1. Il 28 ottobre 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha pronunciato una sentenza in tre casi riuniti, che vedevano tre ricorrenti (i signori Succi, Pezzullo e Di Romano) opposti allo Stato italiano, accusato di avere violato l’art. 6, par. 1°, della Cedu, relativo al diritto ad avere la propria causa esaminata da un tribunale, a motivo di altrettante pronunce emesse in rito dalla Corte di cassazione[1]. In tutti quei casi, la Cassazione aveva giudicato inammissibili i ricorsi, senza scendere nel merito, per il mancato rispetto dei criteri formali di redazione del ricorso e, in specie, del principio di autosufficienza[2].
La Corte Edu, al termine di un ampio percorso motivazionale, respinge due dei tre ricorsi, ma ravvisa la responsabilità dell’Italia in uno di essi (quello presentato dal signor Succi), condannando il nostro Stato al pagamento del relativo indennizzo. La ragione della condanna sta nel fatto che la Corte ha ravvisato, in quella decisione, una lesione del diritto fondamentale del ricorrente, provocato dal «formalisme excessif» della Cassazione.
2. La sentenza Succi ha immediatamente colpito l’attenzione degli osservatori, perché è apparsa, ad una lettura forse frettolosa, una sorta di censura all’operato, in tesi troppo formalista, di piazza Cavour[3].
A mio avviso, la pronuncia è importante e se ne deve tenere conto: ma non va neppure sopravvalutata. Perciò, prima di passare all’esame di ciò che la Corte Edu ci insegna, mi sembra opportuno delimitarne bene i termini dell’intervento, per non correre il rischio di pensare che ci si trovi di fronte ad un arresto epocale: il che non è[4].
Una prima annotazione, che oggi forse poco piace, ma che credo vada ripetuta, consiste nella chiarezza di idee sul significato delle sentenze di Strasburgo. Quando pronuncia in termini di indennizzo e condanna uno Stato membro della Convenzione per violazione di un diritto fondamentale, la Corte Edu è giudice di merito e giudice del fatto. Essa afferma che, in una data circostanza concreta, una data autorità nazionale ha leso un diritto protetto dalla Convenzione europea. Non giunge, però, a sancire formalmente un principio di diritto, né ad imporre la disapplicazione o tanto meno l’esigenza di abrogazione di determinate norme nazionali. Certo: a volte potrà accadere che una condanna di merito accerti la sussistenza di un sistema, vigente in un dato paese, così strutturalmente contrario ai diritti umani da imporne la revisione, ma la funzione fisiologica della Corte Edu non è questa.
Quindi, neppure condannando l’Italia per la violazione dell’art. 6, n. 1, della Convenzione in tema di diritto all’accesso a un tribunale, Strasburgo ha in alcun modo ipotizzato che le regole (scritte e giurisprudenziali) del processo in Cassazione vadano modificate. Ha semplicemente detto (e non è poca cosa) che in una causa concreta, vale a dire il ricorso del signor Succi, la suprema Corte italiana ha violato un diritto fondamentale.
E che non si tratti di una critica sistemica – è questa la seconda osservazione – deriva dal semplice fatto che la Corte Edu, trattando insieme tre ricorsi, tutti fondati su presunte violazioni della Convenzione, ne ha respinti due, precisando che in entrambi quei casi la Cassazione aveva non solo fatto buon governo delle regole interne, ma che non aveva attuato alcuna lesione delle posizioni dei ricorrenti.
Ancora, occorre situare cronologicamente le vicende dei tre giudizi, terminati con il rigetto in rito del ricorso in Cassazione. In tutti i casi, i giudici di merito italiani avevano respinto le domande degli istanti, che si erano poi rivolti a piazza Cavour. Ciò è avvenuto in tempi diversi ed erano, quindi, diverse ratione temporis le norme di rito che nel frattempo si erano susseguite. La stessa giurisprudenza della suprema Corte si è evoluta ed affinata nel corso degli anni, anche prima del protocollo del 2015[5]: talché, sarebbe ingiusto vedere come una censura alla Cassazione di oggi una critica rivolta alla scelta compiuta, in un singolo caso, dalla Cassazione di ieri.
Aggiungo un’altra osservazione. Nella prospettiva del rispetto del diritto all’accesso a un tribunale si guarda, com’è logico, alla posizione del ricorrente, che, insoddisfatto dell’esito dei gradi di merito, invoca la protezione del giudice di legittimità. Credo però che – come sempre in materia processuale – si debba guardare alla posizione di tutte le parti e, in specie, del controricorrente, vittorioso nelle fasi precedenti. Questi ha pieno diritto che la verifica di legittimità si svolga secondo regole precise e che lo sfidante si sottoponga ad un esercizio di chiarezza e di precisione nella delimitazione del tema in discussione.
Il corretto rigore della Corte di cassazione sui profili formali, in altre parole, è funzionale non solo ad una proficua gestione del contenzioso, ma anche alla tutela della parte che (almeno, fino a quel momento) ha conseguito un esito favorevole e che non deve essere chiamata a difendersi contro atti confusi e incomprensibili.
Non scrivo questo per togliere significato alla pronuncia Succi o per una (non richiesta) difesa d’ufficio della suprema Corte, che ovviamente non ne ha bisogno, ma soltanto per limitare entro un quadro di ragionevolezza l’impatto della decisione commentata.
3. Con queste premesse, si tratta però di capire quale sia il messaggio che la Corte Edu manda alla Cassazione: messaggio importante, che va ascoltato e capito[6].
Il primo dato che ne emerge è che il principio di autosufficienza del ricorso risponde ad una finalità legittima ed è volto a semplificare l’attività della Cassazione e a garantire allo stesso tempo la certezza del diritto e la buona amministrazione della giustizia[7].
Si deve escludere, quindi, che «le principe d’autonomie du pourvoi en cassation»[8] comporti un pregiudizio sistemico al diritto fondamentale di accedere a un giudice, secondo l’art. 6, par. 1°, della Convenzione. Certo, ne dovrà poi essere verificata la modalità di applicazione in concreto, ciò che la Corte Edu ha fatto, con una valutazione negativa nel caso Succi e invece positiva nei casi Pezzullo e Di Romano. Di per sé, però, l’autosufficienza del ricorso è uno strumento utile.
Scendendo, poi, al dato applicativo, la Corte di Strasburgo annota che l’analisi dei precedenti mostra una tendenza della Cassazione a mettere l’accento su profili formali, che non sembrano in linea con la finalità dell’istituto («qui ne semblent pas répondre au but légitime identifié»), specie per ciò che concerne l’obbligo di trascrizione integrale nel corpo dell’atto dei documenti citati nei singoli motivi di ricorso[9].
L’indicazione della Corte Edu si fa più stringente, quando passa alla motivazione di merito, in base alla quale nel caso Succi si è dato luogo ad un «formalisme excessif». Questo eccesso, che comporta la violazione della norma convenzionale, si identifica con la circostanza che la Cassazione, in quel giudizio, non si è minimamente sforzata di comprendere i passaggi logici del ricorso e di identificare i documenti proposti dal ricorrente.
Il tema della comprensione (o, se si vuole, dello sforzo di comprensione) mi pare quello centrale nella lezione della Corte Edu.
Mi permetto, a questo punto, una breve digressione, per mostrare come, da un lato, la posizione di qualsiasi giudice debba essere intellettualmente attiva e cercare di capire anche oltre le indicazioni, non sempre limpide, fornite dalle parti e come, dall’altro lato, non sia certo la Cassazione italiana l’unica a fermarsi a un dato formale.
È noto che la Corte di giustizia, quasi trent’anni fa, inaugurò (oltre, per non dire contro, la lettera dei trattati) una modalità di ammissione delle richieste di pronuncia pregiudiziale fondata sul presupposto della chiarezza: se il nesso fra i fatti e il problema interpretativo (allora) comunitario non era esposto in modo piano, il Kirchberg poteva ritenere non ricevibile la domanda pregiudiziale ed evitare così di rispondere[10]. Purtroppo, è altrettanto noto che questa pratica ha avuto la funzione di selezionare casi politicamente delicati. È possibile che Strasburgo, se avesse avuto la competenza per valutare l’orientamento della corte di Lussemburgo, si sarebbe espressa in modo critico, in rapporto al diritto di accedere a un giudice. A mio avviso, questa prassi era molto più discutibile che non il mancato sforzo di comprensione in qualche sentenza della Cassazione, di fronte a ricorsi privi di taluni elementi formali.
Ma ritorniamo al punto. La Corte Edu – mi sembra – non invita la Cassazione a dismettere uno strumento, come quello dell’autosufficienza, di cui riconosce la razionalità, ma le suggerisce di usarlo in modo dinamico. La suprema Corte italiana ha forse cercato di definire l’autosufficienza in modo eccessivamente analitico, con la conseguenza di pesarlo in termini, per così dire, estrinseci e quantitativi. In questo senso, il criterio dell’autosufficienza del ricorso, non diversamente da altri profili formali, è stato spesso reso oggetto di critiche: si è sostenuto che la Cassazione ha costruito una griglia di condizioni per smaltire, più che per approfondire, i ricorsi[11]. La stessa Corte Edu precisa, del resto, che l’autosufficienza non può essere utilizzata come metodo di filtro dei casi[12].
Il caso Succi, pesato in modo ragionevole, offre probabilmente alla nostra Corte suprema l’occasione, non tanto di un ripensamento, quanto di una diversa impostazione del tema dei criteri formali di redazione dei ricorsi. Ed è su questo aspetto che vorrei formulare qualche annotazione.
4. Se si legge la copiosa giurisprudenza della Cassazione sul punto del principio di autosufficienza, oltre a coglierne l’evoluzione nel tempo[13], se ne rileva l’impegno di precisare e di dettagliare le condizioni, in base alle quali un ricorso si possa ritenere formalmente ammissibile. È netto lo scarto fra le sintetiche formule dell’art. 366, comma 1°, n. 6, e dell’art. 369, comma 2°, n. 4, da un lato, e l’imponente casistica elaborata dalla Corte a partire dal ben noto leading case del 1986[14].
Ora, ciò che la Corte Edu indica alla Cassazione non è di abbandonare il principio di autosufficienza (né tanto meno, ovviamente, le norme su cui lo si fonda), ma di applicarlo nei singoli casi in modo proporzionato e tale da non creare un eccessivo ostacolo alla successiva decisione sulla sostanza del ricorso.
Ritorno sul punto della comprensione. Autonomia del ricorso (la parola francese mi piace più della sua traduzione italiana) significa che dalla sola lettura dell’atto, con i puntuali riferimenti normativi e documentali, come oggi fissati in modo equilibrato dal protocollo del 2015, la Cassazione deve essere posta in grado di comprendere la critica che il ricorrente propone nei confronti della sentenza impugnata. Ne restano subito esclusi i ricorsi che ripetono le tesi svolte dinanzi ai giudici di merito o che copiano testi tratti dai gradi anteriori di giudizio, perché qui in realtà manca la critica alla decisione oggetto di ricorso. Ne restano esclusi anche tutti quelli che non mettono in luce il collegamento fra i motivi proposti e le norme, i fatti e i documenti rilevanti delle fasi precedenti, perché non assolvono alla loro funzione. In tutti i casi, comunque, si tratta di un giudizio di fatto: quel giudizio sul fatto processuale, che pacificamente appartiene ai compiti della suprema Corte.
Se, allora, il giudizio è sul fatto, credo che la costruzione di griglie di criteri, volti a definire che cosa sta dentro e che cosa sta fuori dal recinto dell’autosufficienza, non giovi alla Cassazione e probabilmente non risponda all’indicazione della Corte Edu, che è entrata nella concretezza dei singoli ricorsi e, volta per volta, ha dato la sua valutazione. Il discrimine, a mio avviso, sta in ciò: se un dato ricorso permette o no l’identificazione della critica svolta dall’impugnante.
Un atteggiamento di questo genere avrebbe il vantaggio di liberare i difensori da soverchie preoccupazioni formali e di generare pronunce più soddisfacenti per i ricorrenti, anche se negative, perché motivate nella sostanza. Inoltre, allontanerebbe le critiche di chi, non senza qualche ragione, censura l’atteggiamento della suprema Corte come elusivo della domanda di giustizia[15].
D’altra parte, è chiaro che si deve guardare al principio di autosufficienza per ciò che è oggi e non per ciò che è stato: esso va inteso, nel più recente trend della Cassazione, «come un corollario del requisito della specificità dei motivi di impugnazione»[16].
La sentenza Succi, nella disamina delle fonti, menziona il Pnrr e la futura (in quel momento) riforma del codice di rito. Oggi, i principi di delega raccolti nella l. n. 206 del 26 novembre 2021 sono noti e forse possono contribuire a favorire una razionale soluzione del problema.
Infatti, la legge di delega spinge sull’acceleratore della sinteticità e della chiarezza, sia in generale (comma 17°, lett. d, dell’articolo unico), sia con riferimento specifico al ricorso per cassazione. Infatti, il comma 9°, lett. a, dell’articolo unico invita il legislatore delegato a «prevedere che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti di causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione».
A mio avviso, questa previsione potrebbe utilmente governare il tema dell’autonomia del ricorso: se, all’interno dell’atto, i fatti emergono con chiarezza e i motivi sono nitidi, il richiamo ai documenti o la relativa trascrizione, in quanto tali, perdono rilievo. Sarà il ricorrente, per adempiere all’onere di chiarezza, a inserire nell’atto tutto quello e soltanto quello che, dal suo punto di vista, potrà indurre la Cassazione ad accogliere l’impugnazione: forse trascrivendo alcuni elementi o forse rimandando in modo univoco ad altri, facilmente individuabili. A sua volta, la suprema Corte non dovrà costruire formule giurisprudenziali preconfezionate, ma potrà limitarsi ad una verifica in concreto.
Il che è esattamente ciò che ha fatto la Corte Edu nei tre casi esaminati.
Mi sembra, allora, che il messaggio più significativo che Strasburgo manda a Roma con la sentenza Succi sia soprattutto l’adozione di un metodo, che consiste nella serena valutazione della comprensibilità del ricorso, caso per caso. Un metodo che, come si è visto, non è certo estraneo al più recente approccio della suprema Corte italiana.
Per questo, in conclusione, la pronuncia qui commentata va presa sul serio, ma non va interpretata come una sconfessione dell’operato della Cassazione: semmai, è un incoraggiamento a proseguire sulla strada percorsa e a non riproporre qualche «formalisme excessif» del passato.
[1] Sentenza emessa dalla prima sezione della Corte Edu nei casi riuniti 55064/11, 37781/13 e 26049/14.
[2] È superfluo ricordare qui l’ampia letteratura che si è formata nel corso degli anni su questo tema. Senza alcuna pretesa di completezza, ricordo ex multis SANTANGELI, Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, p. 607 ss.; SASSANI, Il nuovo giudizio di cassazione, ivi, 2006, p. 217 ss.; CALIFANO, Sull’autosufficienza del ricorso in cassazione, in Foro it., 2018, I, p. 3994 ss.
[3] Per qualche primo commento, v. RAIMONDI, Corte di Strasburgo e formalismo in Cassazione, in www.giustiziainsieme.it; CAPPONI, Il formalismo in Cassazione, ivi; S. BARONE, La Corte di Strasburgo sul principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in www.questionegiustizia.it.
[4] Si noti che altre volte la Corte Edu aveva preso in esame l’operato della Cassazione: ad esempio, in Trevisanato c. Italia del 15 settembre 2016, ripetutamente citata nel caso Succi.
[5] Mi riferisco naturalmente al protocollo concluso tra la Corte di cassazione e il Consiglio nazionale forense il 17 dicembre 2015. Sul tema, v. DALFINO, Il nuovo volto del procedimento in Cassazione nell’ultimo intervento normativo e nei protocolli d’intesa, in Foro it., 2017, V, p. 5 ss.
[6] Di un «campanello di allarme» parla RAIMONDI, op. cit.
[7] Così la sentenza Succi al paragrafo 75.
[8] Mi sono imposto di redigere questo commento leggendo soltanto il testo originale francese della sentenza: non per snobismo culturale, ma perché la migliore delle traduzioni non esprime totalmente ciò che gli estensori hanno scritto. Anche se può apparire un dettaglio minimo, la differenza lessicale fra autonomie ed autosufficienza mi sembra che voglia dire qualcosa.
[10] Mi permetto un riferimento a BIAVATI, Diritto processuale dell’Unione europea, 5° ed., Milano, 2015, p. 418 ss. Sulla successiva correzione di rotta della Corte di giustizia, con l’introduzione e la concreta applicazione della possibilità di rivolgere richieste di chiarimento ai giudici nazionali, v. NAÔMÉ, sub Art. 101 del regolamento di procedura della Corte di giustizia, in AMALFITANO, CONDINANZI, IANNUCCELLI (a cura di), Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017, p. 638 ss.
[11] SASSANI, Da Corte a Ufficio smaltimento, ascesa e declino della “Suprema”, in Judicium, 2016, p. 1 ss.
[12] Sentenza Succi, punto 84.
[13] La più completa ricostruzione dell’evoluzione del principio di autosufficienza si trova in GIUSTI, L’autosufficienza del ricorso, in ACIERNO-CURZIO-GIUSTI, La Cassazione civile, 3° ed., Bari, 2020, p. 213 ss.
[14] Cass., 18 settembre 1986, n, 5656.
[15] SASSANI, La deriva della cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. dir. proc., 2019, p. 43 ss.; ID, Da Corte a Ufficio smaltimento, ascesa e declino della “Suprema”, in Judicium, 2016, p. 1 ss.
[16] GIUSTI, op. cit., p. 230. V. in tema F. DE GIORGIS, Principio di sinteticità espositiva e inammissibilità del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2020, p. 244 ss.