1. Un cauto ottimismo destinato ad andare deluso
Nella descrizione dei suoi promotori, il c.d. emendamento Costa al disegno di legge di delegazione europea recentemente approvato (l. 21 febbraio 2024, n. 15) intende «garantire l’integrale e compiuto adeguamento alla direttiva UE 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, anche al fine di integrare quanto disposto dal decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188».
L’affermazione di per sé indurrebbe a un cauto ottimismo. Sorvolando su qualche ridondanza lessicale, se ne potrebbe ricavare la consapevolezza che il percorso di adeguamento alle prescrizioni sovranazionali non sia giunto a compimento, che ci siano cioè ulteriori passi normativi da compiere per raggiungere il traguardo di assicurare l’effettivo rispetto dell’art. 27 comma 2 Cost. Verrebbe da pensare cioè che si sia preso atto dei rilievi indirizzati dalla dottrina al troppo circoscritto ambito applicativo del d.lgs. n. 188 del 2021 e che s’intenda colmare la vistosa assenza, in una disciplina che imbriglia entro maglie strette l’informazione sul procedimento penale a opera della magistratura, di prescrizioni indirizzate agli organi di comunicazione, il cui atteggiamento disinvolto sarebbe perfettamente in grado di vanificare anche l’impeccabile contegno informativo dell’autorità giudiziaria.
Simili aspettative sono destinate a restare deluse. La rimeditazione normativa lascia infatti inalterata quella falla della disciplina, imboccando una differente, e inattesa, direzione. Bersaglio dell’intervento è l’art. 114 c.p.p., che – come noto – in combinato disposto con l’art. 329 c.p.p., preposto a individuare gli atti coperti da segreto, definisce i limiti alla pubblicabilità degli atti del procedimento penale. Si conferisce al legislatore il mandato di intervenire prevedendo «il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare».
Lo sguardo del delegato potrebbe in prima battuta indirizzarsi al comma 2 dell’art. 114 c.p.p., là dove si impedisce la pubblicazione degli atti non più coperti da segreto «fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, fatta eccezione per l’ordinanza indicata dall’art. 292 c.p.p.». Un legislatore frettoloso e che abbia poca familiarità con l’intricata disciplina della materia potrebbe accontentarsi di tirare una riga sulla porzione finale del comma 2, aggiunta con disinvolta inconsapevolezza dalla legge n. 103 del 2017 (c.d. riforma Orlando). Non basterebbe però a soddisfare l’intenzione del delegante, dal momento che quell’inciso allora introdotto in extremis è giuridicamente irrilevante e dimostra soltanto una certa superficialità legislativa. Non c’era alcun bisogno di sottrarre specificamente l’ordinanza cautelare al divieto di pubblicazione, anche parziale, che il comma 2 contempla per gli atti che hanno cessato di essere segreti, nell’intento di impedire che la conoscenza testuale, sebbene parziale, arrechi pregiudizio alla corretta formazione del convincimento del giudice del dibattimento. Da sempre, infatti, il provvedimento che dispone una misura cautelare è liberamente pubblicabile perché – non trattandosi né di un atto del p.m. o della p.g. né di un atto di indagine – risulta estraneo all’elenco necessariamente tassativo degli atti segreti contemplato dal comma 1 dell’art. 114 c.p.p. Un delegato scrupoloso dovrebbe quindi introdurre un nuovo comma ad hoc, ma non ci dispiacerebbe – per ciò che diremo – che l’ordigno normativo in questione finisse per “auto-disinnescarsi”.
All’indomani della “riforma Orlando” si era avvertito che quell’inciso sovrabbondante sarebbe stato causa di «incertezze e disorientamenti»[1]; oggi il medesimo offre ai fautori dell’“emendamento Costa” un argomento – tanto suggestivo quanto infondato – per allontanare il sospetto di una manovra oscurantista rispetto alla cronaca giudiziaria: non si tratterebbe di un’autentica novità, ma solo del ritorno a un recente passato normativo, ovvero al regime anteriore al 2017.
2. L’inconferenza dei principi costituzionali richiamati
Se un limite alla pubblicabilità dell’ordinanza cautelare deve essere introdotto, è con tutt’altra finalità rispetto a quella attualmente invocata. Per risultare efficaci, l’ordinanza e la richiesta cautelari condividono la stessa esigenza di segretezza che caratterizza le attività investigative a sorpresa (e gli eventuali passaggi giurisdizionali di autorizzazione). Mentre di quest’ultima esigenza la “riforma Orlando” si è fatta carico intervenendo additivamente sull’art. 329 comma 1 c.p.p. – e così estendendo loro il regime di segretezza previsto dall’art. 114 comma 1 c.p.p. – della seconda non si è preoccupata, poco importa se per una svista o per il convincimento malinteso che richiesta e provvedimento cautelare possano essere ricompresi in una lettura estensiva della categoria degli atti di indagine e dell’istanza a essi prodromica. Un auspicabile intervento legislativo che volesse porre rimedio a tale omissione dovrebbe allora prevedere che la richiesta di una misura cautelare e l’ordinanza che la accoglie restino segrete, e di conseguenza non divulgabili, fino a quando il provvedimento restrittivo non venga eseguito o notificato all’interessato. Le uniche ragioni di segretezza in grado di prevalere sul diritto all’informazione sono di natura endoprocedimentale, indispensabili a permettere che si realizzi il periculum libertatis.
I promotori dell’emendamento ne individuano invece i referenti negli artt. 24 e 27 della Costituzione, ai cui «principi e diritti» l’interpolazione prefigurata – a loro dire – darebbe «attuazione». Sfugge invero il legame con il diritto di difesa, che in rapporto all’ordinanza cautelare semmai si esprime attraverso gli strumenti di impugnazione; ma non è meno oscura l’affermata relazione con l’art. 27 Cost.[2]: perché mai la diffusione dell’ordinanza cautelare – avendo cura di precisare la natura provvisoria del provvedimento, così da impedirne nella percezione collettiva l’equiparazione a una sentenza di condanna, e da farne risaltare tanto più le differenze rispetto a una condanna definitiva – dovrebbe vulnerare la presunzione di innocenza costituzionalmente sancita? Specie in considerazione dell’attuale fisionomia normativamente imposta.
Da un lato, la riforma Orlando ha introdotto correttivi rivolti a responsabilizzare il p.m. e il giudice per evitare che l’ordinanza cautelare veicoli indiscriminatamente gli esiti delle operazioni di captazione. Sia intervenendo sugli elementi che il p.m. deve trasmettere a supporto della istanza cautelare, così da assicurare, a tutela della riservatezza dei collocutori, tra cui è praticamente sempre compreso l’indagato o l’imputato, che l’inoltro dei «verbali di cui all’articolo 268 comma 2» c.p.p. avvenga «limitatamente alle comunicazioni e conversazioni rilevanti» (art. 291 comma 1 c.p.p.); sia orientando la tecnica di redazione tanto della richiesta quanto del provvedimento cautelare, in modo che, quando sia necessario riportarvi conversazioni e comunicazioni intercettate, ci si limiti a riprodurre soltanto i brani essenziali (artt. 291 comma 1-ter e 292 comma 2-quater c.p.p.).
Dall’altro, il d. lgs. n. 188 del 2021, nel declinare le prescrizioni sovranazionali a tutela della presunzione di non colpevolezza rispetto a «provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, che presuppongono la valutazione di … indizi di colpevolezza», impone all’autorità giudiziaria accortezze che appaiono trasparenti nelle intenzioni: secondo il nuovo art. 115-bis c.p.p. i «riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato» vanno limitati «alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento»; a presidiare l’osservanza di tale obbligo da parte dell’autorità giudiziaria, vi è la possibilità per l’interessato di chiedere all’organo giurisdizionale la correzione del provvedimento, così da riallinearlo al dettato dell’art. 27 Cost.[3].
3. Segue: e l’immotivato sacrificio imposto al diritto all’informazione giudiziaria
Secondo i promotori dell’emendamento, infine, il divieto di pubblicazione opera «nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione»; evidentemente cioè si ritiene che impedire la diffusione del provvedimento cautelare non comprima irragionevolmente la libertà di informare e il diritto di essere informati ormai pacificamente riconducibili alla richiamata previsione costituzionale; ovvero che esistano beni e interessi di rango sovraordinato la cui tutela esige di limitare quell’interesse generale all’informazione, connaturato agli ordinamenti democratici, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, «implica una pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee»[4].
Viene da osservare che quando tali notizie attengono a un procedimento giudiziario l’interesse alla loro diffusione è un interesse costituzionale qualificato, perché irrobustito dal legame con l’art. 101 Cost., il quale, prevedendo che la giustizia sia amministrata in nome del popolo, fonda il diritto del medesimo a conoscere come venga amministrata in suo nome. Si tratta, poi, di un valore espressamente riconosciuto dalle fonti europee: valga per tutte la raccomandazione Rec (2010)12 del Consiglio d’Europa, secondo cui «i procedimenti giudiziari e le questioni relative all’amministrazione della giustizia sono di pubblico interesse».
Alla realizzazione del medesimo interesse si addice pienamente, peraltro, la fisionomia attuale dell’ordinanza cautelare, che, ancor più dopo gli innesti dalla legge n. 47 del 2015, impone al giudice stringenti oneri motivazionali, nell’intento di evitare che la restrizione dello status libertatis risponda a criteri arbitrari; l’organo giurisdizionale è tenuto a esporre e a valutare in modo autonomo le specifiche esigenze cautelari e gli indizi che giustificano la misura, individuando gli elementi di fatto dai quali sono desunti e i motivi per cui assumono rilievo, come pure a compiere analoga operazione esplicativa quanto alle ragioni per cui non ha ritenuto gli elementi forniti dalla difesa sufficienti a impedire l’applicazione della misura.
Ove a quell’onere il giudice abbia adempiuto con scrupolo, perché mai gli esiti della valutazione – rientrando nella categoria dell’informazione di pubblico interesse – non dovrebbero essere conoscibili dalla collettività? Viceversa, ove a quell’impegno argomentativo si sia invece sottratto, perché mai l’opinione pubblica non dovrebbe venirne informata, considerando che la mancata esplicitazione dei presupposti normativamente imposti potrebbe tradire la loro insussistenza e, dunque, l’arbitrarietà del provvedimento restrittivo, quando non, nei casi estremi, la natura strumentale rispetto a obiettivi extragiuridici, su cui sarebbe precluso ogni controllo democratico[5]?
Ben lungi dal rispettare l’art. 21 Cost., dunque, la prefigurata innovazione sembra arrecare a suo carico una vistosa violazione, non corrispondendo al rilevante sacrificio imposto al diritto di cronaca alcun beneficio in termini di tutela di altri valori di rango equivalente.
4. Un probabile effetto boomerang
Ma se davvero – per ragioni che devono esserci evidentemente sfuggite – impedire la pubblicazione dell’ordinanza cautelare significasse rafforzare il rispetto dell’art. 27 Cost., la novità normativa non sarebbe neppure in grado di assicurare il raggiungimento di tale scopo[6], per ragioni che attengono sia alla durata sia alla portata del divieto introdotto.
In primo luogo – come acutamente osservato – continuando a consentire la pubblicazione del provvedimento nel prosieguo del procedimento, la nuova previsione non è capace di scongiurarne l’«offesa differita»[7]. Inoltre, non esclude che il contenuto del provvedimento cautelare resti comunque pubblicabile, come gli stessi promotori dell’emendamento si sono affrettati a chiarire, replicando alle critiche di chi denunciava l’intollerabile black-out dell’informazione sulle vicende cautelari.
Non potrà più essere testualmente riprodotta, per intero o parzialmente, la motivazione di un provvedimento che il codice di rito scandisce nel contenuto (art. 292 c.p.p.) e impone di confezionare secondo il massimo self-restraint (art. 115-bis c.p.p.) all’autorità giudiziaria, una delle “autorità pubbliche” destinatarie delle prescrizioni dettate dal d.lgs. n. 188 del 2021; ne resterà consentita, invece, la sintesi giornalistica, la cui correttezza giuridica e la cui osservanza del predetto principio costituzionale dipenderanno unicamente dalla professionalità e dal rigore deontologico che sapranno esprimere gli operatori della comunicazione. Gli autorevoli pareri che riscontrano nell’informazione giudiziaria nostrana inaccettabili accenti colpevolisti e deprecabili corrività tecniche inducono a formulare previsioni poco rassicuranti.
Per evitare effetti boomerang, l’auspicio è che il legislatore delegato rinunci all’improvvido innesto. Per il futuro sarebbe bene ricordare che che il tentativo di raggiungere un convincente equilibrio tra l’informazione giudiziaria, componente irrinunciabile e vivificante della democrazia, e la presunzione di non colpevolezza, principio imprescindibile di civiltà giuridica, va compiuto disciplinando il quomodo comunicativo, mai intervenendo sull’an.
[1] G. Giostra, Il segreto estende i suoi confini e la sua durata, in AA. VV., Nuove norme in tema di intercettazioni, a cura di G. Giostra, R. Orlandi, Giappichelli, 2018, p. 122.
[2] Qualora quella relazione tra presunzione di non colpevolezza e divieto di pubblicazione dell’ordinanza cautelare ci fosse – e così non pare – non dovrebbe coerentemente protrarsi fino alla irrevocabilità della decisione di condanna ai sensi dell’art. 27 comma 2 Cost. o almeno fino a quando la colpevolezza dell’imputato non sia stata legalmente provata, a voler richiamare la locuzione contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo? E ancora: a voler proprio individuare un momento anteriore in cui venga meno il divieto, non dovrebbe essere identificato nella pronuncia del giudice del riesame o dell’appello cautelare che confermi la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, anziché – come prevede l’emendamento – coincidere con la conclusione delle indagini preliminari ovvero con il termine dell’udienza preliminare?
[3] L’art. 4 direttiva 2016/343 lascia «impregiudicat(e) … le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità». Difficile spiegare, allora, perché nella proposta di emendamento si sia precisato che il divieto di pubblicazione dell’ordinanza cautelare è introdotto «in coerenza con quanto disposto» dall’art. 4 direttiva 2016/343: se non fosse per le più stringenti regole interne, l’estensore sarebbe esonerato dall’osservanza delle prescrizioni di stile volte a tutelare la presunzione di non colpevolezza.
[4] Corte cost., 15 giugno 1972, n. 105.
[5] E. Albamonte, «Con la “norma Costa” le persone spariranno nel nulla come in Cina», intervista a V. Stella, Il Dubbio, 26 dicembre 2023.
[6] L’unico risultato certo, invero, pare quello di rendere più complessa l’interpretazione dell’art. 114 c.p.p., introducendo nel suo vocabolario normativo il divieto di pubblicazione «anche per estratto» del provvedimento cautelare. Se, come sembra verosimile, il proposito perseguito era vietare la diffusione anche dei suoi stralci testuali, si sarebbe potuto correlare il divieto alla «pubblicazione anche parziale» degli atti, evitando «in una disposizione affollata di sinonimi» di introdurre una ulteriore variante lessicale foriera di prevedibili «sbandamenti interpretativi» (G. Giostra, La legge anti-stampa è un pasticcio giuridico inutile e inapplicabile, in Domani, 22 dicembre 2023).
[7] G. Giostra, Il divieto insensato che Meloni vuole applicare alla stampa, in Domani, 6 gennaio 2024.