso di formazione degli operatori di polizia (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Corpo di Polizia penitenziaria) che dovrebbe essere avviato presso i rispettivi istituti di formazione entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore.
Si tratta di un insieme di norme che affrontano il problema della violenza di genere secondo un’ottica essenzialmente repressiva, senza tenere conto degli aspetti culturali ed educativi nei quali tale violenza storicamente affonda le sue radici [2].
L’unica norma che sembra prestare attenzione a tale aspetto educativo è quella che prevede la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla partecipazione a corsi di recupero presso enti che si occupano di prevenzione, assistenza piscologica e recupero dei soggetti condannati per questo tipo di reati. Si tratta, però, di una norma che presuppone che sia stato già commesso un reato e che si sia pervenuti ad una sentenza di condanna, la quale dunque non appare iscriversi in un’ottica di prevenzione e di educazione culturale volta a scongiurare la commissione di tali reati.
Infine, la previsione che la donna che abbia denunciato una violenza debba essere sentita obbligatoriamente dal pubblico ministero entro tre giorni appare un passaggio formale obbligato, in assenza del quale si tenderà a individuare, nel caso in cui alla denuncia segua un atto violento contro la donna, una responsabilità quasi oggettiva, per omissione, dell’autorità giudiziaria e/o di Polizia; d’altro canto, l’effettuazione di tale adempimento, tra l’altro delegabile alla PG, non comporterà per la donna alcuna reale possibilità di fruire di una protezione maggiore e più efficace dopo avere denunciato una violenza.
3. La necessità di una prospettiva sociologica nel trattare la violenza di genere
È lecito domandarsi se tutte le norme che sono state messe in campo non possano essere vanificate nel loro scopo qualora non accompagnate da una adeguata consapevolezza della matrice culturale di questi delitti.
Filice, nel suo volume, offre una prospettiva sociologica, senza la quale, afferma, non è possibile trattare adeguatamente questo tipo di reati. La cronaca evidenzia infatti che, pur a fronte di modifiche normative che, negli ultimi anni, si sono succedute costantemente, ancora moltissimi uomini restano affetti da quella che l’autore definisce una «patologia relazionale profonda», la quale impedisce di accettare come un possibile evento della vita l’abbandono da parte di una donna con cui hanno condiviso una relazione o un periodo della loro vita.
Si tratta di una condizione psicologica che affonda le sue radici nell’idea del genere maschile quale dominante che, in quanto tale, è chiamato ad agire sul genere subordinato esercitando coazione e che impedisce all’uomo di percepire la donna quale altro da sé, quale soggetto autonomo dalla sua potestà, protezione, area di consenso. Proprio tale patologia relazionale, che si traduce nella incapacità dell’uomo di accettare l’abbandono, spingerebbe quest’ultimo ad azioni estreme come, appunto, il femminicidio.
Alla base di tale patologia relazionale non vi è – in genere – una anomalia di carattere psichiatrico (salvi i casi in cui tale patologia venga effettivamente accertata) bensì una modalità educativa degli uomini imperniata sui concetti di genere dominante e coazione di genere, la quale è completamente accettata a livello sociale, nonostante l’evoluzione della sensibilità collettiva.
Invero, non è infrequente nelle aule di giustizia ascoltare linee difensive che invocano un trattamento sanzionatorio più mite in quanto la condotta dell’imputato sarebbe stata cagionata dal comportamento “ambiguo” della vittima nei confronti dello stesso, dal fatto che la vittima avrebbe innescato in lui il “dubbio” di un tradimento e, quindi, in un certo senso, avrebbe “meritato” di sottostare ai maltrattamenti del compagno.
Spesso, inoltre, accade che l’imputato sia sinceramente convinto di essere egli stesso vittima di quanto accaduto e, quindi, di aver inflitto alla donna la giusta punizione.
È evidente, quindi, che l’intervento giudiziario in questo tipo di violenza non può estrinsecarsi con i medesimi strumenti che si adoperano al cospetto di altre forme di violenza.
Per fare un esempio concreto, sappiamo che una delle recenti modifiche normative ha inteso potenziare la partecipazione della persona offesa nella fase della richiesta di archiviazione presentata dal pm al gip ed è stato, dunque, previsto che, per i reati commessi con violenza alla persona (con le precisazioni di cui alla sentenza Cass. pen. Sez. un., 29 gennaio 2016 n. 10959) l’avviso della richiesta di archiviazione è, in ogni caso, notificato alla persona offesa ed il termine per fare opposizione è elevato a venti giorni (art. 408, comma 3-bis cpp).
Se la persona offesa non fa opposizione, ecco però che la reale portata della norma in termini di accresciuta tutela della vittima di violenza di genere rischia di essere vanificata.
In proposito, sono molto utili gli spunti di riflessione che Filice offre in tema di valutazione della richiesta di archiviazione in questo tipo di reati.
La tutela della vittima nella delicata fase della richiesta di archiviazione e del controllo del gip sull’esercizio dell’azione penale non può, infatti, prescindere da una adeguata valutazione delle dinamiche di questa forma di violenza. Sul punto l’autore sollecita l’attenzione su alcune delle motivazioni della richiesta di archiviazione più frequenti ma più difficili da valutare: quella motivata sulla infondatezza sopravvenuta della notizia di reato a seguito della ritrattazione della vittima e quella fondata sulla accertata conflittualità del rapporto di coppia. Si tratta, invero, di due tipiche motivazioni della richiesta di archiviazione che, mentre per un qualsiasi altro reato porterebbero senz’altro alla pronuncia di archiviazione, in tema di violenza di genere pongono dei problemi peculiari. In caso di ritrattazione della vittima, la difficoltà sussiste nella verifica delle condizioni in cui è maturato il ripensamento della persona offesa (il quale ben potrebbe essere maturato in quella che, come si è visto, è stata definita fase della “luna di miele” dopo la violenza) e si tratterà di verificare anche se la stessa sia stata debitamente informata delle effettive possibilità di tutela. In caso di accertata conflittualità tra le parti, la difficoltà sarà quella di discernere il cd. buon conflitto, del tutto fisiologico nell’ambito del rapporto di coppia, dal cd. dominio del conflitto da parte del soggetto maltrattante, il quale intende, con le sue condotte vessatorie e prevaricatrici, dominare il conflitto e vincerlo, annullando la resistenza della vittima. In proposito l’autore avverte che: «Quando ciò avvenga, è del tutto irrilevante la ragione che ha innescato il conflitto anche se si tratti di una causa riconducibile all’agire della vittima stessa: in quanto lo spostamento da una dimensione fisiologica del conflitto paritario a quella patologica della prevaricazione nel conflitto stesso integra in sé una violenza psicologica nei confronti della vittima, a cui si aggiungono le violenze morali e/o fisiche, in cui consisteranno le singole condotte maltrattanti (appunto percosse, minacce, ecc…)».
Non si può prescindere, quindi, dalla conoscenza delle dinamiche tipiche di questa forma di violenza. Analogo discorso vale per l’esame della persona offesa in questo tipo di reati. L’autore ne tratta in sede di disamina dell’incidente probatorio “speciale”, ma le indicazioni che fornisce sono valide per qualsiasi fase processuale nella quale si debba assumere la testimonianza della persona offesa di violenza di genere. Le fonti sovranazionali, in particolare la già citata “direttiva vittime”, come si è detto, indicano agli stati di porre in essere tutte le misure necessarie per far sì che la persona offesa prenda parte al processo senza dover scontare le conseguenze negative derivanti da una sua testimonianza. La necessità di evitare la “vittimizzazione della vittima” non può, però, evidentemente prescindere da tecniche di esame caratterizzate da un “approccio non giudicante”. La persona offesa sottoposta ad esame non deve essere messa nelle condizioni di sentirsi giudicata e deve sentirsi libera di esprimere il suo racconto, proprio come se fosse stata vittima di una comune rapina. Si devono, quindi, evitare atteggiamenti sessisti che tendano a farla sentire ed a rappresentarla come colei che “se l’è andata a cercare” e, nello stesso tempo, che la facciano sentire come “la povera vittima indifesa e bisognosa di protezione”.
Appare chiaro, quindi, che la conoscenza della natura di tale tipo di violenza impone che gli stereotipi di genere, basati sul dominio del maschio correlato alla identità maschile, la quale si traduce nel bisogno, per realizzare la propria identità di genere, di porre in essere situazioni di dominio e sopraffazione, restino al di fuori delle aule di giustizia e necessariamente relegati nell’area della irrilevanza penale.
4. Il rischio della legittimazione giudiziaria della violenza di genere
È trascorso tanto tempo dal celebre caso dello stupro di gruppo di piazza Navona del 1988, ai danni di Maria Carla Cammarata, in cui la Corte di appello ridusse la pena agli imputati in quanto, stante le scarse capacità di difesa della vittima, la violenza era stata “minima”.
Nel 1999 fece molto discutere la “sentenza sui jeans” in cui la Cassazione annullava la condanna inflitta dalla Corte di appello (Cass. sent. n. 1636/1998) affermando testualmente: «Deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa».
Era il 2006 quando venne emanata dalla Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 6329 del 2006) un’altra sentenza che ha fatto discutere: violentare una donna non più vergine porta ad una condanna più lieve. La sentenza della Cassazione ha riconosciuto che la vittima minore di età era stata effettivamente violentata dal patrigno, ma senza aggravanti poiché ella «aveva avuto numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età» ed è quindi «lecito ritenere che già al momento dell’incontro con l’imputato la sua personalità, dal punto di vista sessuale, fosse molto più sviluppata di quella di una ragazza della sua età».
Tali sentenze hanno alla base l’idea che la violenza sulla donna sia sempre in qualche misura determinata dalla stessa vittima la quale, quindi, da persona offesa diventa essa stessa imputata.
Anche in tempi recenti, hanno avuto molto risalto mediatico alcune sentenze che, come già accaduto in passato, hanno riportato all’attenzione degli interpreti tale approccio al fenomeno della violenza di genere, vale a dire un approccio che appare fondato su quegli stessi stereotipi che sono proprio all’origine della violenza stessa [3].
Nella sentenza della Corte di assise di appello di Bologna n. 29/2018 del 14 novembre 2018, sul femminicidio di Olga Matei, la Corte ha riformato la sentenza di primo grado, concedendo le attenuanti generiche all’imputato. La Corte ha ritenuto che l’azione omicidiaria era stata cagionata da un “moto di gelosia” privo di alcun fondamento e, soprattutto, non motivato da un sentimento di attaccamento profondo per la donna (che aveva conosciuto da poco e con la quale non vi erano seri progetti di vita insieme) e che fu l’espressione di un «intento meramente punitivo» nei confronti di una donna che si mostrava poco sensibile per le sue fragilità. Nello stesso tempo, però, la Corte ha ritenuto che, benché tale sentimento fosse immotivato ed inidoneo ad inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato (ed invero il perito aveva escluso che fosse presente nell’imputato alcuna patologia psichiatrica), esso determinò in lui – a causa delle sue esperienze di vita poco felici − quella che il perito aveva descritto come «una tempesta emotiva e passionale» che secondo la Corte è idonea ad incidere sulla misura della responsabilità penale (in base a Cass. pen sez. 1, sent. n. 7272 del 5 aprile 2013).
Nella sentenza del Tribunale di Genova del 17 dicembre 2018 (sent. n. 1340/2018) sul femminicidio di Angela Coello Reyes sono state parimenti riconosciute le attenuanti generiche all’imputato. Nella sentenza si legge che l’impulso che ha portato l’imputato a colpire la moglie con il coltello è scaturito da un «sentimento molto forte ed improvviso», che egli non ha semplicemente agito sotto la spinta della gelosia ma di un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, acuito dai fumi dell’alcol, dalla stanchezza per il lungo viaggio e dal «comportamento ambiguo della vittima». La sentenza, pur riconoscendo che l’imputato non aveva agito sotto la spinta della provocazione, ha ritenuto che il contesto nel quale si era collocata la sua azione omicidiaria si poneva, in un’ipotetica scala di gravità, su di un gradino più basso e meritava una pena meno severa. La sentenza afferma, quindi, che l’imputato ha agito sotto la spinta di un «moto di gelosia fine a sé stesso», per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, e come «reazione al comportamento della donna», del tutto incoerente e contraddittorio che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo.
Dalle motivazioni di tali sentenze emerge che, come accade spesso in questo genere di reati, gli imputati si sono sentiti rifiutati, traditi, illusi dalle loro compagne (in un caso la moglie, nell’altro caso una donna conosciuta da poco, con la quale non vi erano neanche progetti di vita insieme) ed hanno reagito uccidendole. Sono vicende dalle quali emerge che, all’origine dei femminicidi, vi è l’identità di genere del maschio connotata da spinte identitarie che li rende incapaci di accettare dalle proprie compagne delle scelte autonome di vita e taluni eventi − come tradimenti, illusioni, abbandoni − tanto da non vedere altra via di uscita che eliminare l’oggetto che non possono avere, sia pure a costo di lunghi anni di carcere.
Sono, inoltre, sentenze nelle quali non è difficile individuare un filo conduttore comune da individuarsi nell’idea che la vittima ha in qualche modo concorso nel reato a causa di un suo comportamento, di un suo modo di vestire o, semplicemente, di un suo modo di essere; l’idea che la vittima abbia determinato nell’imputato uno stato emotivo che ha in qualche modo giustificato l’azione violenta o, comunque, che contribuisce ad attenuarne la gravità.
Il problema, prima ancora che culturale, è dunque giuridico.
Chi scrive ritiene infatti che le indicazioni che il codice penale fornisce all’interprete sono molto chiare: gli stati emotivi e passionali che non si inseriscano in un quadro di infermità mentale sono del tutto ininfluenti ai fini della imputabilità (art. 90 cp); perché tali stati assumano rilievo, al riguardo, è necessario un quid pluris, che, associato ad essi, si sostanzi in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure transeunte e non inquadrabile nell'ambito di una precisa classificazione nosografica; le indicazioni della giurisprudenza di legittimità sono nel senso che l'esistenza o meno di tale fattore «va accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza dell'attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di infermità (come tale rilevante, ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p.), ad alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva, che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi e passionali di cui sia riconosciuta l'esistenza» [4].
Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza Raso del 2005 hanno riconosciuto che, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di «infermità» anche i «gravi disturbi della personalità», a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa.
Quanto alla gelosia, alla rabbia, al risentimento, al senso di frustrazione eventualmente provati dagli imputati, qualora non possano essere ricondotti (a seguito di accertamenti peritali) ad aspetti patologici, dovrebbero quindi restare necessariamente confinati nell’area della irrilevanza penale, per volontà del legislatore sancita dall'art. 90 cp.
Inoltre, in tema di violenza di genere, attribuire valore di circostanza attenuante a tali pulsioni emotive, che scaturiscono da spinte identitarie, sarebbe come valutare quali elementi circostanziali quelli che, invece, essendo all’origine della violenza di genere, ne costituiscono l’essenza stessa.
Attribuire ai sentimenti di gelosia, rabbia, risentimento, frustrazione valore di circostanza attenuante può sortire l’effetto di garantire, anche a livello giudiziario, quella tolleranza sociale che è alla base della violenza di genere.
[1] L’autore fa riferimento a: Carol Gillian (In a different voice, 1982) ed a Catharine Mackinnon (Feminism unmodified: discourses on life and law, 1987).
[2] In questo senso: F. Filice, Linguaggio giuridico e patriarcato; Perché il contrasto alla violenza di genere non sia utilizzato per affermare un diritto maschile a “difendere” le donne, in Giudicedonna.it, n. 1/2019, http://www.giudicedonna.it/articoli/Linguaggio%20giuridico%20e%20patriarcato.pdf.
[3] Si veda in questa rivista: F. Filice, Femminicidi di Bologna e di Genova: perché quelle sentenze potrebbero sbagliare, in questa Rivista on-line, 15 aprile 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/femminicidi-di-bologna-e-genova-perche-quelle-sentenze-potrebbero-sbagliare_15-04-2019.php.
[4] Cass., Sez. I, n. 967/1997; id., Sez. I, n. 3170/1995; id., Sez. I, n. 12429/1994; id., Sez. I, n. 4954/1993; id., Sez. I, n. 1347/1991; id., Sez. V, n. 8660/1990; id., Sez. I, n. 9084/1987; id., Sez. VI, n. 2285/1985.