1. Le intercettazioni nella ricerca dei latitanti
Scopo del processo penale è fondamentalmente quello di stabilire se un imputato sia colpevole o innocente e, nel primo caso, di sottoporre il responsabile del reato commesso alla pena irrogata. La mancata esecuzione di una pena significativa inflitta, a seguito di una condanna definitiva, rappresenta una sconfitta inaccettabile da parte dello Stato, perché dimostra la sua inefficienza, soprattutto nei confronti dei cittadini, che percepiscono in tal caso di finanziare inutilmente, per il tramite del pagamento dei tributi, il servizio della giustizia penale. Al contempo, dimostra la forza in termini di disponibilità economiche, il potere, le relazioni e le protezioni di chi ha la capacità di sottrarsi all'esecuzione, rafforzando il suo prestigio criminale, e, nel caso in cui il condannato sia inserito in contesti associativi, del sodalizio in cui lo stesso fa parte, generando odiose discriminazioni. L'innegabile possibilità che, pur da latitanti, personaggi di grosso spessore criminale continuino a porre in essere, dalla clandestinità, gravi imprese criminali, continuando a porre in pericolo le esigenze di tutela della collettività e le garanzie collettive basilari di tutti i consociati impone la massima attenzione al tema. È, perciò, utile riflettere sugli strumenti investigativi utilizzabili in sede esecutiva per catturare chi è destinatario di un ordine di esecuzione di pene - (anche concorrenti, ex artt. 663 e 656 comma 1 c.p.p.), emesso dalla Procura della Repubblica o dalla Procura Generale - e che si dà alla latitanza perché rappresentano un'ulteriore opportunità che si aggiunge alle tradizionali metodiche operative, utilizzate nell'ambito dei procedimenti in fase di indagine preliminare.
Anche durante la fase dell'esecuzione, nell'ambito del relativo fascicolo, vi è la possibilità di ricorrere all'uso dell'intercettazione, ex art. 295 c. 3 c. p. p., con modalità più agevoli rispetto alla fase delle indagini, azionando un autonomo procedimento inaudita altera parte con una sua peculiarità, che lo distingue dall'incidente di esecuzione. L'art. 295 c. 3 c. p. p. permette, infatti, di procedere alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazioni e, dunque, anche di quelle ambientali e mediante applicazione di intrusore informatico, al fine di agevolare le ricerche del latitante, nei limiti e con le modalità previste dagli artt. 266 e 267 c. p. p., nei confronti di chi è stato condannato con una sentenza definitiva ed è destinatario di un ordine di esecuzione rimasto ineseguito per irreperibilità del colpevole[1]. È pur vero che è stato sostenuto da alcune linee difensive che lo stato della legislazione vigente è tale da consentire le intercettazioni soltanto per agevolare le ricerche di colui che si sottrae volontariamente ad un provvedimento di custodia cautelare e non anche quando si tratti di agevolare le ricerche di colui evita l'esecuzione di un provvedimento con cui si dispone la carcerazione a seguito di condanna definitiva. Una tesi che si fonda sulla considerazione che l'intercettazione assume, nell'attuale ordinamento, essenzialmente la veste di supporto alle indagini, e di strumento di acquisizione di elementi probatori, confortata dal fatto che le intercettazioni sono annoverate fra i "mezzi di ricerca della prova" di cui al Titolo III del libro III del codice di rito. Tuttavia, la Suprema Corte di Cassazione, con un orientamento consolidato, ha evidenziato che tali «argomenti anche se suggestivi, non sono convincenti perché omettono di considerare il dato letterale, di per sé insuperabile, contenuto nella disposizione di cui al 2^ comma dell'art.295, che fa espresso riferimento ai casi previsti dal successivo art. 296. Perciò, una volta che. per espresso dettato normativo, è previsto un diretto collegamento del potere, riconosciuto al giudice, di dichiarare la latitanza e di disporre le intercettazioni - telefoniche ed ambientali - al fine di agevolare le ricerche del latitante come definito al primo comma del successivo art. 296, diventa arbitrario distinguere e differenziare le due posizioni e sostenere che le intercettazioni telefoniche si possono effettuare per agevolare le ricerche di un certo tipo di latitante e non anche per ricercare un latitante di tipo diverso». La disposizione, infatti, evidenzia la Corte «per una precisa scelta legislativa, ha voluto prevedere un trattamento unitario per qualsiasi tipo di latitante, prevedendo la possibilità di effettuare le intercettazioni per agevolare la cattura sia dell'indagato che si sottrae alla custodia cautelare, sia del condannato che si sottrae all'esecuzione dell'ordine di carcerazione. Il fatto che il latitante rispetto ad una condanna definitiva sia stato assimilato, anche ai fini della possibilità di effettuare delle intercettazioni, al latitante rispetto alla custodia cautelare in una parte del codice (Titolo II del Libro IV) dedicata alle misure cautelari e che le intercettazioni siano considerate normalmente mezzi di ricerca della prova, non è per nulla risolutivo ai fini della interpretazione nel senso voluto dal ricorrente; ed il rinvio, fatto dall'art.295, alle disposizioni di cui agli artt. 266 e 267 cod. proc. pen. ha ovviamente un profilo, quando si tratti di latitanti della categoria condannati, limitato all'osservanza delle formalità di tipo processuale. Si può quindi affermare che le norme sopra richiamate, globalmente interpretate e valutate nei loro collegamenti, hanno inteso conferire alle intercettazioni non solo la funzione di mezzo di ricerca della prova. ma anche quella di dare attuazione al potere punitivo dello Stato che si concretizza nella sentenza di condanna». Il giudice preposto alla nomofilachia ha concluso sottolineando che «La diversa opinione trascura di considerare che le necessità, cui intendono dare risposta le disposizioni di cui ai commi 3 e 3-bis dell'art. 295 cod.. proc. pen., concernono i condannati che si sottraggono alla esecuzione della pena non meno che i soggetti che si sottraggono alla custodia cautelare, attesa la innegabile possibilità che, pur da latitanti, personaggi di grosso spessore criminale continuino a porre in essere, dalla clandestinità, gravi imprese criminali, continuando a porre in pericolo le esigenze di tutela della collettività, in parallelo con le esigenze cautelari di cui alla lett. c) dell'art.274 cod. proc. pen. Né risulta in alcun modo pregiudicato il diritto alla riservatezza, in quanto è comunque salvaguardata l'osservanza delle prescrizioni previste dalla legge con riguardo ai casi, alla durata e alle modalità delle intercettazioni, da effettuare comunque sotto il controllo e previa autorizzazione del Giudice. Si deve quindi concludere che i risultati delle intercettazioni in parola, sicuramente eseguite in un caso espressamente previsto dalla legge, sono pienamente utilizzabili».
2. La disciplina giuridica
Esaminiamo ora la peculiare regolamentazione delle intercettazioni finalizzate alla ricerca dei latitanti per meglio apprezzarne il regime e i vantaggi che possono derivare dal loro impiego.
2.1.L'ambito normativo di riferimento
L’art. 296 c.p.p. definisce latitante colui che volontariamente si sottrae a un ordine con cui, ai sensi dell’art. 656 comma 1 c.p.p., si dispone la carcerazione in esecuzione di pena detentiva.
L’art. 295 comma 3 c.p.p. prevede che «al fine di agevolare le ricerche del latitante, il giudice o il pubblico ministero, nei limiti e con le modalità previste dagli artt. 266 e 267 c.p.p., può disporre intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazioni […]».
Perciò, le attività intercettive de quibus potranno essere effettuate sulla base dei limiti edittali fissati dall'art. 266 c. p. p. (delitti non colposi puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell'art. 4 c. p. p., ovvero delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, sempre determinata a norma dell'art. 4, ecc.).
2.2. Sulla dichiarazione di latitanza
Nel disciplinare l’esecuzione delle pene detentive, l’art. 656 c.p.p. non richiede il presupposto della previa dichiarazione di latitanza nei confronti di soggetto irreperibile, a differenza di quanto è previsto per le attività intercettive in fase di indagini preliminari. È, infatti, sufficiente che l’irreperibilità risulti da verbale di vane ricerche redatto dalla polizia giudiziaria. Pertanto, a differenza della posizione di chi si sottrae a una misura cautelare e ferma l’imprescindibilità del verbale di vane ricerche, per il condannato non è necessaria una formale dichiarazione di latitanza. Tale assunto trova conferma nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui «il provvedimento dichiarativo della latitanza ha carattere strumentale, in funzione del perseguimento di ben precise finalità; ne consegue che non avrebbe senso una dichiarazione di latitanza fine a se stessa, avulsa dalle esigenze di rispetto delle garanzie di legge, in relazione sia alla sussidiaria procedura notificatoria che al conferimento al difensore della rappresentanza del condannato. Dall'interpretazione dell'art. 296 c.p.p. si ricavano due distinti profili della disciplina della latitanza: uno sostanziale, afferente alla qualità del latitante, connessa alla consapevole sottrazione ad una delle misure previste nel comma 1 (compreso l'ordine di carcerazione), ed un profilo formale, inerente alla mera declaratoria di quella condizione, i cui effetti processuali sono previsti per il solo latitante rispetto ad una misura custodiale e non già per il latitante rispetto ad una sentenza definitiva, per il quale il legislatore non ha previsto, neppure nell'art. 656 c.p.p., relativo all'esecuzione delle pene detentive, alcun riferimento alla disciplina del decreto di latitanza, posto che in questo secondo caso è da ritenere sufficiente che lo stato di latitanza risulti dal verbale di vane ricerche[2]» (nella fattispecie la Corte ha rigettato il ricorso avverso il provvedimento con cui il tribunale, in qualità di giudice dell'esecuzione, aveva respinto la richiesta del p.m. di dichiarazione di latitanza per il condannato che si sottrae all'ordine di carcerazione).
Colui che si sottrae all'esecuzione di un ordine di carcerazione, a seguito di una sentenza passata in giudicato, è già munito di un difensore o per essere stato da lui nominato o per essere stato designato d'ufficio dal Pubblico ministero a norma dell'art. 655 c. 5 c.p.p. Le notifiche, quindi, non possono che essere effettuate mediante consegna di copia al difensore e non occorre un ulteriore provvedimento che dia ingresso, per così dire, al meccanismo sussidiario delle notifiche e a quello della rappresentanza del condannato da parte del difensore. Né sono necessarie - all'interessato o al suo difensore - ulteriori comunicazioni oltre quelle imposte dalla legge, e consistenti nelle notifiche dell'estratto contumaciale, dell'avviso di deposito della sentenza ecc., che sono propedeutiche al passaggio in giudicato della sentenza e che sono quindi antecedenti alla stessa emissione dell'ordine di carcerazione, ordine che viene consegnato all'interessato all'atto dell'esecuzione e notificato al difensore.
In definitiva, a seguito dell’emissione dell’ordine di esecuzione pena, è sufficiente che la polizia giudiziaria rappresenti l’impossibilità di dare esecuzione al provvedimento de quo, in quanto il condannato risulta irreperibile sul territorio nazionale, a seguito di ricerche effettuate in modo esaustivo ed esauriente sulla base delle ordinarie verifiche su: presenza presso l’ultima residenza, il luogo dove esercitava la propria attività lavorativa e di nascita, cancellazione per irreperibilità dalle liste anagrafiche del comune di residenza, restrizione in alcuna struttura carceraria italiana, rinnovamento dopo la scadenza della patente di guida o di altri documenti d'identità, mancanza di controlli sul territorio a suo carico, ecc. E non appare necessaria, va ribadito, una formale dichiarazione di latitanza, ai sensi dell' art. 295 c. 2 c.p.p..
2.3. Sull'indispensabilità delle intercettazioni ai fini della cattura e sulla non necessità di una motivazione sull'esistenza di gravi indizi di reato
Ai fini dell'espletamento delle attività intercettive, ex art. 295 c. III c.p.p., e dunque ivi comprese quelle in fase esecutiva, non è necessario che si dimostri l'assoluta indispensabilità, come richiesto in via generale, o la necessità di procedervi, come è previsto per i reati di criminalità organizzata. È sufficiente che le stesse agevolino e rendano, quindi, più facili le ricerche del latitante. In altri termini, basta il requisito della mera utilità, che appare decisamente più blando rispetto a quelli dell'indispensabilità e della necessità, sicché vi si può agevolmente fare ricorso anche se altre iniziative investigative sono percorribili. La Corte di Cassazione[3], infatti, nel prendere atto del rinvio normativo alla disciplina generale prevista per le intercettazioni in fase di indagini preliminari, sottolinea che «non può non comportare qualche problema di adattamento in ragione delle peculiarità delle intercettazioni per la ricerca di latitanti, specie se ad ordine di esecuzione, non potendosi, in particolare, esigere, a fronte di sentenza irrevocabile di condanna, una motivazione sull'esistenza di gravi indizi di reato ed essendo il requisito della assoluta indispensabilità del mezzo sostituito, nel caso in esame, dalla mera utilità dello stesso, come desumibile dal tenore del terzo comma dell'art. 295, secondo cui le intercettazioni possono essere disposte «al fine di agevolare», ovvero di rendere più facili, le ricerche (ed "agevolazione" è concetto diverso e logicamente incompatibile con quello di "assoluta indispensabilità"».
Al fine di individuare con esattezza l’attuale luogo di dimora del latitante, per poter dare esecuzione, ai fini estradizionali, al provvedimento di esecuzione, l'esperienza giudiziaria ha rivelato che appare utile procedere alle attività intercettive dei componenti la più stretta cerchia familiare (padre, madre, zia, ex compagna), perché è ragionevole che il condannato li contatti.
2.4. Sull'essersi il condannato sottratto volontariamente all'ordine di carcerazione
Il requisito della sottrazione volontaria può essere dimostrato alla stregua di molteplici fattori idonei a rappresentare dati inequivoci per dimostrare la volontarietà della sottrazione. E così, a titolo meramente esemplificativo, il numero dei processi celebrati e l'arco di tempo significativo in cui si sono tenuti[4], nel cui ambito il condannato ha esercitato tutte le prerogative difensive; l'essere stato l'irreperibile attinto in più occasioni da misure cautelari nel corso delle investigazioni; la sussistenza di elementi che facciano ritenere che il condannato abbia dimora fissa.
2.5. Sull'ambito di utilizzabilità degli esiti dell'attività intercettiva disposte per la ricerca del latitante
Gli esiti di tale attività possono essere utilizzati a fini di prova nel procedimento attinente al reato di procurata inosservanza di pena commesso in favore del condannato latitante, senza che possano valere i limiti di cui al c. 1 dell'art. 270 c.p.p., giacché detto procedimento non può tecnicamente considerarsi «diverso», «nel senso sostanziale in cui va intesa tale nozione nella norma citata, rispetto all'ambito operativo in cui si è svolta tale ricerca, con il quale presenta evidenti profili di stretta connessione storica e funzionale[5]».
Ulteriori pronunce della Corte di Cassazione consentono l'utilizzo degli esiti delle intercettazioni disposte per la cattura del latitante in altri procedimenti anche al di fuori dei limiti di legge, in considerazione dell'omesso richiamo all'art. 271 c.p.p. da parte dell'art. 295, comma 3 c.p.p.[6]. Similmente, è stato previsto che i risultati di dette intercettazioni di conversazioni o comunicazioni possano essere utilizzati a fini cautelari nei confronti del soggetto indagato del reato di favoreggiamento personale a favore del latitante e, con riferimento a essi, non operano i divieti di utilizzazione previsti dall'art. 271 c.p.p.[7].
3. Conclusioni
L'esigenza di disporre intercettazioni di condannati irreperibili concretamente si giustifica in virtù della spiccata pericolosità sociale del latitante, la cui pervicacia emerge dal numero di condanne riportate e dalla tipologia di reati perpetrati. E spesso le possibilità di rintracciare il condannato passano attraverso l’attività intercettiva dei componenti della sua più stretta cerchia familiare (padre, madre, ex compagna-i, zia, nipoti, fratelli).
L'analisi effettuata consente di apprezzare come lo strumento dell'intercettazione in fase esecutiva, poco utilizzato negli uffici giudiziari, presenti evidenti vantaggi che ne consigliano l'utilizzazione, quali: la non necessità della previa dichiarazione di latitanza, essendo sufficiente il verbale di vane ricerche, e di una motivazione sull'esistenza di gravi indizi di reato, a fronte di sentenza irrevocabile di condanna già emessa nei confronti del latitante; e, comune a tutte le intercettazioni ex art. 295 c. p. p., la mera utilità dell'attività intercettiva per procedervi; l'utilizzabilità dei risultati ai fini di prova di altri reati, pur essendo state le attività dirette esclusivamente alla cattura del latitante, la possibilità di impiegare i risultati in altri procedimenti penali senza che operino i divieti previsti dall'art. 271 c. p.p.. Invero, con riferimento a tale ultimo aspetto, potrebbero sorgere problemi di armonizzazione con i più rigorosi principi stabiliti dalle Sezioni Unite, Cavallo[8], con riferimento alle intercettazioni in fase di indagine.
L'esperienza maturata dimostra che, quando il condannato risulti o si ipotizza trovarsi all'estero, le attività intercettive richiedono contestualmente l'emissione del MAE e/o richieste di estradizione, nonché l'intervento dell'Interpol per ottenere la collaborazione delle polizie straniere al fine di effettuare le necessarie investigazioni correlate all'individuazione del condannato e per riuscire a ottenerne poi l'estradizione.
[1] V. Cass. sez. 1 n. 3209 del 1^ giugno 1998, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 16 settembre 1998 V anche Cass. sez I del 9 dicembre 1999, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 19 gennaio 2000, n. 663.
[2] Cfr. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 283 del 19 gennaio 2000, la cui motivazione è stata depositata in Cancelleria il 6 aprile 2000. In proposito, l'ulteriore pronuncia si è mossa sulla stessa linea: «...In proposito, va innanzi tutto rilevato che, in generale, l'emissione, nel corso di un procedimento, di un provvedimento del giudice avente natura dichiarativa deve essere prevista dalla legge e deve comunque essere preordinato ad una ben precisa finalità. Sotto tali profili mentre, quando si tratta di persona che si sottragga volontariamente alla esecuzione di una misura cautelare, la previsione normativa è facilmente identificabile nel 2^ comma dell'art.295 cod. proc. pen. e le finalità vengono agevolmente individuate in quella di dare ingresso al sistema delle notifiche previste dall'art.165 c.p.p. ed in quella di assicurare al latitante il diritto di difesa e di garantire la conoscenza del provvedimento restrittivo attraverso il meccanismo del deposito in cancelleria e della notifica di esso al difensore - quando si tratta di persona che si sottragga alla esecuzione di una condanna definitiva, riesce alquanto difficoltoso ricercare la norma che, più o meno esplicitamente, preveda la dichiarazione di latitanza, ed è ancora più difficile la individuazione delle finalità di tale dichiarazione. Si potrebbe dare la risposta, per certi versi semplicistica, che, poiché ai sensi del primo comma dell'art.296 c.p.p. "è latitante chi volontariamente si sottrae . . . a un ordine con cui si dispone la carcerazione", il giudice deve, a norma dell'art.295.2, se ritiene le ricerche esaurienti, dichiarare, nei casi previsti dall'art.296, lo stato di latitanza. Ma, quando si tratta di individuare le finalità di tale provvedimento, il problema si complica non poco. Ed infatti colui che si sottrae alla esecuzione di un ordine di carcerazione, a seguito di una sentenza passata in giudicato, è già munito di un difensore o per essere stato da lui nominato o per essere stato designato d'ufficio dal Pubblico ministero a norma dell'art.655.5 cod. proc. pen. Le notifiche, quindi, non possono che essere effettuate mediante consegna di copia al difensore e non occorre un ulteriore provvedimento che dia ingresso, per così dire, al meccanismo sussidiario delle notifiche e a quello della rappresentanza del condannato da parte del difensore. Né sono necessarie - all'interessato o al suo difensore - ulteriori comunicazioni oltre quelle, imposte dalla legge, e consistenti nelle notifiche dell'estratto contumaciale, dell'avviso di deposito della sentenza ecc., che sono propedeutiche al passaggio in giudicato della sentenza e che sono quindi antecedenti alla stessa emissione dell'ordine di carcerazione, ordine che viene consegnato all'interessato all'atto della esecuzione e notificato al difensore. Le ragioni e le finalità di una eventuale formale dichiarazione di latitanza restano quindi oscure, ragion per cui si deve affermare, come ha fatto il Tribunale del riesame di Torino - ed a prescindere dalle motivazioni dell'ordinanza impugnata - che il legislatore abbia volutamente inteso differenziare le due posizioni (quella del "latitante" rispetto ad. un provvedimento impositivo di custodia cautelare e quella del "latitante" rispetto ad un ordine di carcerazione) omettendo di prevedere, per quest'ultimo, qualsiasi riferimento alla disciplina del decreto di latitanza, dato che in questo secondo caso la latitanza non abbisogna di una formale dichiarazione, emergendo essa comunque dal verbale di vane ricerche. Tuttavia, con riferimento al caso in esame, si potrebbe obiettare che, qualora dovesse sorgere l'esigenza di agevolare le ricerche del latitante e, per soddisfare tale esigenza, si appalesi l'opportunità di disporre intercettazioni telefoniche o ambientali, la dichiarazione di latitanza sia comunque un provvedimento necessario per attribuire formalmente al soggetto interessato, per ragioni di garanzia, lo status di latitante, in qualche modo propedeutico alla effettuazione delle intercettazioni. A tale ulteriore osservazione si può però controbattere che il Giudice, nel. momento in cui autorizza le intercettazioni ritenute utili per la ricerca del latitante, il suo provvedimento autorizzativo assume nello stesso tempo, sia pure con valutazione implicita, l'effetto di attribuire al soggetto interessato lo status di latitante. Peraltro, anche a volerne ritenere l'obbligatorietà, la mancanza di una formale dichiarazione di latitanza non è causa di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni autorizzate ed eseguite. Infatti, la norma di cui all'art.271 cod. proc. pen. prevede che i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati "qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli art.267 e 268 commi 1 e 3". Si tratta, come è pacifico, di una elencazione tassativa, non suscettibile di ampliamento oltre i casi specificamente previsti, per il principio generale di conservazione della validità degli atti al di fuori di esplicite previsioni normative che ne prevedano la invalidità. Orbene, l'intercettazione eseguita in mancanza di un formale provvedimento dichiarativo della latitanza non può configurarsi come eseguita "fuori dei casi consentiti dalla legge", né, tanto meno, senza l'osservanza delle disposizioni si cui agli artt.267 e 268 cod. proc. pen. Non si può far rientrare nel novero dei casi in cui l'intercettazione sia avvenuta al di fuori di una espressa previsione normativa che la consenta, per il semplice motivo che l'espressione "fuori dei casi consenti" ha una portata ben precisa e diversa rispetto alle ipotesi in cui, pur trovandosi in un caso previsto dalla legge, non siano state eventualmente osservate determinate formalità. In tale evenienza, in mancanza di una norma che preveda la nullità o la inutilizzabilità dell'atto, ci si troverà di fronte ad una mera irregolarità, che comunque non inficia e lascia inalterata la piena validità dell'atto stesso. Nella specie l'intercettazione è stata regolarmente autorizzata e rientrava pienamente in uno dei casi in cui la legge ne consente, a norma dei commi 3 e 3 bis dell'art.295 cod. proc. pen., l'espletamento, trattandosi di dover agevolare le ricerche di una persona che si era fino ad allora sottratta alla esecuzione di un ordine di carcerazione. e quindi da definire "latitante" ai sensi del primo comma dell'art.296. Pertanto, a tutto voler concedere, si tratterebbe in ogni caso di una mera irregolarità, che non comporta la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, rimanendo essa al di fuori dall'ambito di applicazione della norma di cui al primo comma dell'art.271 cod. proc. pen...» (v. Cass. sez. 1 n. 3209 del 1^ giugno 1998, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 16 settembre 1998, già citata).
[3] V. Cass. sez I del 9 dicembre 1999, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 19 gennaio 2000, n. 663.
[4] In un procedimento trattato presso gli uffici giudiziari fiorentini, si sono valorizzate le sentenze emesse dal 2006 al 2019, dunque nell'arco di 13 anni.
[5] Cass. pen, sez VI, 16 aprile 2009, n. 22705.
[6] Cass. pen., sez I 19 novembre 2009, n. 298.
[7] Cass. pen sez VI, 15 ottobre 2009, n. 4452.
[8] Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 28 novembre 2019, n. 51, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 19 gennaio del 2020.