La Corte di Cassazione, sez. II penale, con la recente sentenza 22.01.2015 n. 2890, ha confermato la condanna per appropriazione indebita di una cassiera di un supermercato che – grazie alle telecamere installate all’interno del luogo di lavoro – era stata ripresa, in più occasioni, nell’atto di impossessarsi di somme di denaro ricevute dai clienti.
La Corte ha ritenuto che i risultati delle videoriprese non potevano considerarsi “prove illegali, illegittimamente acquisite ex art. 191 c.p.p., bensì prove documentali, acquisibili ex art. 234 c.p.p.”, in quanto le videoriprese erano state finalizzate “non al controllo dei lavoratori a distanza, come vietato dalla Statuto dei lavoratori, bensì alla difesa del patrimonio aziendale attraverso la documentazione di attività potenzialmente criminose” ed ha ribadito che “sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, perché le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio” (nello stesso senso, Cass. sez. V pen. 18.03 – 1°.06.2010 n. 20722 e Cass. sez. V pen. 12.07 – 26.09.2011 n. 34842).
Il principio di diritto affermato, che ignora totalmente la giurisprudenza degli ultimi anni della sezione lavoro della stessa Suprema Corte, appare erroneo e non condivisibile.
È noto che l’art. 4 St. Lav. distingue due tipologie di controlli a distanza sull’attività dei lavoratori.
Il primo comma (“È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”) vieta in modo assoluto i cosiddetti controlli intenzionali, o diretti, ossia preordinati a sorvegliare il lavoratore durante lo svolgimento della prestazione e la sua permanenza nei locali aziendali, e dunque vieta l’installazione di impianti ed apparecchiature aventi come scopo proprio quello del controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Il secondo comma (“Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro [ora Direzione Territoriale del Lavoro], dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti”) consente, a determinate condizioni, i cosiddetti controlli preterintenzionali, o indiretti: sistemi di videosorveglianza adottati dall’imprenditore per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza del lavoro, dai quali derivi, come conseguenza accidentale, non specificamente voluta, la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
La procedura autorizzatoria di cui all’art. 4, 2° comma, è necessaria “tutte le volte in cui i controlli vengono a consentire in via di normalità, inevitabilmente, il controllo anche delle attività dei lavoratori” (v. Cass. sez. lav. 22.3.2011 n. 6498).
Accanto ai controlli intenzionali, vietati, e ai controlli preterintenzionali, consentiti a determinate condizioni, la giurisprudenza ha elaborato una terza tipologia di controlli a distanza, i cosiddetti controlli difensivi, che sarebbero rivolti “esclusivamente” ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto a tutela della libertà e dignità del lavoratore non escluderebbero il potere dell’imprenditore di controllare “non già l’uso, da parte dei dipendenti, della diligenza richiesta nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali, bensì il corretto adempimento delle prestazioni lavorative al fine di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione” (Cass. sez. lav. 14.7.2001 n. 9576, Cass. sez. lav. 2.3.2002 n. 3039, Cass. sez. lav. 12.6.2002 n. 8388, Cass. sez. lav. 10.7.2009 n. 16196, tutte peraltro in fattispecie di controlli mediante clienti o dipendenti appositamente inviati dal datore di lavoro, o mediante investigatori privati, e non, dunque, mediante impianti od apparecchiature di controllo a distanza).
In quest’ottica, si è ritenuto che i controlli difensivi, anche se svolti mediante apparecchiature di controllo a distanza, fossero fuori dal campo di applicazione dell’art. 4 St. Lav. e, dunque, sempre leciti: secondo Cass. sez. lav. 3.4.2002 n. 4746, “ai fini dell’operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori previsto dall’art. 4 legge n. 300 del 1970, è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cosiddetti controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell’accesso ad aree riservate o gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate”.
Questa tesi, peraltro, si è rivelata insostenibile, anzitutto per ragioni letterali: per l’applicabilità dell’art. 4, 1° e 2° comma, St. Lav. non è affatto necessario che il controllo a distanza riguardi “l’attività lavorativa”, essendo sufficiente che esso abbia ad oggetto “l’attività dei lavoratori”, che è concetto molto più ampio, comprensivo non solo della prestazione lavorativa in senso stretto, ma di ogni comportamento tenuto dal lavoratore in azienda (ad es. durante le pause o gli spostamenti all’interno dello stabilimento o dell’ufficio, nei locali mensa, spogliatoio, ecc.), sul presupposto che le attività non riconducibili alla collaborazione dovuta dal lavoratore subordinato (ex art. 2094 c.c.) sono irrilevanti per l’imprenditore e, quindi, precluse alla sua conoscenza, a tutela non solo della dignità del lavoratore ma anche della sua sfera di riservatezza.
Da un punto di vista meramente logico, poi, non pare davvero possibile distinguere il controllo (vietato) “sull’uso della diligenza richiesta nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali” dal controllo (consentito) sul “corretto adempimento delle prestazioni lavorative”, volto ad accertare eventuali condotte illecite del lavoratore che sarebbero tenute, necessariamente, durante lo svolgimento dell’attività lavorativa e sul luogo di lavoro; ed anche dal punto di vista tecnologico, non è dato comprendere come sia possibile predisporre un sistema di controllo a distanza (videocamere, software di monitoraggio dell’utilizzo della posta elettronica o degli accessi ad Internet, ecc.) “esclusivamente” al fine di accertare comportamenti illeciti dei lavoratori senza che ciò comporti, allo stesso tempo, un controllo a distanza sull’esatto adempimento della prestazione lavorativa (insomma, dovrebbe esistere una videocamera che riprende solo le condotte illecite e non quelle lecite!).
Infine, ammettere la categoria dei controlli difensivi a distanza significa affidare la verifica circa la legittimità del controllo ad una valutazione da effettuare, necessariamente, ex post: soltanto nel momento in cui il controllo a distanza permette di accertare la commissione di un illecito da parte del lavoratore, l’esercizio del potere di controllo diventa legittimo; e se non si accerta nessun illecito? Si realizza così un vero cortocircuito logico: anziché fornire una regola che il datore di lavoro deve osservare nel momento in cui decide di controllare a distanza il lavoratore, si formula la regola in modo da fare riferimento ad elementi di cui il datore di lavoro verrà a conoscenza a posteriori, soltanto dopo avere effettuato il controllo.
Già da alcuni anni, quindi, la giurisprudenza della S.C., sez. lavoro, ha ricondotto anche i controlli difensivi a distanza nel campo di applicazione dell’art. 4, affermando che “le garanzie procedurali imposte dall’art. 4, 2° comma, della legge n. 300 del 1970 per l’installazione di impianti ed apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, trovano applicazione anche ai controlli c.d. difensivi, ovverosia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso, dovendo escludersi che l’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti possa assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore” (Cass. sez. lav. 17.7.2007 n. 15892, Cass. sez. lav. 23.2.2010 n. 4375, Cass. sez. lav. 23.2.2012 n. 2722, Cass. sez. lav. 1°.10.2012 n. 16622).
I controlli difensivi, peraltro, restano certamente consentiti nell’ambito degli artt. 2 e 3 St. Lav., cioè quando sono esercitati non per mezzo di impianti di controllo a distanza, ma ad opera di guardie giurate per la tutela del patrimonio aziendale, o del personale di vigilanza; le norme dello Statuto dei Lavoratori non escludono, nemmeno, il potere dell’imprenditore di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse od in corso di esecuzione indipendentemente dalle modalità di controllo, che può avvenire anche occultamente, purché ad opera di persone (altri dipendenti, clienti, investigatori privati, ecc.) e non di impianti audiovisivi ed altre apparecchiature di controllo (v. Cass. 4.12.2014 n. 25674, Cass. 31.10.2013 n. 24580, Cass. 18.11.2010 n. 23303, Cass. 10.7.2009 n. 16196, Cass. 9.7.2008 n. 18821, Cass. 12.6.2002 n. 8388, Cass. 2.3.2002 n. 3039, Cass. 14.7.2001 n. 9576).
Invece, l’installazione di impianti ed apparecchiature di controllo a distanza per svolgere controlli difensivi deve ritenersi consentita solo se richiesta “da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro” e soltanto “previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali” o, in mancanza, previa autorizzazione della D.T.L., rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 4, 2° comma, St. Lav., come ormai chiarito dalla giurisprudenza della sezione lavoro della Cassazione.
Non c’è dubbio che l’installazione da parte del datore di lavoro di impianti di controllo a distanza senza avere raggiunto l’accordo con le r.s.a. né essersi munito dell’autorizzazione della D.T.L., e quindi avvenuta in violazione dell’art. 4 St. Lav., rende illegittima l’attività di controllo così esercitata e comporta che la documentazione illegittimamente acquisita è inutilizzabile dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, sia a fini disciplinari sia a fini probatori in un’eventuale azione di risarcimento danni.
Coerentemente, dovrebbe trattarsi di prove inutilizzabili anche nel processo penale, proprio perché “acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge” (art. 191 c.p.p.), allo stesso modo delle prove “ottenute attraverso una interferenza illecita nella vita privata in violazione dell’art. 615 bis c.p.”, che la stessa S.C. considera, pacificamente, inutilizzabili (v. Cass. sez. V pen. 30.05 – 13.08.2014 n. 36581).
Stupisce, dunque, che le sezioni penali della Corte di Cassazione restino, ancora oggi, saldamente ancorate all’idea che i controlli difensivi del patrimonio aziendale, anche se esercitati dal datore di lavoro mediante impianti di controllo a distanza sull’attività dei lavoratori, siano sottratti ai divieti ed alle limitazioni di cui all’art. 4 St. Lav. e siano, quindi, sempre leciti.
Stupisce ancor più che le sezioni penali della S.C. non si facciano carico di confrontarsi con la giurisprudenza, ormai consolidata, dei colleghi della sezione lavoro, tanto da non citarla nemmeno nella sentenza 2890/2015, sia pure per discostarsene motivatamente: davvero, non un bell’esempio di nomofilachia e di “uniforme interpretazione della legge” (v. art. 65 R.D. n. 12/1941) da parte della nostra Corte Suprema.