La decisione della Corte d’Appello di Milano che si commenta presenta diversi profili di interesse: essa affronta in primo luogo il complesso tema del rapporto tra il rito specifico dei licenziamenti introdotto dalla L. 92/2012 e il rito speciale in materia di discriminazioni oggi disciplinato dall’art. 28 del D.L.vo 150/2011, e soprattutto costituisce una delle prime (a quanto consta) ipotesi di disapplicazione di una norma di legge nazionale in un giudizio tra privati da parte del giudice ordinario, per contrasto con un principio generale di diritto dell’Unione.
Nella fattispecie portata all’esame della Corte milanese, infatti, il lavoratore aveva agito ex art. 28 del D.L.vo 150/2011, lamentando la natura discriminatoria della sua assunzione con contratto di lavoro intermittente, in quanto avvenuta, a norma dell’art. 34 del D.Lvo 276/2003 nel testo all’epoca vigente, in ragione della sola condizione della sua età anagrafica, e comunque della determinazione datoriale di porre termine alla relazione negoziale in dipendenza del compimento dell’età massima (25 anni) di accesso al tipo contrattuale previsto dalla legge.
Aveva quindi richiesto la cessazione del comportamento discriminatorio e la rimozione dei relativi effetti, a mezzo dell’accertamento dell’esistenza tra le parti di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e della declaratoria di nullità/inefficacia del recesso, con condanna della società a riammetterlo in servizio, ex art. 18 della L. 300/1970, o quale sanzione di diritto comune in ogni caso necessaria all’eliminazione degli effetti della discriminazione lamentata.
Il Tribunale aveva tuttavia ritenuto improponibili le domande di accertamento della nullità/inefficacia del licenziamento, assumendo la loro proponibilità necessaria nelle forme del rito specifico introdotto dalla L. 92/2012 (che avrebbe implicitamente abrogato, per la materia del licenziamento discriminatorio, l’art. 4 del D.L.vo 216/20013, richiamato dall’art. 28 del decreto legislativo sulla semplificazione dei riti) e respinto le altre domande, ritenendo il trattamento differenziato previsto dall’art. 34 del D.Lvo 276/2003 rispondente alla finalità legittima di agevolare l’assunzione di lavoratori giovani e giustificato dalle attuali difficoltà del mercato del lavoro.
Riformando integralmente la decisione impugnata la Corte rileva in primo luogo come l’attore chiedesse la declaratoria di nullità/inefficacia del licenziamento, non in via autonoma, ma quale conseguenza del previo accertamento della discriminazione e quale misura necessaria alla rimozione della situazione illecita, così dandosi una situazione del tutto analoga a quella dell’azione ex art. 28 della L. 300/1970 in cui il comportamento antisindacale lamentato sia costituito dal licenziamento di un determinato lavoratore e la rimozione degli effetti della condotta vietata realizzata a mezzo della riammissione del lavoratore in servizio.
Coerentemente quindi il collegio finisce per escludere che nella specie fosse stata azionata una “domanda avente per oggetto l’impugnazione del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 St. Lav.” (di cui dice la L. 92/2012), il ripristino della funzionalità del rapporto costituendo non l’oggetto immediato della pretesa, ma lo strumento, in concreto necessario, ma in ipotesi non esclusivo, per l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli della discriminazione.
Del tutto condivisibile la conclusione così raggiunta, ne segue più generalmente l’affermazione della perdurante agibilità del rito antidiscriminatorio anche ove la condotta vietata sia costituita da un licenziamento, con conseguenze di rilievo particolarmente in materia di discriminazione di genere, in considerazione della legittimazione a denunciarle in giudizio riconosciuta dalla legge anche alle consigliere di parità, soggetti terzi rispetto al lavoratore o alla lavoratrice interessati.
E’ noto infatti come, in materia di discriminazione di genere, gli artt. 36, 37 e 38 del D.Lvo 198/2006 attribuiscano alle consigliere di parità una specifica legittimazione processuale, consentendo loro di agire in via esclusiva al fine di far cessare e rimuovere gli effetti di discriminazioni collettive, ma anche, nelle discriminazioni che coinvolgano singoli lavoratori o lavoratrici, di promuovere il giudizio “su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima”, e ciò sia azionando un ordinario giudizio di cognizione, sia avvalendosi di una speciale rito sommario.
Si tratta di facoltà che possono darsi astrattamente in confronto di qualsiasi atto discriminatorio, compreso il licenziamento, che nessun dato normativo autorizza a dire precluse dall’introduzione del rito specifico ex lege 92/2012, e che concorrono con quelle riconosciute in via generale al lavoratore e alla lavoratrice interessati di impugnare l’atto lesivo.
D’altra parte, nel caso in cui si assuma essersi realizzata la discriminazione a mezzo di un licenziamento, la peculiare natura bifasica del processo regolato dalla L. 92/2012 non consente sicuramente la riunione con controversie introdotte nel rito ordinario delle cause di lavoro e previdenza, quale in via generale dovrebbero essere quelle promosse dalla consigliera ex art. 37 del D.L.vo 198/2006, una tale impossibilità dandosi ancor più per il caso venga prescelta dalla parte pubblica l’azione a mezzo del procedimento sommario previsto dall’art. 38 dello stesso decreto legislativo.
Così che, ove non si ritenesse più accessibile al lavoratore o alla lavoratrice il procedimento contro le discriminazioni di cui agli artt. 36 e seguenti del D.Lvo 198/2006 quando la discriminazione sia rappresentata da un licenziamento, l’impugnazione del recesso da parte del singolo interessato e l’azione dell’organo pubblico diretta a far valere il suo proprio diritto al risarcimento del danno o alla rimozione delle discriminazioni che abbiano in ipotesi coinvolto anche altri lavoratori o lavoratrici dovrebbero di necessità procedere separati, con conseguente rischio di un contrasto teorico (seppure non pratico) di giudicati.
In contrario ritenendo, come nella decisione in commento, ancora esperibile il procedimento contro le discriminazioni anche dal lavoratore e anche per il caso l’atto impugnato sia un licenziamento, l’azione individuale e l’azione della parte pubblica che agisca in via autonoma potranno essere cumulate nelle forme del rito speciale contro le discriminazioni, con vantaggio sia per l’uniformità delle decisioni, sia per la completezza dell’accertamento del fatto, che potrà giovarsi dell’apporto degli strumenti conoscitivi a disposizione delle consigliere di parità.
Ma la decisione della Corte d’Appello di Milano si segnala soprattutto per avere dato applicazione diretta orizzontale (quindi nei rapporti interprivati) ad un principio generale di diritto comunitario (nella specie il divieto di discriminazione per età), disapplicando la normativa nazionale ritenuta contrastante con il divieto.
La Corte milanese chiarisce infatti essere avvenuta l’assunzione del ricorrente con contratto di lavoro intermittente in base alla previsione dell’art. 34 del D.Lvo 276/2003, che all’epoca dei fatti consentiva l’accesso a detta forma contrattuale in via generale “per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per il periodo predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno ai sensi dell'articolo 37”. Era poi il secondo comma della disposizione a prevedere che ”il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età anche pensionati...."
La norma (successivamente modificata dalla L. 92/2012) era allora al momento dei fatti inequivoca nel consentire l’assunzione, con un contratto di lavoro certamente pregiudizievole rispetto a quello ordinario a tempo indeterminato, di lavoratori in funzione esclusivamente della loro età, per far fronte ad esigenze produttive ed organizzative non necessariamente intermittenti e discontinue (e quindi necessariamente anche ordinarie e durevoli, come tali astrattamente idonee a giustificare assunzioni a tempo indeterminato).
Un regime differenziato che la Corte ha ritenuto contrastare con il divieto di discriminazione per età contenuto nella direttiva 2000/78, dipendendo il trattamento pregiudizievole dal solo dato anagrafico, senza che una qualsiasi altra condizione soggettiva (per esempio la disoccupazione di lunga durata o l’assenza di specifica formazione professionale) valga a circoscrivere il novero dei lavoratori interessati, così da rendere esplicito il perseguimento di finalità legittime (in ipotesi di promozione dell’occupazione di particolari categorie di lavoratori svantaggiati).
E ciò in contrasto con l’art. 6 della direttiva che esclude che le disparità di trattamento in ragione dell'età costituiscano discriminazione solo “laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.
Una conclusione cui il giudice perviene facendo piana applicazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nella sentenza Mangold (22.5.05 causa C-144/04), che, in un caso per molti versi analogo a quello in esame, aveva ritenuto contrastante con il divieto di discriminazione una disciplina nazionale che “considera l’età del lavoratore …come unico criterio di applicazione di un contratto di lavoro a tempo determinato, senza che sia stato dimostrato che la fissazione di un limite di età, in quanto tale, indipendentemente da ogni altra considerazione legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e dalla situazione personale dell’interessato, sia obiettivamente necessaria per la realizzazione dell’obiettivo dell’inserimento professionale dei lavoratori anziani in disoccupazione”, così la legge in questione dovendo “considerarsi eccedente in quanto è appropriato e necessario per raggiungere la finalità perseguita”.
Affermato il contrasto della disciplina nazionale con la fonte superprimaria, la Corte affronta quindi il nodo centrale dell’efficacia del precetto affermato dal diritto dell’Unione nella relazione negoziale sottoposta al suo esame, una questione di grande complessità per essere all’evidenza la condotta del privato autorizzata dalla disciplina nazionale assunta in violazione del divieto di discriminazione.
Viene qui all’esame del giudice nazionale la questione, ancora in larga parte irrisolta, ma cruciale, dell’efficacia nell’ordinamento interno dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione, postasi particolarmente in esito alla riformulazione dell’art. 6 del TUE, introdotta dal Trattato di Lisbona entrato in vigore l’1 dicembre 2009, che ha affermato l’assimilazione ai Trattati della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ed espressamente qualificato come principi generali dell’Unione i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri.
Già prima del 2009 peraltro il tema si era affacciato prepontemente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, che con la sentenza Mangold, già menzionata ad altri fini, aveva ritenuto la parità di trattamento imposta dalla direttiva 2000/78 espressione del più generale principio di non discriminazione in ragione dell’età, affermando di quest’ultimo la natura di principio generale del diritto della UE con piena efficacia diretta verticale ed orizzontale.
Con ogni conseguenza quanto al potere-dovere del giudice nazionale di assicurare al singolo la tutela riconosciutagli dall’ordinamento dell’Unione disapplicando la normativa nazionale confliggente con quel principio anche ove essa fosse invocata nei rapporti interprivati (come nel caso Mangold e come nel presente).
La Corte ha confermato poi questo orientamento con la sentenza Kücükdeveci (richiamata anche dalla decisione in commento), nella quale ha fatto esplicito richiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea come recepita dall’art. 6 del TUE, per affermare la natura di principio fondamentale del divieto di discriminazione (come riconosciuto dall’art. 21 della Carta), principio di cui il giudice nazionale deve garantire la piena efficacia disapplicando la norma nazionale che con esso eventualmente confligga, e ciò seppure il diritto nazionale gli imporrebbe di previamente adire la sua Corte Costituzionale.
E così ha operato la Corte milanese, negando efficacia anche nel rapporto tra privati oggetto della sua decisione alla disposizione di diritto interno contrastante con il principio di non discriminazione per età.
Si tratta all’evidenza di una soluzione, più che autorizzata, imposta dalla fonte superprimaria e che conferma la centralità nel diritto dell’Unione del principio di non discriminazione, e la sua trasversalità, l’attitudine a vincolare l’interpretazione giudiziale anche nelle materie non direttamente toccate dalla normazione dell’Unione.
D’altra parte non possono trascurarsi le conseguenze di sistema cui segue l’affermazione, da parte della Corte di Giustizia, dell’esistenza di principi di diritto dell’Unione idonei ad avere generale e diretta applicazione negli ordinamenti degli Stati membri (quindi anche nei rapporti inter privati), in ordinamenti come il nostro fondati sulla rigidità della Costituzione garantita da un sindacato di legittimità costituzionale accentrato.
Infatti il giudice, al quale il nostro ordinamento preclude la disapplicazione della legge sospetta di incostituzionalità, obbligandolo a investire della questione la Corte costituzionale, potrebbe sulla base di valutazioni anche non dissimili invece disapplicare direttamente la legge per contrasto con i principi di diritto dell’Unione (il principio di non discriminazione allo stato, ma eventualmente altri principi fondamentali ove il giudice dell’Unione ne affermi l’esistenza e vincolatività), e ciò non solo in confronto ed in danno del soggetto, lo Stato, cui deve riferirsi l’inesatta applicazione del principio, ma anche nei rapporti tra i cittadini, apparentemente regolati dalla norma nazionale illegittima.
I rischi di un simile sistema diffuso di controllo della compatibilità delle norme a principi sovraordinati non possono certamente essere trascurati, un controllo del genere essendo per definizione connotato dalla non uniformità e dalla non definitività (in quanto soggetto il sindacato del giudice al regime delle impugnazioni), con le conseguenze che necessariamente ne seguono quanto alla certezza dei rapporti giuridici ed alla garanzia dell’affidamento dei consociati sulla vincolatività della legge.
La delimitazione dell’area della possibile disapplicazione della legge anche nei rapporti tra privati in forza dei principi di diritto dell’Unione appare quindi impegno primario dell’interprete.
Si tratta di un’operazione ermeneutica che deve necessariamente prendere le mosse dall’accertamento in ordine alla riconducibilità della fattispecie sottoposta alla sua cognizione all’ambito applicativo del diritto dell’Unione, una verifica imposta dallo stesso art. 6 del TUE che al comma 1 espressamente prevede che “Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati”.
Dovrebbe poi essere accertato che, indipendentemente dalla sua diretta precettività, il principio sia suscettibile di applicazione diretta, nel senso che la sua attuazione non richieda una operazione di bilanciamento con altri principi (bilanciamento che invece sovente la fonte comunitaria prevede) e non sia soggetta a condizioni.
Tratti tutti presenti nella fattispecie di causa: la materia della parità di accesso al lavoro in dipendenza di specifici fattori di protezione è infatti certamente materia di diritto dell’Unione, già in quanto disciplinata da direttive, mentre il principio di non discriminazione per età incontra solo specifiche deroghe (nel perseguimento di finalità legittime con mezzi appropriate e necessari), ma non ulteriori condizioni applicative.
Resta in via generale la particolare complessità dell’opera dell’interprete giudice nazionale in questi casi, chiamato ad utilizzare strumenti ermeneutici e regole applicative diversi da quelli usuali nel diritto interno e ad assumersi la responsabilità che la fonte comunitaria gli attribuisce di piena attuazione del diritto dell’Unione, evitando ad un tempo la pavidità e la ritrosia come la vanità, tutte malattie mortali del giudicare.