Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

I problemi dell'incostituzionalità della Fini-Giovanardi: il catalogo è questo. Forse...

di Andrea Natale
giudice del Tribunale di Torino
Un primo commento sui temi affrontati – in quattro decisioni – dalle Sezioni unite all’udienza del 26.2.2015, di cui sono oggi note solo le informazioni provvisorie. Alcuni problemi sono forse risolti, ma nuovi problemi interpretativi si affacciano all’orizzonte
I problemi dell'incostituzionalità della Fini-Giovanardi: il catalogo è questo. Forse...

1. Per fortuna ci sono le Sezioni unite… 

Gli antefatti sono noti: da dicembre 2013 ad oggi, si è determinata – in materia di disciplina penale degli stupefacenti – una straordinaria (“stupefacente”) stratificazione di “eventi”:

- il d.l. n. 146/2013 (conv. in legge n. 10/2014) – noto come “svuota-carceri” – modifica l’art. 73, comma 5, DPR 309/90;

- la sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014 dichiara illegittima la cd. Fini-Giovanardi, ripristinando il vigore dell’originario testo dell’art. 73 DPR 309/90 (versione cd. Iervolino-Vassalli), comunque già modificata dal d.l. 146/2013, cit.;

- il d.l. 36/2014 (e la legge di conversione n. 79/2014) intervengono di nuovo sull’art. 73, comma 5, DPR 309/90.

Le conseguenze di tale terremoto normativo sono di estremo interesse; ciò tanto sul piano pratico (essendo i delitti in materia di stupefacenti uno dei core-business del nostro sistema penale e penitenziario); quanto sul piano teorico (investendo temi di assoluto rilievo, quali ad esempio: la natura e la portata delle sentenze che accertano l’illegittimità costituzionale di una certa norma penale; l’assimilabilità – o meno – degli effetti delle sentenze di incostituzionalità alla disciplina della successione di leggi penali nel tempo; il tema della retroattività della lex mitior intermedia; le conseguenze sui processi in corso e, in particolare, nei giudizi di legittimità; la intangibilità – o meno – dei giudicati; ritenuta la tangibilità dei giudicati, l’estensione dei poteri di intervento del giudice dell’esecuzione e gli strumenti a sua disposizione per “riportare a legalità” pene inflitte su quadri edittali poi dichiarati incostituzionali). 

L’illegittimità costituzionale di una legge è una patologia e, purtroppo, il nostro sistema processuale è attrezzato solo in minima parte ad affrontare la patologia. Ciò ha determinato un effetto di profonda incertezza, un’incertezza “di sistema”.

Il legislatore non è intervenuto per proporre una cura. Sicché, commentatori, giurisprudenza di merito, giurisprudenza di legittimità hanno dovuto così impegnarsi nell’elaborazione – necessariamente in via pretoria – di rimedi per curare la patologia, con una pluralità e diversità di risposte che, seppure creando disorientamento, restituisce in modo palese la complessità dei problemi sul tappeto.

Infine – seppure forse con un attendismo degno di miglior causa – le Sezioni unite sono state interpellate.

La lettura delle ordinanze di rimessione alle Sezioni unite delle questioni trattate all’udienza del 26.2.2015 fotografa in modo nitido la pluralità di approcci emersi nella pratica giurisprudenziale sul tema delle conseguenze del terremoto di cui si è detto in esordio.

2. La sentenza Gatto

Il punto di partenza, inevitabilmente, è quello della “cedevolezza del giudicato”, a fronte di sentenze della Corte costituzionale che dichiarano l’illegittimità costituzionale di un determinato trattamento sanzionatorio. Questione che è stata affrontata – prima – nel contesto della nota vicenda Scoppola e dei c.d. fratelli minori di Scoppola (su cui si vedano, Corte costituzionale, sentenza n. 213 del 2013 e Cass. Pen., Sezioni unite, sentenza n. 18821 del 24/10/2013 - dep. 07/05/2014, Ercolano, Rv. 258650) e – poi – dalla sentenza delle Sezioni unite che ha preso posizione sulle conseguenze della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012 sulla declaratoria di incostituzionalità della disposizione che prevedeva un vincolo al bilanciamento tra la fattispecie – allora attenuante – di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990 e la recidiva reiterata.

Non può essere qui ripercorsa tutta la complessa questione. Qui basta richiamare alcuni degli approdi ai quali è giunta la Cassazione nella sentenza Gatto:

Primo approdo: la diversità tra abrogazione e illegittimità costituzionale

«I fenomeni dell'abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, perché si pongono su piani diversi, discendono da competenze diverse e producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell'ordinamento giuridico, ed il secondo, invece, un evento di patologia normativa; in particolare, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo "ius superveniens", inficiano fin dall'origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata». (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260695)

Secondo approdo: la tangibilità del giudicato

«L'efficacia del giudicato penale nasce dalla necessità di certezza e stabilità giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale, sicché si esprime essenzialmente nel divieto di "bis in idem", e non implica l'immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona. (Conf. Corte cost. sentenze n. 115 del 1987, n. 267 del 1987, n. 282 del 1989)». (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260696)

Terzo approdo: il doveroso intervento del pubblico ministero e del giudice dell’esecuzione

«Quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest'ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento "correttivo" da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, o comunque derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l'applicazione di norme più favorevoli eventualmente "medio tempore" approvate dal legislatore». (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260697)

Al pubblico ministero, in ragione delle sue funzioni istituzionali, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, spetta il compito di richiedere al giudice dell'esecuzione l'eventuale rideterminazione della pena inflitta anche in applicazione dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., nel testo dichiarato costituzionalmente illegittimo, pur se il trattamento sanzionatorio sia già in corso di attuazione, e fino a quando questo non sia stato interamente eseguito. (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260699)

Quarto approdo: i poteri e i limiti di accertamento del giudice dell’esecuzione

«Il giudice dell'esecuzione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen., può affermare la prevalenza dell'attenuante anche compiendo attività di accertamento, sempre che tale valutazione non sia stata esclusa dal giudice della cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali; tuttavia, nel rideterminare la pena, deve attenersi ai limiti derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l'applicazione di norme più favorevoli eventualmente "medio tempore" approvate dal legislatore». (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260698)

3. Le questioni sul tappeto

La sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 solleva varie questioni che – solo per comodità descrittiva – possono essere definite “di diritto intertemporale” (posto che altro è la successione di leggi penali nel tempo, altro è l’accertamento della originaria illegittimità costituzionale di una norma penale). Alcune questioni sono “facili”, altre, viceversa, risultano molto complesse.

Ma seppure la sentenza Gatto affermi la “tangibilità” dei giudicati e abbia dipanato numerose questioni, essa non scioglie tutti i nodi. Le Sezioni unite – all’udienza del 26.2.2015 – sono state chiamate a risolvere almeno quattro problemi, che investono soprattutto tre profili:

a) quale spazio di intervento per la rideterminazione della pena per il giudice dell’esecuzione a fronte di sentenze irrevocabili;

b) quale la sorte delle sentenze non ancora irrevocabili a fronte di ricorsi per cassazione da dichiarare inammissibili;

c) quale la sorte dei processi per violazione dell’art. 73 DPR 309/90 relative a sostanze inserite nelle tabelle solo successivamente alla approvazione della legge n. 49/2006 (c.d. Fini – Giovanardi).

4. Le questioni “facili”. Le sostanze “tabellate” successivamente alla Fini-Giovanardi

È saggio cominciare dalle questioni facili. Un primo quesito sottoposto alle Sezioni unite è relativo alle sostanze inserite nelle tabelle solo dopo alla entrata in vigore della Fini – Giovanardi:

«Questione: Se, a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies-ter, del d.l. n. 272 del 2005, come modificato dalla legge n. 49 del 2006, pronunciata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 32 del 2014, debbono ritenersi penalmente rilevanti le condotte che, poste in essere a partire dall’entrata in vigore di detta legge e fino all’entrata in vigore del decreto legge n. 36 del 2014, abbiano avuto ad oggetto sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle solo successivamente all’entrata in vigore del d. P.R. n. 309 del 1990 nel testo novellato dalla richiamata legge n. 49 del 2006».

Decisione delle Sezioni unite: «Negativa»

Proviamo ad immaginare le ragioni di una simile decisione. Nella sentenza n. 32/2014, in motivazione (considerato in diritto, punto 5), la Consulta precisa:

«In considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede, per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate (…). Deve, dunque, ritenersi che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel d.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, torni ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo»

Sennonché – è noto (e basta guardare le note redazionali collocate nei codici in calce alle tabelle predisposte in applicazione degli artt. 13 e 14 D.P.R. n. 309/1990, “versione Fini-Giovanardi”) – dal 2006 al 2013 – numerosi decreti ministeriali hanno via via inserito nel corpo delle tabelle numerose sostanze, che, dunque, non erano contemplate nelle tabelle antecedenti (solo per indicarne alcune: la catina; la 4-fluoroamfetamina; 4-metilamfetamina; Amfepramone, e via seguitando).

Se – come chiaramente evidenzia la Consulta – le tabelle “versione Fini-Giovanardi” debbono ritenersi caducate e se è vero che «tornano a ricevere applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate», allora, l’effetto è chiaro: limitatamente alle sostanze non contemplate nelle “vecchie” tabelle (“versione Iervolino – Vassalli”) e, viceversa, contemplate nelle tabelle “versione Fini-Giovanardi”, la sentenza della Consulta ha la portata di una vera e propria declaratoria di incostituzionalità della fattispecie incriminatrice, con applicazione testuale dell’art. 673 c.p.p..

Ciò sulla base del postulato – reiteratamente affermato in giurisprudenza – secondo il quale «la definizione legislativa di sostanza stupefacente configura una qualificazione proveniente da fonte sub-primaria che integra la fattispecie penale» (così Sez. 4, n. 27771 del 14/04/2011 - dep. 14/07/2011, Cardoni, Rv. 250693). Se così è – e così è – la declaratoria di incostituzionalità della Fini – Giovanardi (e la caducazione delle relative tabelle) ha la portata (per le sostanze non contemplate nelle tabelle pre-Fini-Giovanardi) di una vera e propria declaratoria di illegittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice.

Per tutte:

«Non trova applicazione la normativa in materia di stupefacenti ove le condotte abbiano ad oggetto sostanze droganti non incluse nel catalogo di legge, perchè la nozione di sostanza stupefacente ha natura legale, nel senso che sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione solo le sostanze indicate nelle tabelle allegate al T.U. sugli stupefacenti. (La Suprema Corte ha precisato che la definizione legislativa di sostanza stupefacente configura una qualificazione proveniente da fonte subprimaria che integra la fattispecie penale, alla quale va applicato il principio di non retroattività)».  (Sez. 4, n. 27771 del 14/04/2011 - dep. 14/07/2011, Cardoni, Rv. 250693; in senso conforme, per es. Sez. 4, n. 20907 del 18/04/2005 - dep. 03/06/2005, Hassan ed altro, Rv. 231561; Sez. 6, n. 34072 del 23/06/2003 - dep. 08/08/2003, Hassan Osman, Rv. 226596)

Tuttavia, il ricorso alle Sezioni unite trova spiegazione nel fatto che anche una questione apparentemente facile ha rischiato di complicarsi non poco.

Il governo ha – con il d.l. n. 36/2014 – provato a “salvare” le scelte di criminalizzazione intervenute nel periodo compreso tra l’entrata in vigore della Fini-Giovanardi e la sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014 (sia per esigenze di “stabilità” del sistema sia in ossequio a ritenuti obblighi di penalizzazione assunti in sede internazionale relativamente a determinate sostanze). Basta leggere il preambolo del decreto per avere conferma di quanto appena evidenziato[1]. Coerentemente a tale premessa e a tale esigenza, l’art. 2 d.l. n. 36/2014, dispone[va] che:

art. 2. Efficacia degli atti amministrativi adottati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.

«A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto  continuano a produrre effetti gli atti amministrativi  adottati  sino  alla data di pubblicazione della sentenza della Corte  Costituzionale  n. 32 del 12 febbraio 2014, ai sensi del testo unico delle  leggi  in  materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di  tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della  Repubblica  9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni»

Il riferimento alla continuità degli effetti poneva evidenti problemi di legittimità costituzionale. Con una legge del 2014, si “salvavano” infatti atti amministrativi che, invece, con portata ex tunc, erano stati “eliminati” dall’ordinamento per effetto della sentenza della Consulta. La situazione è, in qualche misura assimilabile a quella oggetto di considerazione da Corte costituzionale sentenza n. 223 del 1983 (con legge si ripristinavano sostanzialmente gli effetti di una legge appena dichiarata illegittima dalla Consulta). Nella decisione appena citata si legge che

«la normativa "provvisoria" (…) restaura […] gli stessi criteri di commisurazione già dichiarati costituzionalmente illegittimi con la sent. n. 5 del 1980. Così facendo il legislatore, sebbene operando in via nominalmente provvisoria, ha fatto rivivere, nella sostanza, norme già divenute inefficaci, in conseguenza del loro annullamento da parte della Corte, ed ha quindi eluso il precetto contenuto nell'art. 136, comma 1, Cost. che gli impone di accettare la immediata cessazione dell'efficacia giuridica delle norme illegittime e non gli consente di "prolungarne la vita" fino all'entrata in vigore di una nuova disciplina del settore. La riproduzione di norme già  dichiarate illegittime, non compensata neppure da alcuna predeterminazione dell'indennità definitiva che garantisce il serio ristoro dei soggetti espropriati, non e` costituzionalmente legittima».

Sarebbe, però, stato forse necessario sollevare un incidente di legittimità costituzionale dell’art. 2 d.l. 36/2014, essendovi potenziale contrasto tra tale previsione e il divieto di retroattività delle “nuove” incriminazioni [il “forse” è giustificato dal fatto che una interpretazione costituzionalmente orientata avrebbe potuto essere fondata sul sibillino esordio dell’art. 2: «A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente (…)»].

Fortunatamente, almeno in questo caso, la questione è stata risolta tempestivamente e con chiarezza dallo stesso legislatore, che – convertendo il decreto – ha esplicitato la stessa volontà politica, disciplinando però in modo costituzionalmente legittimo gli effetti nel tempo di tale previsione

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto  ((riprendono)) a produrre effetti gli  atti  amministrativi  adottati  sino  alla  data  di  pubblicazione  della   sentenza   della   Corte  Costituzionale n. 32 del 12 febbraio 2014, ai sensi del  testo  unico  delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati  di  tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della  Repubblica  9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni.

((1-bis. Nei decreti applicativi del testo unico di cui al  decreto del Presidente della Repubblica 9  ottobre  1990,  n.  309,  adottati dalla data di entrata in vigore della legge 21 febbraio 2006, n.  49, fino  alla  data  di  pubblicazione  della   sentenza   della   Corte  costituzionale n. 32 del 12 febbraio 2014, ogni richiamo alla tabella  II e' da intendersi riferito alla  tabella  dei  medicinali,  di  cui all'allegato A al presente decreto)).

Sicché – giova ripeterlo - limitatamente alle sostanze non contemplate nelle “vecchie” tabelle e, viceversa, contemplate nelle tabelle “versione Fini-Giovanardi”, la sentenza della Consulta ha la portata di una vera e propria declaratoria di incostituzionalità della fattispecie incriminatrice; il che comporta due conseguenze:

1. nei giudizi pendenti, per le nuove sostanze – cioè quelle non previste nella versione delle tabelle anteriore alla Fini Giovanardi, ed inserite nelle tabelle con il d.l. 36/2014 – l’esito del giudizio dovrà essere assolutorio («perché il fatto non è previsto dalla legge come reato»), in forza del divieto di applicazione retroattiva delle fattispecie incriminatrici (essendo il fenomeno del ripristino degli effetti delle tabelle successive alla Fini Giovanardi da considerare a tutti gli effetti una nuova incriminazione);

2. nei giudizi definiti con sentenza irrevocabile, per le sostanze non previste nelle tabelle antecedenti all’entrata in vigore della Fini-Giovanardi, la sentenza dovrà essere revocata, con applicazione testuale dell’art. 673 c.p.p..

5. Le questioni meno facili: i poteri del giudice dell’esecuzione.

Occorre muovere dalla questione dei poteri del giudice dell’esecuzione. Data per ammessa – dopo la vicenda conclusa con le Sezioni unite Ercolano e con le Sezioni unite Gatto – la possibilità di intervenire sui giudicati si tratta di stabilire COME concretamente farlo. 

I due quesiti sottoposti alle Sezioni unite sul punto sono:

«A) se per i delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. 309 del 1990, in relazione alle droghe c.d. leggere, la pena applicata con sentenza di “patteggiamento” sulla base della normativa dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale debba essere rideterminata anche nel caso in cui la stessa rientri nella nuova cornice edittale applicabile;

B) se sia rilevabile d’ufficio, nel giudizio di cassazione, l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione d’incostituzionalità di norme attinenti al trattamento sanzionatorio, anche in caso di inammissibilità del ricorso»

La risposta delle Sezioni unite è stata affermativa in ambedue i casi.

Occorre provare a saggiare alcuni degli argomenti emersi nel dibattito che ha preceduto la decisione delle Sezioni unite. In esso sono state delineate tre possibili soluzioni:

  1. Prima soluzione possibile: ritenere «ineseguibile» la sola porzione di pena (divenuta) illegale a seguito dell’intervento della Consulta, in evidente assonanza con il decisum della Cassazione nel caso dell’incostituzionalità della c.d. aggravante della clandestinità (Sez. 1, n. 977 del 27/10/2011 - dep. 13/01/2012, P.M. in proc. Hauohu, Rv. 252062)[2].

Le ragioni “tecniche” per cui tale opzione non è stata condivisa dalle Sezioni unite le conosceremo leggendo le motivazioni. Qui preme, piuttosto, mettere in luce un dato – per così dire – “culturale”. Un approccio come quello sopra schematizzato lascia intravedere una fallacia: per non esercitare – in sede esecutiva – un potere arbitrario (ma perché non chiamarlo più semplicemente potere discrezionale?), si accetta di determinare una pena sostanzialmente in misura fissa, ricusando perfino di procedere a valutazioni che si muovano nel solco dei giudizi eventualmente formulati in sede di cognizione. Con il che si perde sia la valorizzazione dell’incidente di esecuzione, sia l’ossequio delle determinazioni assunte in sede di cognizione. E anche l’esito concreto di tale opzione interpretativa mi sembra discutibile, posto che essa determina la cristallizzazione delle sanzioni in misura fissa (determinando, a mio avviso,  un appiattimento generalizzato delle sanzioni “verso l’alto”, con conseguenti problemi di ragionevolezza e di possibile disparità di trattamento di non poco momento).

  1. Seconda possibilità: è quella che suggerisce (sempre nell’intenzione di contenere il più possibile l’area di intervento discrezionale del giudice dell’esecuzione) di “ricalcolare” la sanzione da applicare a seguito del mutato quadro edittale, in proporzione alla determinazione già assunta – in relazione al quadro edittale preso a riferimento (e però incostituzionale) – in sede di cognizione[3].

Tale prospettiva – anch’essa non condivisa dalle Sezioni unite – seppure abbia una sua indubbia razionalità, sembra sottovalutare un dato: la determinazione concreta della pena adottata in sede di cognizione è largamente influenzata dal fatto che il giudice della cognizione si è trovato a decidere nell’ambito di una certa cornice edittale (quella della Fini-Giovanardi); dichiarata l’incostituzionalità di quella cornice, non mi sembra del tutto ragionevole ritenere vincolanti – in sede esecutiva – le determinazioni del giudice della cognizione, trasferendo le stesse automaticamente nella diversa e rediviva cornice edittale (che, proprio perché diversa, può implicare diverse valutazioni). Il giudizio sulla congruità della pena – ferme le valutazioni del giudice della cognizione -  deve essere sempre un giudizio concreto; l’effetto pratico – in questo caso – rischierebbe di rivelarsi opposto a quello che precede (essendo fenomeno noto quello per cui, nel giudizio di merito, soprattutto nei casi relativi a droghe c.d. leggere, la determinazione della pena avveniva – data l’estrema severità della cornice edittale – in prossimità del minimo edittale; applicando un criterio puramente aritmetico proporzionale, in questo caso, si determinerebbe – a prescindere da qualsiasi valutazione specifica attinente al fatto concreto – un appiattimento verso il basso delle sanzioni).

  1. Terza possibilità: E, infine, in progressiva espansione dei poteri di valutazione e apprezzamento del giudice dell’esecuzione, viene in considerazione la possibilità che questi proceda autonomamente– sebbene nel rispetto delle valutazioni discrezionali del giudice della cognizione – alla rideterminazione della pena in sede esecutiva[4]

Si tratta dell’orientamento che, infine, sembra essere stato condiviso dalle Sezioni unite. Anche qui, per un giudizio tecnico, occorrerà leggere le motivazioni della sentenza. Qui si può solo mettere in evidenza un dato culturale; il tema che si colloca sullo sfondo è quello dell’ampiezza dei poteri del giudice dell’esecuzione. Già la Corte costituzionale, nella sentenza n. 96 del 1996 riconobbe che, con il “nuovo” codice di rito, il giudice dell’esecuzione era dotato di «più penetranti poteri (…) in puntuale coerenza con il processo di integrale giurisdizionalizzazione di ogni momento di tale fase, governata sulla traccia delle direttive contenute nell'art. 2, numeri 96, 97 e 98 della legge-delega, da un'accentuazione del rilievo del contraddittorio (v. anche la prima subdirettiva dell'art. 2, numero 3, della stessa legge-delega)».

Detto in altri termini, si tratta di una visione che vede il giudice dell’esecuzione impegnato nell’esercizio di una piena ed effettiva attività giurisdizionale; che – come tutte le attività giurisdizionali – implica l’esercizio di razionale discrezionalità; nella consapevolezza che discrezionalità non vuol dire arbitrio.

Si tratta di comprendere quali possibili linee guida debba seguire il giudice dell’esecuzione e di quali poteri egli disponga per rideterminare la pena (costituzionalmente illegittima) inflitta in sede di cognizione.

I poteri sono quelli delineati dall’art. 666, comma 5, c.p.p. («Il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno; se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio») e dall’art. 185 disp.att.c.p.p. («Il giudice, nell'assumere le prove a norma dell'articolo 666 comma 5 del codice, procede senza particolari formalità anche per quanto concerne la citazione e l'esame dei testimoni e l'espletamento della perizia»).

Dunque, i poteri – anche istruttori – del giudice dell’esecuzione sono, sulla carta molto ampi (se disponibile solo la sentenza e se questa – su qualche punto ritenuto di rilievo – tace, il GE potrà acquisire copia degli atti; in caso di “dubbi” sulla classificazione delle droghe “inserite” dalle tabelle previste dalla Fini-Giovanardi, il GE potrà addirittura disporre l’espletamento di una perizia).

I limiti, invece, sono quelli propri del giudice dell’esecuzione.

Il giudice dovrà, cioè, “rispettare” il giudicato (il giudizio di responsabilità penale; le circostanze aggravanti ed attenuanti ritenute sussistenti o escluse; l’esito del giudizio di bilanciamento tra le stesse; ecc.).

L’unico punto sul quale è accettabile che egli intervenga – ma, anche qua, cercando di “interpretare il giudicato”, senza tradirlo – è solo la determinazione del trattamento sanzionatorio, posto che tale operazione logica, in sede di cognizione è stata totalmente (o largamente) falsata dal quadro edittale di riferimento (come detto, risultato incostituzionale perché dettato da un legislatore che ha agito in carenza di potere).

Non è una prospettiva eretica. È – si ripete - esercizio pieno e responsabile della giurisdizione in sede esecutiva.

I giudici dell’esecuzione – in altri contesti – l’hanno già praticata e la praticano, senza che alcuno gridi allo scandalo o all’arbitrio. Un caso classico è quello dell’applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva (art. 671 c.p.p.). Qui il GE incide eccome sulla determinazione della pena inflitta in sede di cognizione.

Si potrebbe obiettare che si tratta di un caso esplicitamente tipizzato dal legislatore. E, allora, si può replicare opponendo un altro caso in cui – in assenza di esplicita previsione e con facoltà di intervento ricavata in via pretoria – il giudice dell’esecuzione provvede alla rideterminazione della pena. L’esempio è quello relativo alla necessità di provvedere alla rideterminazione della pena in sede esecutiva allorquando, per qualsivoglia ragione (abrogazione, incostituzionalità, amnistia o indulto, ecc.), si deve scindere un cumulo giuridico (e allorquando il giudice della cognizione non abbia applicato una delle norme più disapplicate del codice di rito: l’art. 533, comma 2, secondo periodo c.p.p.).  In casi simili, nessuno da tempo dubita più  – credo - del potere del giudice dell’esecuzione di rideterminare autonomamente la pena inflitta per un reato satellite (divenuto reato più grave, in seguito allo scioglimento del cumulo)[5].

5.1.  I poteri del giudice dell’esecuzione nelle sentenze di patteggiamento

Ma la questione demandata al giudizio delle Sezioni unite non era solo relativa alla possibilità di “rideterminare” la pena in misura discrezionale; le Sezioni unite erano investite di una ulteriore particolare questione, relativa alla rideterminazione della pena in caso di sentenze irrevocabili di patteggiamento.

Il quesito: « Se la pena applicata su richiesta delle parti per i delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle droghe c.d. leggere, con pronuncia divenuta irrevocabile prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014 debba essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione»

La soluzione: «Affermativa, con la precisazione che la pena deve essere rideterminata attraverso la "rinegoziazione" dell'accordo tra le parti, ratificato dal giudice dell'esecuzione, che viene interessato attraverso l'incidente di esecuzione attivato dal condannato o dal pubblico ministero; e che in caso di mancato accordo il giudice dell'esecuzione provvede alla rideterminazione della pena in base ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen.».

Anche qua, le opzioni possibili erano quattro:

(a) il giudice ridetermina la pena eliminando la sola porzione di pena divenuta illegale;

(b) il giudice ridetermina in automatico la pena in misura proporzionale all’accordo intervenuto in cognizione;

(c) il giudice ridetermina la pena nella misura che ritiene congrua;

(d) le parti stipulano un nuovo accordo sulla pena, rimettendone il recepimento al giudice dell’esecuzione.

Ma le parti – nel contraddittorio esecutivo – possono nuovamente accordarsi? È possibile?

Un dato normativo sembra effettivamente introdurre nel sistema processuale degli accordi negoziali sulla pena anche in sede esecutiva (cfr. art. 188 disp.att. c.p.p., relativo alla continuazione fra più sentenze di patteggiamento): in tali casi, il condannato e PM possono concordare l’entità della sanzione da applicare in sede esecutiva a titolo di continuazione fra più sentenze; e, in caso di disaccordo del PM, il giudice «se lo ritiene ingiustificato, accoglie ugualmente la richiesta».

È applicabile una simile disposizione ad un caso come il nostro? Certo non in via diretta (trattandosi di caso diverso); forse in via analogica (sussistendo una lacuna ed essendovi una eadem ratio). Si tratta della soluzione già percorsa dal Tribunale di Torino, 6 agosto 2014, giud. Natale, Tribunale Torino, 16 settembre 2014, giud. Arata, cit.. Stando all’informazione provvisoria, le Sezioni unite hanno condiviso quest’ultima soluzione.

In questa prospettiva, i punti problematici sono, nella sostanza, due:

(a) nel caso in cui il condannato non sia detenuto e non sia comparso all’udienza fissata per l’incidente di esecuzione, è necessario (ove l’interessato non compaia personalmente) che il difensore abbia una procura speciale per accordarsi sulla pena? Sembrerebbe di dovere rispondere affermativamente, posto che – in difetto di tale procura – non si comprende come il difensore possa stipulare un accordo con il pubblico ministero avente ad oggetto la libertà personale di un’altra persona.

(b) Ma che dire, allora, dei casi di incidenti di esecuzione (doverosamente) attivati dal PM e relativi ad imputati – di fatto o di diritto – irreperibili? Come può il loro difensore dotarsi di procura speciale? E, ancora: è possibile ipotizzare il caso in cui l’accordo sulla pena non si perfezioni non per il dissenso del PM, ma per il mancato consenso del condannato. E che fare in questo caso? A me sembra che l’unica soluzione possibile sia – a questo punto – quella di consentire al giudice di provvedere alla rideterminazione della pena a prescindere da un accordo negoziale sulla stessa (che è impossibile nella situazione sopra descritta).

L’informazione provvisoria relativa alla decisione delle sezioni unite mi sembra vada in questa direzione («in caso di mancato accordo il giudice dell'esecuzione provvede alla rideterminazione della pena in base ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen.»).

5.2. La sorte delle condanne non irrevocabili pendenti in cassazione con ricorsi inammissibili

Come anticipato, altra questione demandata alle Sezioni unite era la seguente: «se sia rilevabile d’ufficio, nel giudizio di cassazione, l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione d’incostituzionalità di norme attinenti al trattamento sanzionatorio, anche in caso di inammissibilità del ricorso».

La soluzione delle Sezioni unite è stata affermativa.

Anche qua leggeremo le motivazioni per avere risposte “tecniche”. Qui basti dire che un simile approdo ermeneutico è di puro buon senso e risponde ad elementari canoni di economia processuale (diversamente opinando, la sequenza sarebbe questa: si dovrebbe dichiarare inammissibile il ricorso; far diventare esecutiva la sentenza, con la “pena illegale”; attendere poi la celebrazione dell’incidente di esecuzione per riportare la pena a legalità; ben più ragionevole un annullamento con rinvio).

Del resto, è la stessa soluzione già adottata dalla Cassazione in casi che – per certi versi – sono assimilabili [per esempio, « L'inammissibilità originaria dell'impugnazione, per la genericità e la manifesta infondatezza dei motivi, consente soltanto il rilievo della "abolitio criminis" o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice oggetto dell'imputazione, precludendo il rilievo d'ufficio di ogni altra questione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto preclusa dall'inammissibilità originaria del ricorso per cassazione la rilevabilità di questioni di competenza ex art. 21 cod. proc. pen. e di una sopravvenuta favorevole "mutatio legis")», Sez. 4, n. 25644 del 21/05/2008 - dep. 24/06/2008, Gironi, Rv. 240848; o, anche, sulla rilevabilità – pur in presenza di ricorso inammissibile – del contrasto tra fattispecie incriminatrice e normativa UE dotata di effetto diretto, cfr. Sez. 1, n. 38224 del 26/09/2011 - dep. 24/10/2011, Ajayi, Rv. 251172].

6. Alcune questioni non affrontate dalle Sezioni unite: le sospensioni condizionali non riconosciute

Altro problema è quello relativo al fatto che – mutato il quadro edittale di riferimento – il condannato potrebbe dolersi della mancata concessione della sospensione condizionale della pena (in allora non concedibile per ragioni di quadro edittale e, oggi, in astratto, sì).

Può il giudice dell’esecuzione riconoscere tale beneficio in sede esecutiva? Ammettendo che lo strumento processuale utilizzabile nel caso di specie sia quello dell’art. 673 c.p.p. si dovrebbe dare una risposta positiva al quesito (posto che – nei casi previsti dall’art. 673 c.p.p. – il giudice, revocata la condanna [e, nel nostro caso, rideterminata la pena], «adotta i provvedimenti conseguenti»). Del resto – in caso di abolitio criminis “secca”, le Sezioni Unite avevano già dato risposta positiva ad un simile quesito.

Il giudice dell'esecuzione, qualora, in applicazione dell'art. 673 cod. proc. pen., pronunci per intervenuta "abolitio criminis" ordinanza di revoca di precedenti condanne, le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna, può, nell'ambito dei "provvedimenti conseguenti" alla suddetta pronuncia, concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall'art. 164, comma primo, cod. pen., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti.  (Sez. U, n. 4687 del 20/12/2005 - dep. 06/02/2006, Catanzaro, Rv. 232610).

Tuttavia, la “base legale” per rideterminare la pena in caso di accertata incostituzionalità del trattamento sanzionatorio (e non della intera fattispecie incriminatrice) è secondo la sentenza Gatto da individuare non nell’art. 673 c.p.p. (che contiene il riferimento all’adozione dei «provvedimenti conseguenti»), bensì nell’art. 30, commi 3 e 4, legge n. 87 del 1953[6], che non contempla esplicitamente una simile possibilità.

Ovviamente – nel caso si ritenga in linea astratta di potere provvedere alla concessione della sospensione condizionale, quale provvedimento conseguente alla rideterminazione della pena – tale possibilità deve ritenersi comunque preclusa allorquando in sede di cognizione – al di là della misura della pena – la sospensione condizionale della pena non sia stata riconosciuta per altre ragioni (ad es. per ritenuto pericolo di recidivanza, incompatibile con il beneficio). In tal caso, il giudice dell’esecuzione non potrà far altro che rispettare il giudicato[7].

7. Altre questioni (più semplici).

7.1. La rideterminazione delle pene inflitte per i c.d. reati satellite

Si tratta di questione affrontata dalle Sezioni unite e la cui soluzione – in realtà – costituisce il logico corollario dei principi già esaminati relativamente alle questioni che precedono:

la questione «Se l'aumento di pena irrogato a titolo di continuazione per i delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle “droghe leggere”, quando gli stessi costituiscono reati-satellite, debba essere oggetto di specifica rivalutazione alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per tali violazioni in conseguenza della reviviscenza della precedente disciplina determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014».

La soluzione: affermativa.

7.2.  Gli incidenti di esecuzione relativi alla detenzione di droghe pesanti e alla detenzione di droghe pesanti e leggere. 

Data per possibile la rideterminazione delle pene inflitte con sentenze passate in giudicato, occorre chiedersi se tale possibilità – che si fonda sul presupposto di un effetto favorevole per il condannato -  ricorra in tutte le situazioni logicamente ipotizzabili. Occorre distinguere tre situazioni:

1. La reviviscenza del testo dell’art. 73 DPR 309/90 “versione Jervolino-Vassalli” è sicuramente più favorevole nei casi di detenzione di droghe leggere (si tratti di fatti lievi o non lievi).

2. La reviviscenza del testo dell’art. 73 DPR 309/90 “versione Jervolino-Vassalli” è  neutra (per la pena detentiva) e favorevole (per la pena pecuniaria) nel caso di condanne relative a detenzione di droghe c.d. pesanti; per le droghe c.d. pesanti, la pena detentiva (che risulta uguale nella versione frutto della novella del 2006 e nella versione originaria c.d. Jervolino Vassalli, reviviscente a seguito della predetta sentenza della Consulta) è immutata (per i casi di cui al comma 5) e più sfavorevole (per i casi di cui al comma 1). L’unico effetto favorevole potrebbe essere connesso ad un diverso quadro edittale previsto per le pene pecuniarie (lievemente più favorevole)[8]. Il che rende ammissibili le richieste di celebrazione di incidenti di esecuzione, ma, tutto sommato, poco rilevanti sul piano della libertà personale.

3. La reviviscenza del testo dell’art. 73 DPR 309/90 “versione Jervolino-Vassalli” è sicuramente sfavorevole nei casi di simultanea detenzione di droghe leggere e droghe pesanti. Il che determina la inammissibilità del ricorso promosso davanti al giudice dell’esecuzione (decretabile de plano per manifesta insussistenza delle condizioni di legge).

La ragione di ordine sostanziale che costituisce ostacolo alla rideterminazione della pena della sentenza di condanna in esame è da rinvenire nel fatto che i casi di detenzione di sostanze stupefacenti che – nella versione dell’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 “reviviscente” – erano inserite in due diverse tabelle integravano una pluralità di reati. Secondo la giurisprudenza consolidata «la simultanea illecita detenzione di più sostanze stupefacenti dà luogo a distinte fattispecie criminose, ai sensi delle disposizioni dell'art. 73 D.P.R. n.309/90 solo allorché dette sostanze non appartengono alla medesima tabella o al medesimo gruppo omogeneo di tabelle. In tale caso, le distinte ipotesi di reato, ricorrendone i presupposti, possono essere unificate sotto il vincolo della continuazione e del concorso formale»  (tra le molte, Sez. 6, n. 12153 del 10/10/1994 - dep. 01/12/1994, Napoli ed altro, Rv. 200068).

E, allora, calando al caso in esame un simile principio di diritto, la conseguenza sarebbe quella per cui – ove si applicasse la versione dell’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 “reviviscente” – il condannato dovrebbe rispondere (con effetto per lui sfavorevole) non di uno, ma di due reati. Sicché non si deve provvedere alla rideterminazione della pena, poiché, «in ossequio al principio della irretroattività della legge penale meno favorevole, la norma incriminatrice dichiarata incostituzionale può continuare a trovare applicazione per le condotte realizzate nel corso della sua vigenza, ove la sua disciplina conduca in concreto ad un trattamento più favorevole per l'imputato». (così  Sez. 4, n. 44808 del 26/09/2014 - dep. 27/10/2014, Madani e altro, Rv. 260735, che, in applicazione del principio sovra esposto ha ritenuto validamente applicato l'art. 73, comma primo, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella versione c.d. Fini – Giovanardi che, sebbene dichiarata incostituzionale, risultava in concreto più favorevole, in quanto, equiparando le droghe leggere a quelle pesanti, impediva la configurabilità di più reati in relazione a condotta di detenzione simultanea sia delle une che delle altre). 

8. La sorte degli incidenti di esecuzione già risolti in senso difforme da quanto oggi statuito dalle Sezioni unite

Un tema che – inevitabilmente –si proporrà nel prossimo futuro è il seguente: quale sorte per gli incidenti di esecuzione conclusi con un rigetto della domanda per (erroneamente ritenuta) intangibilità del giudicato? E quale la sorte per gli incidenti di esecuzione risolti in senso diverso da quello oggi proposto dalle Sezioni unite[9]?

Una possibile risposta è offerta – ancora una volta – dalle Sezioni unite in una nota sentenza di qualche anno fa. Qui basta citare il principio di diritto probabilmente rilevante e che, però, dovrebbe essere adattato in via interpretativa al caso ora considerato:

«Il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell'indulto in precedenza rigettata. (La Corte ha precisato che tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il cui art. 7, come interpretato dalle Corti europee, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale)». (Sez. U, n. 18288 del 21/01/2010 - dep. 13/05/2010, P.G. in proc. Beschi, Rv. 246651).

Cercando di calare quei principi nel caso ora ipotizzato, si dovrebbe sicuramente ritenere proponibile e ammissibile un nuovo ricorso a seguito di un precedente rigetto di richiesta di rideterminazione pena in esecuzione, fondando la “nuova” domanda sul mutato assetto giurisprudenziale.

Più problematico il caso in cui il giudice dell’esecuzione abbia già rideterminato la pena (facendo applicazione di un metodo di “ricalcolo” diverso da quello oggi adottato dalle Sezioni unite e, in tesi, più sfavorevole al condannato).

Sul punto, trattandosi di un commento a caldo, non azzardo soluzioni, limitandomi ad evidenziare il problema.

9. Quale sorte per le sentenze di condanna divenute (erroneamente) irrevocabili per inammissibilità del ricorso in Cassazione?

Infine, il tema più spinoso. Si dia il caso di una sentenza di merito che applicava una pena (illegale e più sfavorevole) nel quadro edittale dettato dalla Fini-Giovanardi; si ipotizzi che quella sentenza che applicava una pena illegale sia divenuta irrevocabile per inammissibilità del ricorso in Cassazione, essendosi (erroneamente) la Corte “rifiutata” di annullare con rinvio la sentenza di merito. Si ipotizzi – ancora – che il momento di formazione del giudicato sia collocabile dopo la pubblicazione della sentenza della Consulta n. 32 del 2014.

È quel giudicato “rivisitabile” in sede esecutiva?

Al caso in esame non è applicabile il principio di diritto considerato nella sentenza delle Sezioni unite n. 18288 del 2010, Beschi, appena citata (poiché relativo al tema di mutamenti giurisprudenziali integralmente determinatisi in una successione di incidenti di esecuzione). E, anzi, il caso in esame sembra maggiormente assimilabile a quello considerato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2012 (che – seppure in diverso contesto – ritenne intangibile un giudicato formatosi su una erronea interpretazione di una novella legislativa, poco dopo sconfessata dalle Sezioni unite, che ritennero che quella novella avesse portata abrogativa della fattispecie incriminatrice per cui invece una persona era stata condannata).

Un simile scenario (si auspica, statisticamente irrilevante, ma probabilmente storicamente esistente) comporta la formazione di un giudicato con pena illegale e il rischio che quel giudicato possa essere ritenuto intangibile.

Esiste un rimedio?

Non ho, al momento, risposte. Ma per un primo commento a caldo, forse, è sufficiente cominciare a sollevare il problema. Pensiamoci…

 

 


[1] «(…) Considerato che  la  citata  pronuncia  di  incostituzionalita'  e'  fondata  sul   ravvisato   vizio   procedurale  […]; Considerato che  la  citata  pronuncia  di  incostituzionalita'  ha  determinato, anche in ragione della dichiarata  applicabilita'  delle disposizioni vigenti prima dell'intervento di modifica  di  cui  alla  citata legge 21 febbraio 2006, n. 49, una  situazione  di  incertezza  giuridica in ordine alla validita' di tutti gli atti  adottati  sulla  base delle norme contenute nel testo  unico,  come  modificato  dalle  norme censurate […]; Considerato, in  particolare,  che  la  caducazione  delle  tabelle  introdotte dagli articoli 4-bis e 4-vicies-ter, del decreto-legge  30  dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla legge  21  febbraio  2006,  n.  49,  con  i  relativi  aggiornamenti,  determina  l'effetto  di  escludere  dal  novero  delle  sostanze  sottoposte  a  controllo del Ministero della salute tutte le sostanze  sottoposte  a  controllo in attuazione di convenzioni  internazionali  […]; Ritenuta la straordinaria necessita' ed urgenza  di  assicurare  la  continuita' della sottoposizione al  controllo  del  Ministero  della  salute delle  predette  sostanze  e  il  rispetto  delle  convenzioni  internazionali in base alle quali sono state aggiornate  le  relative  tabelle, nonche'  la  continuita'  e  la  funzionalita'  dell'assetto  autorizzativo, distributivo e  di  prescrizione  e  dispensazione  di  medicinali, determinatosi in attuazione della  disciplina  recata  in  materia dalle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime; Ritenuta  pertanto  la  straordinaria  necessita'  ed  urgenza   di  ripristinare, a tutela  della  salute  pubblica  e  dell'esigenza  di   certezza giuridica, la disciplina  normativa  vigente  alla  data  di  pubblicazione  della  citata  sentenza  della  Corte  costituzionale,  garantendo contestualmente, a decorrere  dalla  data  di  entrata  in  vigore del presente decreto, la continuita' degli effetti degli  atti  amministrativi  adottati  sino  alla  data  di  pubblicazione   della  sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 12  febbraio  2014,  ai  sensi del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990,  n.  309, e successive modificazioni […]».

[2] Alcune decisioni di legittimità si sono espresse in tal senso; anche in sede di merito un simile approccio aveva trovato seguito; il Tribunale di Milano, in funzione di giudice dell’esecuzione – dopo avere bene ricostruito (ancor prima della sentenza Gatto) le ragioni per le quali si riteneva possibile incidere sul giudicato – ha limitato la possibilità di intervento del giudice dell’esecuzione alla sola “riconduzione all’alveo normativo legale” della pena inflitta con la sentenza irrevocabile; infatti – ritiene il GE di Milano – «il giudice dell’esecuzione (…) deve limitarsi a riportare la pena nell’alveo edittale di cui all’art. 73, comma 4, DPR 309/90, pertanto nei limiti della legalità, ricalcolando la pena stessa secondo questo principio»; infatti «una illimitata possibilità di intervenire sulla valutazione della pena di cui alla sentenza comporterebbe una inaccettabile e arbitraria violazione del giudicato» (…); «Né possono valere considerazioni quali l’applicazione nella sentenza in oggetto del minimo della pena, o di poco superiore al minimo (minimo che costituisce per la normativa vigente, il massimo edittale): invero non è dato effettuare valutazioni, se non arbitrarie, sulle ragioni che determinarono quella scelta, e dunque il giudice dell’esecuzione non è certo tenuto a rimodulare la pena attestandosi nei pressi del minimo edittale attualmente previsto» (Trib. Milano, Sez. XI pen., ord. 3 aprile 2014, Giud. Cotta, in www.penalecontemporaneo.it , con nota di Canzian, Il (superato) limite del giudicato e l’ampiezza dei poteri del giudice dell’esecuzione a fronte dell’incostituzionalità della cornice edittale: prime pronunce a seguito della sent. n. 32/2014, consultato il 3 giugno 2014).

[3] Per esempio, il Tribunale di Rovigo (Tribunale di Rovigo, ordinanza del 28 marzo 2014, giudice Mondaini) – dopo una davvero pregevole ricostruzione delle ragioni per cui si può intervenire sui giudicati – scrive: «In altri termini se la pena recata da una sentenza di condanna, per la sua entità, va collocata in un punto preciso dello spettro edittale, una volta modificatolo (“in melius”) per l’intervento di una legge sopravvenuta (ma anche per la reviviscenza della “lex anterior” per l’effetto della declaratoria di incostituzionalità), consegue che la rideterminazione della pena non possa compiersi in altro modo che collocandola all’interno del nuovo e più favorevole ventaglio nella stessa posizione che occupava nel precedente. Per far questo occorre quindi ristabilire le stesse proporzioni (o, in altre parole, collocare la nuova pena nella stessa posizione ma tra i nuovi minimo e massimo) della sentenza di condanna nell’ambito dei nuovi parametri edittali. E tale rideterminazione deve estendersi, in caso di concorrenza di circostanze e di opzioni rituali, anche all’entità frazionaria degli aumenti e delle diminuzioni già operati in sede di cognizione». (in senso conforme, Tribunale di Mantova, uff. GIP, ordinanza del 3.6.2014, giud. Grimaldi).

[4] In tal senso, si sono espressi, il Tribunale Trento [Sez. Incidenti esecuzione, 18 aprile 2014, (ord.) Giud. Ancona, in www.penalecontemporaneo.it , con nota di Canzian, Il (superato) limite del giudicato, cit., consultato il 3.6.2014] e dal Tribunale di Pisa [ord. 15.4.2014, giud. Bufardeci, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Ubiali, Dichiarazione di incostituzionalità della disposizione più sfavorevole: il giudice dell’esecuzione ricalcola la pena (11.5.2014), consultato il 3.6.2014)], il Tribunale di Torino, 6 agosto 2014, giud. Natale, Tribunale Torino, 16 settembre 2014, giud. Arata [pubblicata su questa rivista], Tribunale di Trento, 5 dicembre 2014 (Dies), GIP Perugia (Semeraro), 16 novembre 2014 [ambedue pubblicate su questa rivista il 9 dicembre 2014].

[5] Varie decisioni di legittimità si attestano su tale linea interpretativa (per esempio, Sez. 5, n. 12233 del 24/02/2004 - dep. 15/03/2004, Orlando, Rv. 228762, Sez. 1, n. 18872 del 29/03/2007 - dep. 16/05/2007, Pasimeni, Rv. 237364, Sez. 3, n. 7667 del 16/02/2002 - dep. 27/02/2002, P.M. in c. Congedo, Rv. 221103, Sez. 1, n. 1412 del 07/03/1995 - dep. 12/04/1995, Parisi, Rv. 200920, tutte relative a “rideterminazione delle pene” in sede esecutiva a seguito di scioglimenti di cumuli giuridici in cui uno dei reati era stato oggetto di abolitio criminis).

[6] Questo il testo dell’art. 30, commi 3 e 4:  «Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali».

[7] La giurisprudenza di merito si è già espressa in favore della concedibilità della sospensione condizionale dopo la rideterminazione della pena; in tal senso, v. il già citato provvedimento del GIP di Perugia.

[8] Per esempio, nell’art. 73, comma 5, DPR 309/90 versione Jervolino Vassali, la cornice edittale di riferimento è, dunque, quella di una pena compresa tra uno e sei anni di reclusione e tra euro 2.582 ed euro 25.822 di multa. 

[9] Il tema rileva, evidentemente, solo nel caso di incidenti di esecuzione che sono stati risolti in senso deteriore rispetto a quello che il condannato si sarebbe visto applicare aderendo all’orientamento oggi espresso dalle Sezioni unite (quelli verosimilmente risolti con la sola eliminazione della “pena eccedente” quella “legale-reviviscente”).

 

28/02/2015
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