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Dialogo a più voci sulla riforma delle intercettazioni

La riforma delle intercettazioni. Buoni propositi, ma notevoli criticità

di Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Roma

 

La riforma in materia di intercettazioni è certamente ispirata da ottime intenzioni nella ricerca di un difficile e delicato equilibrio tra i valori in gioco. Alcune delle soluzioni adottate presentano, però, notevoli criticità che rischiano di vanificare gli obiettivi perseguiti e di creare notevoli problemi di funzionalità per gli uffici.

La materia delle intercettazioni e della loro diffusione è da sempre materia incandescente. Difficilissimo, se non impossibile, trovare un giusto equilibrio tra i tanti valori in gioco. Le regole possono fare qualcosa, ma molto è affidato alla cultura e alla deontologia degli operatori coinvolti. Ed è quindi comprensibile che una legge, al di là dell’effettiva efficacia precettiva, provi anche ad assumersi compiti di orientamento culturale.

La riforma delle intercettazioni varata dal Governo nel dicembre scorso è condivisibile nella sua ispirazione di fondo e anche in alcune felici intuizioni di dettaglio. Ma le buone intenzioni non producono automaticamente una buona legge, la quale invece si giudica dai … particolari.

Alcune criticità della riforma approvata rischiano di renderla ingestibile e di tradirne l’ispirazione. Segnalarle, e indicare possibili rimedi, è un dovere di tutti gli operatori, non certo per amore di polemica, ma al solo scopo di contribuire a realizzare un risultato su cui tutti ci diciamo d’accordo. Ed è questo lo spirito delle note che seguono.

La rilevanza. La riforma affida alla Polizia giudiziaria il compito di selezionare, durante la fase degli ascolti, le conversazioni rilevanti, che sole potranno essere trascritte nei cd. brogliacci. Ora, il concetto di rilevanza è certamente utile nel dibattito pubblico per spiegare l’ispirazione della riforma (evitare la diffusione di notizie riservate non rilevanti per il processo),ma sul piano processuale è termine che mal si adatta a regolare la materia. La rilevanza è, infatti, concetto utile nella fase del giudizio, laddove l’imputazione definisce il tema di prova e consente di selezionare ciò che è, rispetto ad esso, rilevante (art. 187 cpp). Nella fase delle indagini, dove il tema di prova è inevitabilmente più fluido e cangiante, più che di rilevanza dovrebbe parlarsi di utilità o di pertinenza rispetto ai temi di indagine. Ma soprattutto, in questa fase, è difficilissimo, se non impossibile, definire, in positivo, ciò che è utile, pertinente o rilevante. Sovente, infatti, la utilità di una conversazione emerge solo in un secondo momento, attraverso incroci con altre conversazioni o con altre emergenze investigative. Vietare alla Polizia giudiziaria di utilizzare i brogliacci per il loro scopo proprio, uno strumento di lavoro sul quale annotare provvisoriamente il contenuto delle conversazioni intercettate, significa rischiare di perdere irrimediabilmente materiali di prova che potrebbero rivelarsi utili, se non anche decisivi, sia per l’accusa che per la difesa. Sarebbe di gran lunga preferibile usare, invece, una definizione in negativo che porti ad escludere, in questa fase, dalle trascrizioni tutto ciò che è manifestamente irrilevante, o, direi meglio, manifestamente estraneo alle indagini.

Le annotazioni preventive.  Secondo alcuni, però, questo rischio sarebbe scongiurato dalla nuova disposizione introdotta nel comma 4 dell’art. 267 cpp che prevede che la Polizia giudiziaria informi preventivamente il pubblico ministero con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni. Una norma piuttosto oscura e di difficile interpretazione. È evidente che le conversazioni da inserire nella annotazione preventiva sono quelle che la Polizia giudiziaria non ha inserito nei verbali e dunque ha ritenuto irrilevanti. Ma quali?

Secondo una prima opzione interpretativa la Polizia giudiziaria dovrebbe riferire sul contenuto di tutte le conversazioni intercettate ritenute irrilevanti. Questa soluzione sembra quella più aderente alla lettera della legge e, peraltro, è l’unica che consente di dare un senso alla nuova disposizione introdotta con l’art. 268, comma 2-ter.

Ma avrebbe conseguenze devastanti. Da un lato, infatti, imporre alla Polizia giudiziaria di riportare nelle annotazioni preventive il contenuto di tutte le conversazioni intercettate, anche quelle manifestamente estranee alle indagini, significherebbe oberarla di un lavoro tanto inutile quanto gravoso. Basti pensare che normalmente in una indagine il materiale utilizzato non è in media più del 10/15% del totale delle intercettazioni.

Dall’altro lato, con una singolare eterogenesi dei fini, si imporrebbe la trasposizione su carta anche del contenuto di conversazioni privatissime aumentando notevolmente il rischio di una loro diffusione esterna. Oggi la gran parte di queste conversazioni viene consegnata all’oblio con la saggia annotazione non inerente al servizio. Se fossero trascritte e messe a disposizione di tutte le parti, seppure in una annotazione destinata a restare conservata nell’archivio riservato, il rischio di una loro propalazione aumenterebbe in misura certamente proporzionale alla notorietà dell’interessato e alla pruriginosità della notizia.

La seconda opzione, suggerita esplicitamente dalla relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo, vorrebbe che nella annotazione preventiva fossero inserite solo le conversazioni la cui rilevanza appaia, alla Polizia giudiziaria, dubbia. E ciò al fine di consentire al pubblico ministero di dettare le opportune istruzioni e direttive. A parte la scarsa aderenza di tale opzione alla lettera della legge e la impossibilità di conciliarla con la disposizione di cui all’art. 268, comma 2-ter (se il pubblico ministero deve adottare un decreto motivato per disporre la trascrizione nei brogliacci di conversazioni escluse dalla Polizia giudiziaria come potrebbe dettare le opportune istruzioni e direttive alla Polizia giudiziaria sulla redazione dei brogliacci?) il risultato sarebbe comunque che la Polizia giudiziaria potrebbe annotare nei brogliacci solo le conversazioni della cui rilevanza è certa e nelle annotazioni preventive tutte quelle su cui ha dubbi, con il che, si ribadisce, andrebbero irrimediabilmente perse tutte quelle conversazioni che oggi vengono annotate nei brogliacci e la cui rilevanza è valutata in modo unitario al termine delle attività.

Il decreto motivato del pubblico ministero. Si è fatto cenno sopra alla disposizione introdotta dall’art. 268, comma 2-ter che prevede che il pubblico ministero possa disporre con decreto motivato la trascrizione nei verbali di conversazioni ritenute rilevanti o, se relative a dati sensibili, necessarie. Si tratta di una disposizione piuttosto singolare. È difficile, infatti, comprendere perché la Polizia giudiziaria possa inserire, a sua discrezione, nei verbali tutto ciò che ritiene rilevante, senza dovere di motivare e anche se attinente a dati sensibili, mentre il pubblico ministero possa ottenere lo stesso risultato solo con un provvedimento motivato e, se si tratta di dati sensibili, su presupposti diversi e più stringenti. Ma se il pubblico ministero, come dice la relazione di accompagnamento, è il dominus dell’attività di intercettazione e può dettare istruzioni alla Polizia giudiziaria sulla redazione dei brogliacci, perché mai dovrebbe prendersi la briga di adottare un decreto motivato per ottenere ciò che la Polizia giudiziaria, sua delegata, può fare senza motivazione e sulla base di presupposti meno stringenti?

È singolare, poi, che in una legge finalizzata alla tutela della riservatezza sia previsto un decreto motivato del pubblico ministero per inserire una conversazione omessa dalla Polizia giudiziaria, ma non sia invece previsto un analogo potere per escludere, dai verbali, dalle annotazioni, dalle informative le trascrizioni di conversazioni che reputi estranee al tema di indagine e potenzialmente lesive della riservatezza delle persone.

Sono convinto da tempo che nel codice di procedura penale manchi un vero e proprio statuto della riservatezza delle persone che disciplini tutte le ipotesi in cui negli atti del procedimento entrino informazioni attinenti alla vita privata delle persone e che sono del tutto estranee alle indagini. Si parla sempre e solo di intercettazioni, ma non si pensa mai alla quantità di dati personali che si introducono negli atti di un procedimento con il sequestro di un tablet o di uno smartphone, la cui lettura consente di acquisire la rete di contatti dell’indagato, i messaggi con i suoi complici, e altre informazioni utili alle indagini, ma insieme anche alla comunione della figlia e/o alle foto intime dell’amante. Basterebbe prevedere, anche in questo caso, la possibilità di disporre con decreto del pubblico ministero la conservazione di questo materiale in un archivio riservato, a disposizione delle parti ma con vincolo di segreto, e poi la distruzione su ordine del giudice previo contraddittorio con le parti. Sotto questo punto di vista si tratta davvero di una occasione persa.

I contenuti dell’archivio riservato. La soluzione dell’archivio riservato è, come si è detto, una intuizione felice della legge, soprattutto nella parte in cui prevede che l’accesso agli atti ivi depositati (inderogabile per garantire il diritto di difesa) non ne fa venir meno il vincolo di segretezza, che cadrà solo dopo l’acquisizione da parte del giudice. Proprio per questo, però, sarebbe stato necessario il massimo rigore nella indicazione degli atti da destinare all’archivio. Le intercettazioni, infatti, sono costituite sì dalle registrazioni e dai verbali di trascrizione, ma il loro contenuto, nel corso delle indagini, confluisce anche nelle annotazioni con le quali la Polizia giudiziaria propone la proroga delle attività di intercettazione o nuove attivazioni, nelle richieste del pubblico ministero di attivazione o di proroga, nei decreti del giudice. Sarebbe utile sapere se e quali di questi atti devono essere custoditi nell’archivio riservato. Sul punto la legge è molto vaga e imprecisa. Nel comma 1 dell’art. 269 si fa riferimento a i verbali e le registrazioni, e ogni atto ad esse relativo. Nel nuovo articolo 89-bis delle disposizioni di attuazione si parla di annotazioni, verbali, atti e registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono. Ora la legge non è un componimento poetico, per il quale si sconsiglia la ripetizione dello stesso fonema; la legge è normalmente cosa noiosa, che anzi ama le ripetizioni. Invece qui nell’art. 269 si parla solo di verbali e di registrazioni, nonché di atti ad esse relativi, sembra intendersi gli atti relativi alle registrazioni. Nell’art. 89-bis si parla, oltre che di verbali e di registrazioni anche di annotazioni e di atti che afferiscono (che si può intendere come sinonimo di sono relativi a)alle intercettazioni. L’interprete è costretto ad interrogarsi su quali siano gli atti relativi alle registrazioni e se siano cosa diversa da quelli che afferiscono alle intercettazioni. E se possano ricomprendersi tra questi, da destinare quindi all’archivio riservato, le annotazioni con le quali la Polizia giudiziaria propone l’attivazione o la proroga delle intercettazioni, le richieste del pubblico ministero e i decreti del giudice. Circostanza decisiva, e che per questo non doveva essere lasciata ad ambiguità lessicali, perché in quegli atti sovente confluisce il contenuto di conversazioni che in quella fase di indagine appaiono utili e pertinenti, ma che poi, alla fine delle indagini, quando si definisce compiutamente il tema d’accusa, possono rivelarsi del tutto irrilevanti.

Il rischio di un blocco dei processi. Come si diceva all’inizio le leggi non si giudicano dalle intenzioni, ma dai dettagli, il più minuto dei quali può determinarne l’esito in un senso o nell’altro. Con il nuovo art. 268-quater il legislatore disciplina le modalità di acquisizione da parte del giudice delle intercettazioni richieste dalle parti. Al comma 3 della norma si dice che gli atti e i verbali oggetto di acquisizione sono inseriti nel fascicolo di cui all’art. 373, comma 5 cpp, che altro non è che il fascicolo del pubblico ministero. Analoga previsione è contenuta nell’art. 268-ter, comma 1, nei casi in cui sia applicata una misura cautelare. Apprendiamo così da queste norme che gli atti contenuti nell’archivio riservato non solo hanno un regime di conservazione e di segretezza diverso (il che francamente sarebbe bastato), ma proprio non fanno parte del fascicolo del pubblico ministero, nel quale entrano solo al termine del procedimento di acquisizione. Ciò comporta, però, che nei casi in cui la procedura di acquisizione coincida, come normalmente avviene, con la conclusione delle indagini il processo subirà un inevitabile blocco fino a quando non sia completata la procedura di acquisizione da parte del giudice. Il pubblico ministero, infatti, con la richiesta di rinvio a giudizio trasmette al giudice gli atti delle indagini contenuti nel fascicolo di cui all’art. 373, comma 5 (art. 416 comma 2). Dunque il giudice dell’udienza preliminare non avrà a disposizione, e non potrà utilizzare per la decisione, gli atti contenuti nell’archivio riservato fino a quando non sarà completata la procedura di acquisizione. E quindi non potrà pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio né tantomeno celebrare riti alternativi fino a quando il fascicolo del pubblico ministero non sarà completo. E chi pensa che tale procedura possa concludersi in tempi rapidi evidentemente ha poca esperienza di procedimenti complessi e con numerosi imputati.

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Intercettazioni: salvaguardare le esigenze del processo senza sacrificare inutilmente i diritti della persona

di Elisabetta Cesqui, capo di Gabinetto del Ministro della giustizia

 

Processo penale, riservatezza, libertà di stampa, diritti di difesa, esprimono esigenze asimmetriche la cui tutela deve trovare necessariamente un pur difficile punto di equilibrio senza limitare la possibilità di ricorso alle intercettazioni. Il primo presidio della riservatezza sta nella limitazione della cerchia di chi ha accesso all’informazione. Imporre una selezione delle conversazioni che non sacrifichi i diritti della persona più di quanto le esigenze del processo impongano può essere la soluzione.

Esigenza di accertamento delle responsabilità penali, tutela della privacy, diritti della difesa, diritti dell’informazione: il legislatore ha cercato un punto di equilibrio che contemperasse queste quattro esigenze e lo ha fatto nello spazio stretto che escludeva ogni limitazione della possibilità di ricorso alle intercettazioni, evitando di imboccare una scorciatoia che in passato aveva solleticato l’iniziativa interessata di chi, dietro lo schermo della tutela della vita privata delle persone, mirava a tagliare le unghie alle indagini, specie in tema di corruzione e di reati economico-finanziari. Qualcuno potrà dire che l’obbiettivo non è stato raggiunto, ma la scelta del legislatore ha seguito un ragionamento abbastanza lineare: dire che le conversazioni irrilevanti, contenenti dati sensibili o inutilizzabili, che non sono destinate a confluire negli atti del processo, non devono per ciò solo essere diffuse è come dire che è vietato pensare all’elefante rosa, e non fa certo argine l’ipocrisia del divieto contenuto nell’art. 114 cpp, da una parte poco dissuasivo per la irrilevanza della sanzione e dall’altra parte troppo ampio per sopportare un indiscriminato inasprimento delle pene. Occorre perciò salvaguardare a monte la riservatezza delle conversazioni non utili al processo. Da qui la necessità che le registrazioni che le contengono vengano trattate diversamente dalle altre, conservate con maggior cautela, rese più difficilmente accessibili, protette attraverso il divieto di estrarne copia, pur salvaguardando la facoltà dei difensori di accedervi, sottoposte alla valutazione di un giudice per recuperarle al processo quando la difesa le ritenga significative. Parallelamente emerge la necessità di individuare le conversazioni rilevanti, come tali necessariamente destinate alla pubblicità del giudizio e quindi alla conoscibilità generale anche quando questo comporti il sacrificio di veri e propri diritti o riguardino dati sensibili, e per queste indicare un percorso che le incanali, secondo le regole già previste, verso la loro indispensabile ostensione. La constatazione di partenza è quasi banale: la probabilità di diffusione è inversamente proporzionale al numero di persone che vengono a conoscenza del dato, ma la cerchia cui è riservata la conoscenza deve essere limitata senza andare a scapito dei diritti di difesa. Operazione più difficile a farsi che a dirsi, non foss’altro per la più volte segnalata ed ovvia difficoltà di definire il concetto di rilevanza, che muta a seconda che la si riferisca alla prova di un fatto specifico o più in generale alle esigenze dell’investigazione e che naturalmente può cambiare nel corso del tempo, rendendo determinante un elemento che in un’altra fase dell’indagine appariva irrilevante. Ma operazione non impossibile se contempla la possibilità di recupero delle conversazioni originariamente accantonate, non dannosa se basata su un concetto ampio di rilevanza, fattibile se supportata da un sistema informatico adeguato. È innegabile che quello tra le quattro esigenze indicate all’inizio è un equilibrio difficile che non può essere meccanicamente trovato dando a ciascuna componente lo stesso peso e lo stesso volume: non si tratta di contrapporre riservatezza ed esigenze dell’accertamento della responsabilità penale sullo stesso piano e calare un colpo di accetta al centro, ripetere la stessa operazione per i diritti della difesa e dell’informazione e poi mettere in fila i quattro cubi; occorre invece costruire un sistema bilanciato che, come un mobile di Calder, trovi in ogni momento un suo sempre dinamico bilanciamento. Missione impossibile? Non meno di quella di pretendere che i medici del pronto soccorso intervengano sui feriti per salvare loro la vita, che è certo l’interesse prevalente, ma rispettino il pudore del paziente e informino lui ed i suoi familiari dei trattamenti ottenendone il consenso. Complica la vita dei sanitari, specie in condizioni di emergenza, fa perdere tempo e impegna personale, non impedisce che il dolore e la sofferenza si consumino in uno spazio pubblico, ma a nessuno verrebbe in mente di dire che se ne può fare a meno Missione inutile? Certamente sì se ci si illude che qualunque riferimento alla vita privata delle persone, ed anche solo delle persone diverse dagli indagati, possa essere mantenuta segreta e scomparire dalle cronache giudiziarie senza che questo significhi la negazione della funzione stessa del processo penale e dei diritti essenziali dell’informazione; certamente no se passiamo in rassegna la spietata carneficina della vita privata di tanti che, a prescindere dalla rilevanza processuale delle condotte che la contraddistinguono, transita da carte processuali malamente selezionate direttamente in pasto all’opinione pubblica, sia quella ampia dei lettori dei grandi giornali e dei social media, sia quella più limitata della stampa locale o delle mailing list. È vero che molte delle citazioni che ormai appartengono al lessico familiare delle cronache giudiziario-politiche tratte dalle intercettazioni continuerebbero a circolare legittimamente , perché processualmente rilevanti, ma non si tengono così in conto tutte quelle sventagliate di piccole e grandi lesioni inutili della riservatezza che non hanno lasciato memoria duratura, ma hanno segnato a lungo o per sempre la vita privata di tante persone. L’attuazione data dal legislatore di delega è sembrata a molti una soluzione equilibrata, altri non condividono il modo scelto per raggiungere il risultato voluto, ma più che suggerirne uno diverso sembrano ritenere che l’operazione sia sostanzialmente impossibile e che il punto di equilibrio più avanzato possibile fosse già stato trovato attraverso le circolari dei procuratori. Lo sforzo fatto per prima dalla Procura di Roma e poi seguito da molti altri Uffici per disciplinare l’uso di uno strumento prezioso e terribile come quello delle intercettazioni è stato sicuramente positivo e bisogna riconoscere al procuratore Pignatone di aver con coraggio aperto la strada tra le critiche di tanti che oggi lo seguono e ne elogiano l’esempio, introducendo regole organizzative che, se fossero state adottate prima e magari sollecitate dal Consiglio superiore, avrebbero evitato qualche guasto e molte degenerazioni. Ma dire che non serve e non si può fare di più vuol dire rimettere ad un potere regolamentare mutabile col mutare delle dirigenze una materia così delicata e rassegnarsi ad un’altra singolarità italiana: così come abbiamo le colline senesi ed il limoncello di Sorrento così siamo l’unico Paese nel panorama delle nazioni civili a subire le conseguenze della degenerazione di un circuito virtuoso che partendo da una capacità investigativa elevata, da uno strumentario ampio di mezzi di ricerca della prova, da una elevato livello di garanzia dei diritti della difesa e dell’informazione produce troppo spesso cronache pettegole che rilanciano carte processuali sciattamente assemblate. Certamente il maggior momento di diffusione mediatico dei risultati delle intercettazioni consegue all’esecuzione delle misure cautelari ed è vero che gli atti mandati al gip con la richiesta continueranno ad essere messi integralmente a disposizione delle parti, ma dedurre da questo la sostanziale inutilità dell’intera innovazione normativa  significa fare leva su un argomento che forse prova troppo. È chiaro che l’esigenza di preservare la natura di atto a sorpresa della misura cautelare (oltre all’urgenza e alla gravità dei fatti che connotano tali iniziative processuali), impone di spostare in avanti il punto di equilibrio di cui abbiamo parlato, ed impedisce di osservare la procedura di deposito separato delle intercettazioni irrilevanti, ma è anche vero che non è dall’eccezione, per quanto significativa, che può trarsi la regola così come è vero che già ora l’ordinamento prevede che il pubblico ministero sottoponga al gip non tutti gli atti acquisiti al suo fascicolo, ma solo quelli sui quali ritiene di fondare la richiesta di misura. Una più matura e consolidata cultura della riservatezza faciliterà una selezione degli atti da trasmettere al gip per la richiesta che eviti di inserirvi profluvi di trascrizioni di conversazioni ininfluenti e, a monte, modellerà anche la redazione delle informative, che continueranno a essere allegate alla richiesta di misura, ma che ben potranno essere più accorte ai valori in gioco evitando alluvionali trascrizioni che affidano solo al neretto della grafica il compito di tracciare il sentiero dei passaggi significativi. Chiunque abbia dimestichezza con gli atti di un procedimento basato sulle intercettazioni conosce la incerta ed estenuante fatica che comporta seguire questi percorsi, ma chiunque abbia dimestichezza con i più banali programmi dei computer sa come sia facile estrapolarne letture mirate e capziose. Nella stessa direzione va la previsione che limita ai brani essenziali la (certamente indispensabile) citazione testuale delle intercettazioni nelle richieste e nei provvedimenti cautelari. Lungi dal richiedere una ipocrita e necessariamente infedele parafrasi del contenuto, l’obbligo tende a valorizzare i passaggi determinanti e impone di argomentarne la portata. D’altra parte provvedimenti cautelari più sobriamente redatti ben potranno essere, come prevede ora la legge, esclusi dal divieto di pubblicazione integrale che tutela gli atti fino alla fine delle indagini preliminari o al termine dell’udienza preliminare, consentendo, se ritenuto opportuno, un accesso all’informazione sottratto alla rete dei rapporti personali tra singoli giornalisti e uffici giudiziari. In questo e non certo nella mancata (ipotetica) applicazione di una sanzione effettivamente irrilevante sta il valore della modifica dell’art. 114 cpp introdotta dalla legge. Guardando le cose dal punto di osservazione del Ministero, è utile sottolineare come in sede di redazione del decreto legislativo il colloquio con gli Uffici di procura è stato utile e serrato, e lo stesso reciproco spirito collaborativo continua anche in fase di attuazione e di realizzazione dell’archivio riservato. Si tratta di un’operazione complessa, che comporta innovazioni di carattere organizzativo e informatico di grande rilievo che si sta cercando di portare a compimento in tempi serrati. La nuova architettura informatica per la conservazione e consultazione delle intercettazioni sarà determinante per consentire il rispetto della legge senza eccessivo appesantimento degli adempimenti delle Procure e, soprattutto, garantirà un livello di sicurezza nettamente superiore a quello attuale. Sarà necessario, ma per questo il Ministero si sta già muovendo, supportare l’innovazione con la necessaria formazione del personale e rafforzare gli organici degli ausiliari, tenendo conto delle nuove esigenze nel destinare gli assistenti giudiziari che stanno prendendo servizio e arriveranno a breve. Difficile fare prognosi certe, ma è possibile determinare le condizioni che, come paventato, impediscano a molti processi di saltare sulle mine che la nuova disciplina disseminerebbe lungo il percorso.

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Un argomento scomodo (e omesso): il 114 cod. proc. pen.

di Valerio Spigarelli, avvocato del Foro di Roma

 

In tutta la discussione sulla riforma manca una domanda: come è possibile sostenere che l'art. 114 cod. proc. pen. non è una norma “effettiva” e poi discutere di tutto, meno che di farla diventare effettiva? 

In questo dibattito corale non tornerò sulle doglianze che l’avvocatura penale ha immediatamente avanzato in ordine alle parti della normativa che si traducono in un evidente pregiudizio per l’attività difensiva, prima tra tutte quella sulla impossibilità di ottenere copia dei files non acquisiti al fascicolo delle indagini, ovvero l’esiguità dei tempi per la cernita del materiale di intercettazione. Sono questioni talmente evidenti che avrebbero dovuto essere risolte in sede di formulazione della legge e che, probabilmente, toccherà alla Consulta rimettere in linea con la Costituzione.

Neppure tornerò sul molto che si è detto, per una volta senza distinzioni preconcette tra pm ed avvocati, in ordine al surplus di “potere” che si è attribuito alla Polizia giudiziaria in un settore che − come tutti sapevamo da sempre ma solo a seguito del caso Consip è risultato evidente per la maggioranza dei commentatori − nella “ordinaria” attività giudiziaria già la vede sottratta ad un reale controllo da parte del pubblico ministero.

Lo strumento “prezioso e terribile” delle intercettazioni, se non altro per la durata smisurata

che ne caratterizza l’impiego anche in indagini di modesta rilevanza, è già di fatto totalmente nelle mani della Polizia giudiziaria, è inutile far finta che non sia così. Finché non si tornerà al modello disegnato nel 1973 dalla Corte costituzionale, che vedeva tra i tratti fondamentali una ragionevole “brevità” di impiego di uno strumento di ricerca della prova che per definizione “sospende” il diritto costituzionale alla intangibilità delle comunicazioni, questi problema non si risolverà.

Ciò che invece mi colpisce del dibattito è che su di una questione, quella della sostanziale disapplicazione dell’art. 114 del codice di procedura, siano sostanzialmente tutti d’accordo. D’accordo nel senso di non ritenerlo un problema, anzi il problema. Il divieto di pubblicazione di atti ed immagini sarà pure una norma “imbelle”, tanto da non essere neppure presa in considerazione per l’esiguità della sanzione che la tutela, però non solo esiste ma è esistita in tutti questi anni in cui si è assistito alla sua violazione. Sarà pure minima la sanzione, ma sempre di sanzione penale si tratta, e si trattava. Non aver fatto rispettare quella norma, con buona pace del principio di obbligatorietà dell’azione penale che evidentemente vale un po’ meno nel caso del circuito mediatico, ci ha portati alla situazione attuale. Se, per tutelare le esigenze che, giustamente, sono alla base della riforma, invece di imboccare la strada della “rilevanza delle conversazioni” (assai complessa e che oggi si dimostra così piena di problemi) si fosse irrobustita la sanzione per la pubblicazione illegittima non avremmo potuto ottenere identici, se non migliori risultati? Se, quella sanzione, invece di corrispondere ai quattro baiocchi che non spaventano nessuno previsti dal 684 del codice penale, si fosse tarata, un po’ come avviene per la 231, in base a coefficienti progressivi in ragione della diffusione e del ricavo economico tratto da quella che è pur sempre una violazione di legge, siamo sicuri che saremmo ancora “l’unico Paese nel panorama delle nazioni civili” ad assistere alla diuturna quanto illegale pubblicazione di atti giudiziari? Sarà anche banale ma come è possibile sostenere che il 114 non è una norma “effettiva” e poi discutere di tutto meno che di farla diventare effettiva sul serio.

Certo, ci sarebbe voluto un po’ di coraggio, politico, a mettersi contro le lobbies editoriali, ma perché non provare, per una volta? Forse perché il consenso, quello che passa attraverso i circuiti mediatici, web incluso, non si può pregiudicare mettendosi contro le lobbies editoriali; e questo vale per chi, fisiologicamente, come la politica, se ne deve preoccupare, così come per chi, una significativa parte della magistratura requirente, ne ha fatto un’arma collaterale dell’attività giudiziaria.
Dietro la pubblicazione arbitraria di atti giudiziari, infatti, c’è anche questo.

07/05/2018
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Per descrivere lo stato dell’arte dei lavori legislativi sulla giustizia penale è ormai d’obbligo attingere alle metafore “stanche” che designano un eterno lavorio, il rifacimento dell’appena fatto, la riscrittura del già deciso: la Fabbrica di San Pietro, la tela di Penelope, la fatica di Sisifo et similia. Mentre ci si accinge ad abrogare totalmente il reato di abuso d’ufficio, ignorando le argomentate critiche di larga parte della dottrina penalistica e dei magistrati impegnati sul campo, si propone anche di rimettere mano alla tormentata disciplina della prescrizione, già oggetto di tre interventi riformatori succedutisi nell’arco di pochi anni. L’auspicio di quanti operano nel mondo della giustizia è che la normativa in tema di prescrizione, per la straordinaria rilevanza degli interessi in gioco, cessi di essere terreno di uno scontro pregiudiziale delle forze politiche e divenga oggetto di una soluzione largamente condivisa e perciò destinata – finalmente – a durare nel tempo. 

17/07/2023
La cd. “riforma Cartabia” e le trasformazioni impresse al giudizio di cognizione

La riforma non stravolge le linee portanti del giudizio dibattimentale. Tuttavia, il momento dibattimentale si inserisce in un contesto procedimentale significativamente modificato. Le modifiche intervenute – “a monte” e “a valle” della fase del giudizio – finiscono necessariamente con l’influenzare la fisionomia del giudizio di cognizione, chiamando tutti gli attori processuali ad un nuovo approccio su temi di assoluto rilievo, come la partecipazione al processo, l’organizzazione del giudizio, il metodo di ricerca della verità processuale, la decisione sull’imputazione e l’imposizione al colpevole della “giusta pena”.

19/06/2023