Se si riflette sulle recenti dichiarazioni di alcuni esponenti del Governo e del Parlamento relative al ruolo della giurisdizione e, dunque, della magistratura (sino a che questa inferenza funzionale sarà conservata), sorge immediatamente spontanea una conclusione, probabilmente banale, ma non del tutto chiara per molti cittadini.
Le accuse d’ingerenza formulate nei confronti della magistratura che si occupa dell’esercizio indipendente dell’azione penale, sostanzialmente nascondono un’insofferenza per lo Stato di diritto e per le tutele di rango costituzionale che antepongono i diritti fondamentali alla cura dell’interesse amministrativo dello Stato.
La sensazione, insomma, è che i giudici non c’entrino nulla e che la rumorosa protesta per le iniziative giudiziarie che coinvolgono le scelte del Governo o le inchieste che riguardano alcune forze politiche, nasconda in realtà l’intenso lavorìo sul terreno, più scivoloso, dei diritti individuali e delle regole democratiche di esercizio del potere.
Ognuno, in fondo, sa che la magistratura non è un valore finale e che rafforzarne o depotenziarne il ruolo, in sé per sé, non ha significato strategico, e non interessa a nessuno.
Tutti, invece, anche confusamente, dovrebbero avvertire che giudici sono uno strumento, servono a garantire diritti, ad accertare torti ed a far rispettare regole e dovrebbero, dunque, ugualmente aver chiaro che, quando si accende il dibattito sulla “normalizzazione” della magistratura, in realtà si sta affrontando il nodo degli strumenti con i quali, in un Paese democratico, s’intende tutelare i diritti dei singoli e mantenere il controllo delle regole.
Una magistratura debole significa diritti individuali più deboli e campo libero per i più forti, nella declinazione più classica del rapporto tra autorità e libertà. Con l’aggravante che le “maggioranze” sono spesso variabili e che “il più forte”, spesso, cambia rapidamente.
Altrimenti detto, l’assetto della giurisdizione ed il suo rapporto con gli altri poteri influenzano in modo determinante lo stato dei diritti individuali e, di conseguenza, il tasso di democrazia di un Paese.
Tuttavia, un refrain che spesso torna, anche nella pubblicistica più avvertita, oltre che nella propaganda politica, quando la magistratura intende sottoporre al vaglio di legittimità le scelte del Governo è il riferimento alla tutela ed alla incoercibilità della volontà popolare.
Non si deve andare troppo indietro nel tempo per ricordare la disposizione del ministro della Giustizia Castelli, che stabilì di aggiungere – in tutte le aule di giustizia del Paese – un’ulteriore indicazione accanto a quella, consueta, per cui “La legge è uguale per tutti”. Di fianco a quella classica iscrizione, si decise di esibire l’ammonizione per cui “La giustizia è amministrata in nome del popolo”. Nulla di male: indefinitiva si tratta dell’art. 101 Cost., verrebbe da dire.
Ma la questione era, e rimane, assai più complessa. L’indicazione del Governo alludeva, chiaramente, al tema della “legittimazione della giurisdizione” come risultò poi chiaro dai commenti successivi alla direttiva del ministro.
Dunque il riferimento, alla volontà popolare, quale fonte unica di legittimazione all’esercizio del potere e “salvacondotto” generale per l’azione del Governo (recentemente ribadita dal ministro Bongiorno), affonda le radici in una solida tradizione di destrutturazione della scelta costituzionale di separazione dei poteri.
Si vuol affermare, cioè, che anche i giudici, come gli altri poteri dello Stato, debbono trarre, in via diretta o indiretta, legittimazione politico-istituzionale dalla volontà popolare e che, laddove questo non accada, come nel nostro Paese, essi devono evitare di interferire con le scelte di chi, invece, tale legittimazione ha ricevuto, sebbene in via indiretta, attraverso la consultazione popolare.
Chi ha ricevuto l’investitura popolare e, per questa strada, è titolare del dell’indirizzo politico non può vedere posti nel nulla gli atti compiuti in esercizio del mandato e, soprattutto, non può risponderne alla magistratura, quale che sia la carica lesiva.
Nell’attuale assetto parlamentare, se dalla consultazione elettorale è uscita vincitrice una coalizione di maggioranza, è tale coalizione che interpreta legittimamente, ed esclusivamente, la volontà popolare, con l’aggravante che il programma è stato “contrattualizzato” e che, dunque, la sua esecuzione risponde quasi ad un obbligo di adempimento che non sopporta vincoli o ingerenze.
Il ragionamento ha dei corollari.
Innanzitutto, in questo modo, si tende ad accreditare una lettura costituzionale che, da subito, vincoli l’esercizio della giurisdizione alle direttive del Governo. Se il Governo è investito di un compito, i giudici devono cioè assecondarne lo svolgimento, evitando di frapporre ostacoli.
In secondo luogo, si prepara il terreno per una riforma della posizione costituzionale della magistratura che ne esalti, almeno per il pubblico ministero, la vocazione schiettamente politica, con una consequenziale dipendenza formale dall’esecutivo. In quest’ottica cioè, l’azione penale non viene esercitata in modo indipendente ma risponde alle esigenze di indirizzo politico. Dunque chi se ne fa interprete non può sottrarsi alla legittimazione popolare.
Sennonché questa teorizzazione, apparentemente circolare, contiene una serie di inesattezze con riguardo all’assetto costituzionale vigente ed è estremamente pericolosa, perché polverizza la formula democratica dello Stato di diritto.
Come ricordava opportunamente qualche settimana fa il professor Bin su un noto quotidiano nazionale, sono sufficienti alcune nozioni di diritto costituzionale per svelare che, ovviamente, “volontà del popolo” non vuol dire “volontà della maggioranza” e che, soprattutto quando si tratta di giudizi penali, la “volontà della maggioranza” è più pericolosa del boia, perché spesso (o quasi sempre) l’indagato o l’imputato ha un atteggiamento “deviante” rispetto ai modelli di riferimento incarnati dalle fattispecie penali, e dunque una legittimazione maggioritaria della giurisdizione può addirittura rappresentare una fonte di pregiudizio, rischiando di rovesciare sul giudizio a carico del “deviato” la concezione della maggioranza “non deviante”, così vulnerando l’imparzialità della conclusione giudiziaria.
Ma a ben vedere è del tutto erroneo il presupposto di fondo, dal momento che – nella tripartizione dello Stato costituzionale di diritto – la legittimazione della giurisdizione è autonoma e non trova affatto causa diretta nella volontà popolare o in altre forme di sostegno politico.
Il legame ed – in fin dei conti – la “dipendenza dalla volontà del popolo” si attuano, per i giudici, nella soggezione alla legge formale che, per l’appunto, esprime, in Parlamento, mediante i meccanismi rappresentativi, la volontà popolare. A meno di non sostituire la funzione parlamentare con la democrazia diretta, attraverso una consultazione dei cittadini. Ma anche in questa modalità, costituzionalmente paradossale, di formazione dell’indirizzo politico, la soggezione alla volontà del popolo dovrebbe attuarsi attraverso il comando legislativo e non prefigurando i contenuti della decisione giudiziaria.
Che la giurisdizione non c’entri nulla con la volontà popolare, d’altra parte, è presto detto: il buon giudice, pur amministrando giustizia in nome del popolo, non deve tenere in nessun conto le indicazioni che provengono dagli elettori.
Il giudice, ad essere più chiari, non deve tener conto né dell’opinione della maggioranza del popolo, né, per assurdo, della volontà di tutti, ma proprio tutti, i singoli cittadini dello Stato.
I giudici esistono soprattutto per una necessità razionale ed istituzionale: devono accertare se un fatto è vero oppure è falso. Questo giudizio e dunque l’intera azione che a tale conclusione conduce (sostanzialmente il processo) non ha nulla a che vedere con indicazioni politiche. L’opinione dei cittadini, anche di tutti i cittadini, sulla colpevolezza o l’innocenza di Tizio, non scalfisce neppure da lontano il giudizio di verità o falsità del fatto oggetto del processo, che è al fondamento della decisione giudiziaria.
Sarebbe perciò contrario alla “legittimazione”, o se si vuole alla ragione stessa dell’esistenza di un giudice, condannare Tizio solo perché è interesse della maggioranza dei consociati, o – peggio – della maggioranza di Governo.
Vista la faccenda dalla parte dell’imputato, è difficile contestare la lucida conclusione di Tocqueville: «Quando sento la mano del potere che mi preme sul collo, poco m’importa di sapere chi è che mi opprime; e non sono maggiormente disposto a chinare la testa sotto il giogo per il solo fatto che questo m viene porto da milioni di braccia».
L’accertamento processuale di un fatto e la decisione conseguente non devono essere orientati da nessun indirizzo politico, qualunque sia la forma in cui esso si esprime. Seguire qualunque indicazione di opportunità, tener conto della volontà popolare reale o presunta, costituisce razionalmente la negazione del processo e del suo esito.
Nessuno vorrebbe che l’innocente Tizio fosse condannato, anche se tale fosse la volontà di tutti, ma proprio tutti, i cittadini dello Stato. Nessuno vorrebbe che il colpevole Caio la faccia franca, se anche dieci televisioni, tutti i giornali, sei sondaggi, il popolo tutto e, persino il ministro della Giustizia, il Presidente del Consiglio ed il Presidente della Repubblica in persona, si fa per dire, così volessero.
Il buon giudice accerta, nel processo, se Tizio è colpevole o innocente, e “se ne infischia” di quel che vuole il popolo, semplicemente perché non è affar suo.
Il buon procuratore avvia il procedimento per verificare una notizia di reato e “se ne infischia” dell’opportunità politica della sua inchiesta perché sua azione non è strumentale all’interesse politico della maggioranza o dell’opposizione, e perché il consenso del popolo non serve ad accertare la verità.
Il popolo non c’entra nulla con i giudizi, la sua volontà politica il suo consenso o il suo dissenso non valgono a legittimare pronunzie di condanna o di assoluzione. Il popolo insomma non giudica, né la sua volontà dev’essere presa a pretesto per orientare i giudizi.
“Volete libero Gesù o Barabba..?”. Sappiamo tutti come è andata a finire.
D’altra parte, se si conviene che la supremazia dei diritti fondamentali del singolo rappresenta la “dimensione sostanziale della democrazia”, la necessaria “giustiziabilità” di quei diritti, ossia la loro attuazione in modo indipendente, determina di per sé la legittimazione autonoma della giurisdizione.
Insomma, è la stessa preesistenza costituzionale di taluni diritti individuali inalienabili a legittimare l’esistenza di una magistratura indipendente, che sia in grado di tutelarli “ad ogni costo”, ed anche contro le scelte politiche del momento.
Ma non è tutto.
La legittimazione autonoma della giurisdizione è un dato necessario che deriva dal suo ruolo di controllo sull’esercizio illegale del potere. E ciò a prescindere dalla “quantità di volontà popolare” che ha contribuito a legittimare quel potere di Governo, ed anzi a maggior ragione quando i consensi nei confronti dell’esecutivo siano maggioritari, o perfino totalitari.
Nessun consenso, quale che ne sia la portata, rende lecito un atto di Governo contrario alle regole, ed è essenziale che la violazione sia accertata, riconosciuta e stigmatizzata in sede giurisdizionale.
A maggior ragione nessun consenso, per quanto maggioritario o pressoché unanime, potrebbe rendere lecito un comportamento previsto dalla legge come reato.
Dovrebbe insomma essere chiaro – per dirla ancora con Tocqueville – che «non è concedere un privilegio particolare ai tribunali il fatto di permettere loro di punire gli agenti del potere esecutivo, quando violano la legge. Sarebbe toglier loro un diritto naturale, l’impedirglielo».
Come dire: i giudici esistono per questo, se non debbono fare il loro mestiere, meglio farne a meno.
D’altra parte, è sufficiente accennare, per converso, ad una ricostruzione dell’equilibrio dei poteri opposta a quella del pensiero liberale, per comprendere a quale matrice culturale appartenga una visione della magistratura (ma sarebbe meglio dire della giurisdizione), che tende a limitare il sindacato di legittimità dei giudici sulle scelte di Governo.
L’ordinamento giudiziario fascista del 1941, in parte ancora in vigore, licenziato dal Guardasigilli Grandi, per esempio, manteneva pienamente fede alla relazione illustrativa, nella quale il ministro manifestava con chiarezza i suoi intenti, osservando che: «… nel regolare lo stato giuridico dei magistrati ho naturalmente respinto il principio del così detto autogoverno della magistratura, incompatibile con il concetto di Stato fascista», ritenendo «inammissibile che nello Stato esistano organi indipendenti dallo Stato medesimo, o autarchie, o caste sottratte al potere sovrano unitario, supremo regolatore di ogni pubblica funzione». D’altra parte non poteva dirsi, a parere del ministro Grandi, che «la giurisdizione costituisca un potere autonomo dello Stato, dovendo anch’essa informare la sua attività alle direttive generali segnate dal governo per l’esercizio di ogni altra pubblica funzione».
Molte iniziative politiche, e l’intero dibattito sulla giurisdizione hanno allora una origine lontana. L’attacco frontale all’autogoverno della magistratura, l’identificazione dei giudici come una casta di privilegiati, l’idea della inammissibilità di una gestione della giurisdizione indipendente dal Governo, il tentativo di declassare la giurisdizione da potere dello Stato a pubblica funzione, sembrano – insomma – una riedizione del passato.
Si ritorna, dunque, alla premessa: quando si chiede ai giudici di lasciarsi orientare dalla volontà del popolo, asseritamente oggettivata nelle scelte di Governo, o di non sottoporle a giudizio appunto perché “scelte di governo” si chiede esattamente ai cittadini di delegare ai rappresentanti del potere esecutivo, tanto l’azione di Governo che il controllo sulla sua legittimità, o – il che è lo stesso – si chiede una delega senza limiti, ad un Esecutivo arbitro assoluto dei diritti.
Ma, nel disegno del costituente la volontà del popolo, il mandato conferito dagli elettori, neppure potrebbe giustificare una legge pur che sia, indipendentemente dal suo contenuto.
L’impressione è che, nel dibattito pubblico, si confondano le condizioni formali di validità della legge con le condizioni sostanziali per la sua validità, in una ubriacatura da overdose di maggioranza.
Il contenuto dei provvedimenti legislativi, qualunque esso sia, viene spesso giustificato, dinanzi alle critiche più o meno fondate degli oppositori, con l’idea che “la maggioranza degli italiani” ha dato mandato al Parlamento e, in via mediata al Governo, per l’esercizio di quel potere, dunque non vi sono obiezioni che tengano.
Alle perplessità di contenuto, si risponde, insomma, che la legge è “formalmente” legittima perché emanata secondo il procedimento parlamentare previsto e da un Parlamento votato a seguito di elezioni regolari.
Ma la Costituzione italiana non si limita a prevedere le forme di esercizio del potere.
Delinea, invece, uno scenario costituzionale di diritto nel quale pone divieti ed obblighi di contenuto alla legge formale. Delinea le condizioni, per esempio per la limitazione della libertà personale. O della libertà di corrispondenza. Tutela la salute e, diversamente, descrive il diritto all’istruzione.
Nessuno può, maggioranza o non, delegare alla polizia giudiziaria una limitazione autonoma e duratura della libertà personale al di fuori di un provvedimento giurisdizionale.
La verità è che il contenuto autentico della formula dello Stato di diritto riguarda le garanzie liberali e sociali per i diritti. Insomma, come è stato magnificamente detto da Luigi Ferrajoli «la prima regola di ogni patto costituzionale sulla convivenza civile non è infatti che su tutto si deve decidere a maggioranza, ma che non su tutto si può decidere (o non decidere), neanche a maggioranza». In questo limite sostanziale risiede la rivoluzione moderna dello Stato di diritto.
Ognuno vede come nessuno può decidere, neanche a maggioranza, che i cittadini di una determinata razza siano privati della libertà.
E se la legge formale inizia ad intaccare i diritti costituzionali, quelli sui quali non si può decidere nemmeno a maggioranza, i giudici che lo rilevano svolgono né più né men che il loro compito. Ed è soltanto un esercizio inutile continuare a legiferare, nell’illusione che brandire l’arma della legge formale sia sufficiente a sconfiggere il diritto.
Sempre più spesso è difficile comprendere il senso di un provvedimento legislativo ed è sempre più oscuro lo scopo a cui tende. Laddove è necessario, si crea una norma nuova, che si aggiunge alle precedenti e rende ogni giorno un po’ più difficile la strada per la giustizia. Ma il buon giudice deve misurare la legge con i diritti e le regole costituzionali. Finché reggono, i principi sovraordinati, i diritti inviolabili, e la loro interpretazione da parte dei giudici costituiscono un argine all’eccesso di potere in atto legislativo.
Così l’indipendenza della magistratura, la sua capacità di interpretare, la sua libertà da condizionamenti rappresentano uno strumento indispensabile per la tutela dei diritti individuali, per l’affermazione dei principi di uguaglianza e la promozione dei principi costituzionali.
Ma bisogna, infine, stare attenti alle parole ed ai contesti.
Perché il richiamo alla volontà popolare nell’amministrazione della giustizia, può avere vari significati. Può essere una semplice richiesta di maggiore aderenza delle decisioni alle attese dei cittadini, al comune sentire dell’uomo medio; può limitarsi ad una ulteriore provocazione in questa stonata polemica istituzionale, o riecheggiare formule sopite, ed assai amare.
Il “sano sentimento del popolo” o il Führerprinzip sono dietro l’angolo.
Tra la volontà del popolo e la volontà del popolo oggettivata nella figura del Capo corre un confine sottile, segnato col gesso, di facile e immediato trapasso.