La vicenda dei lavoratori dello stabilimento di Campi Bisenzio della GKN (Gkn Driveline Firenze spa), che svolge attività di produzione di componenti per il settore automobilistico, è nota.
Nella giornata dell’8 luglio 2021 nel corso del consiglio di amministrazione della multinazionale, controllata dal fondo inglese Melrose Industries quotato alla Borsa di Londra, che ha unità in oltre 30 paesi, è stata approvata la proposta all’ordine del giorno di chiudere lo stabilimento, con licenziamento, attraverso la procedura ex l n. 223/91, di tutto il personale, che nel frattempo veniva collocato in aspettativa retribuita. La decisione è stata comunicata ai lavoratori il 9 luglio, con un messaggio di posta elettronica, in una giornata in cui tutti i 422 dipendenti erano stati messi in permesso retribuito collettivo, senza alcuna preventiva interlocuzione con le Organizzazioni sindacali e senza che fosse in atto una procedura di licenziamento collettivo ex l n. 223/91. Una condotta questa che, bypassando ogni passaggio anche solo formale previsto dalla normativa, ha suscitato sdegno generalizzato per le modalità utilizzate, e ha determinato i lavoratori al ricorso ad ogni mezzo lecito per contestarne, nei limiti del possibile, forma e sostanza, ad iniziare dall’occupazione e dal presidio dello stabilimento. L’intenzione dichiarata è quella di mantenere viva l’attenzione su una vicenda emblematica di una concezione della libertà d’impresa, che nel nostro Paese ha vieppiù spostato il bilanciamento degli interessi nella lettura dell’art. 41 della Costituzione dal secondo al primo comma, nella semi completa obliterazione del terzo.
Contestualmente, sempre il 9 luglio, è stata inviata alle organizzazioni sindacali la lettera di avvio della procedura di licenziamento collettivo ex l. n. 223/1991.
Con il decreto in commento, in data 22 settembre 2021, il Tribunale di Firenze, su ricorso della Fiom CGIL, ha affrontato la questione nella prospettiva della lesione delle prerogative sindacali tutelate dall’art. 28 l n. 300/1970, così rappresentate in giudizio: omissione delle procedure di consultazione e confronto previste dal CCNL aziende metalmeccaniche e da specifici accordi sindacali aziendali; serrata offensiva attraverso il collocamento di tutti i dipendenti in ferie/permesso o aspettativa retribuita; inizio della procedura di licenziamento collettivo senza preventivo ricorso agli ammortizzatori sociali e in contrasto con le comunicazioni date nella precedente interlocuzione con il sindacato, informato in data 8 giugno 2021 della possibilità di 15/19 esuberi per il 2022, a cui il sindacato aveva risposto con nota del 29 giugno 2021, con la quale aveva proposto soluzioni organizzative per evitare i licenziamenti.
La condotta è stata ritenuta antisindacale in quanto: 1) in violazione dell’obbligo contrattuale liberamente assunto di “condividere con il Sindacato non solo i dati aziendali (sull’andamento del mercato, i livelli produttivi ed altro), ma anche ogni valutazione effettuata in ordine ai suddetti dati, tutte le volte che, come nel caso di specie, tale valutazione comporti una «previsione di rischio per i livelli occupazionali», compreso il «fatto che il quadro delineato dai suddetti dati stava conducendo» da tempo «i vertici aziendali ad interrogarsi sul futuro dell’azienda stessa»; 2) integrante la vanificazione dell’iter procedimentale liberamente pattuito per l’assunzione delle decisioni aziendali in materia di occupazione, così impedendo «al Sindacato di esercitare al meglio le proprie funzioni, ivi compresa quella di condizionare (con le ordinarie e legittime modalità di confronto ed eventualmente di contrasto) le future determinazioni e scelte gestionali dell’azienda»; 3) ingannatoria per aver rappresentato al sindacato nel giugno 2021 una possibilità di esuberi nell’ordine di 15/19 dipendenti, per non aver risposto alla nota del 29 giugno 2021 con la quale erano state proposte soluzioni organizzative alternative, per avere dato riscontro alla stessa, su sollecitazione, solo in data 6 luglio promettendo un incontro ed «omettendo ogni riferimento al fatto che il successivo 8 luglio 2021 si sarebbe tenuto un CDA con all’ordine del giorno la decisione di chiudere lo stabilimento e licenziare tutto il personale»; 4) volutamente diretta (elemento a riscontro della correttezza delle valutazioni precedenti) a «delegittimare il Sindacato con iniziative volte ad elidere o comunque ridurre le possibilità di reazione dello stesso» essendo stata concordata con la RSU una sospensione dell’attività aziendale di un giorno, per il 9 luglio, per una ragione (la riduzione di un ordine da parte di un cliente) rivelatasi pretestuosa, venendo deliberata l’8 luglio 2021 la cessazione immediata dell’attività aziendale, al termine del turno giornaliero, con messa in aspettativa retribuita di tutto il personale già sospeso per il giorno dopo «in modo da poter comunicare la suddetta cessazione ai lavoratori e al Sindacato con lo stabilimento già chiuso».
Il provvedimento, a cognizione sommaria impugnabile e suscettibile di essere modificato/revocato, costituisce indubbiamente una bella vittoria per il sindacato e per i lavoratori, che vedono riconosciuto, «pur non essendo in discussione la discrezionalità dell’imprenditore rispetto alla decisione di cessare l’attività di impresa (espressione della libertà garantita dall’art. 41 Cost.)», il diritto a comportamenti improntati ai principi di buona fede e correttezza contrattuale e al rispetto del ruolo e delle prerogative del Sindacato, principi palesemente violati dalla decisione di cessare immediatamente l’attività produttiva, rifiutando «la prestazione lavorativa dei 422 dipendenti (il cui rapporto di lavoro prosegue per legge fino alla chiusura della procedura di licenziamento collettivo), senza addurre una specifica ragione che imponesse o comunque rendesse opportuno il suddetto rifiuto».
Questa vittoria, di per sé sola, non sposta però di molto la questione della decisione di cessare l’attività di GKN. Impone il rispetto delle fasi procedimentali di interlocuzione reale con il sindacato, con revoca della lettera di apertura della procedura ex l. 223/91, ma sul piano sostanziale non comporta la ripresa dell’attività produttiva, nemmeno temporanea.
Un provvedimento con il contenuto di quello di cui si discute può spiegare effetti significativi, sul piano sostanziale, in un contesto socio-economico in cui al sindacato è riconosciuto, sia da parte imprenditoriale, sia da parte politica, e in primis dal governo, il ruolo di interlocutore reale, con forza contrattuale, per la soluzione della vertenza aperta da GKN; un ruolo questo che affonda le sue radici non solo nella capacità rappresentativa dei lavoratori interessati ma anche nella esistenza di un comune sentire collettivo. Ed infatti, già all’indomani della decisione del Tribunale di Firenze, viene chiesto con fermezza e insistenza un intervento, che sia effettivo, del MISE, ossia di un soggetto che abbia capacità di incidere (in realtà non si sa quanto) in un contesto di rapporti che è politico e non solo di relazioni industriali.
L’impossibilità di fare valere, al di fuori del mero contesto normativo, le ragioni dell’occupazione mettendo in campo rapporti di forza favorevoli a questa causa, non lascia ipotizzare un esito della vicenda giudiziaria diverso da un semplice posporre, sia pure dopo aver condiviso informazioni e formalizzato interlocuzioni, l’attuazione di una decisione già presa e palesata con indiscutibile chiarezza da GKN attraverso una condotta addirittura in spregio della buona creanza nelle relazioni sindacali.
Il senso vero della vicenda che dovrebbe essere compreso e discusso, divenendo materia di “interlocuzione” reale con le forze sociali e la società civile, è la lettura dell’art. 41 Cost.
Il sindacato ha messo ben in evidenza, ma la circostanza è sostanzialmente riconosciuta dalla stessa azienda, che a seguito dell’acquisizione della storica azienda britannica da parte del fondo Melrose, la ristrutturazioni aziendali sui vari territori seguono una logica di puro profitto nella duplice espressione di aumento degli utili per gli azionisti e di aumento di valore dei titoli sul mercato.
Da più parti, e nello stesso provvedimento del Tribunale di Firenze, viene affermato come diritto assoluto quello della più completa libertà di chiudere una attività aziendale come quella di Campi Bisenzio, che non è attività in crisi, ma che semplicemente può essere più redditizia se riorganizzata altrove. Questa affermazione è giustificata per lo più con il fatto che se così non fosse, l’Italia non sarebbe attrattiva per investimenti: così venendo trascurato il fatto evidente che pur con quella più ampia libertà non lo è abbastanza. Altra parte degli opinionisti e dei politici invoca invece severi provvedimenti contro le delocalizzazioni.
In realtà, se il principio è quello della assoluta libertà nell’attività d’impresa (comma 1), che prevale sulla utilità sociale e dignità umana (comma 2) e sugli interventi dello Stato (comma 3), esso vale per tutti e in tutti i casi, anche senza “delocalizzazione” (come la chiusura dell’attività di uno stabilimento senza cederla o semplicemente vendendo il marchio). Riconoscere la massimizzazione dell’utile come unico e sufficiente elemento giustificativo e come criterio legittimo e indiscutibile per le scelte aziendali, negando limiti etici in considerazione degli altri interessi che entrano in gioco e vengono incisi da queste scelte, come il diritto al lavoro o ad esempio l’uso di beni collettivi come l’aria e lo spazio per il trasferimento delle merci, incunea in uno spazio angusto dove le tutele sono solo formali, non vi sono garanzie sostanziali e l’esito è scontato.
photo credits: Daniele Angella