Il sale della Terra, secondo la voce narrante, è l’Uomo. In realtà (anche se occorre intendersi sul significato) il film-documentario sulla vita dell’economista-fotografo Sebastião Salgado mostra che forse non è così.
La lunga intervista – in fondo di questo si tratta – mostra un uomo ieratico, spirituale, con lo sguardo trasparente puntato oltre la superficie di quel che si vede. Eppure lui, economista, ha scelto di fare il fotografo soprattutto per testimoniare le crudeltà del mondo mediante le immagini proprio di ciò che si vede. Non c’è bisogno di introspezioni per verificare la brutalità che nel pianeta è appannaggio quasi esclusivo dell’Uomo. Nessun documento contrattuale, giudiziario, artificiale potrà essere più eloquente delle immagini della sofferenza che l’Uomo, nessuno più e meglio di lui, sa imporre al suo simile. Per ragioni che non sempre si comprendono.
La missione di Salgado lo porta ovunque ci sia da sperimentare la verità che verso la fine del film viene apertamente dichiarata: l’Uomo è un animale estremamente violento, ben più degli altri che è dato osservare nel mondo naturale. Salgado dichiara, verso l’epilogo, di essere diventato “amico” di una balena di 35 metri, che avrebbe potuto inabissare con un piccolo colpo di coda l’imbarcazione sulla quale gli uomini galleggiavano, ma non l’ha mai neppure sfiorata. Animale sensibilissimo, la sua coda fremeva se gli si sfiorava il muso.
L’osservazione e la documentazione dell’Uomo ammala Salgado: «una malattia dell’anima».
La sua salute sarà recuperata dall’osservazione della natura, di ciò che è più vicino a ciò che chiamiamo convenzionalmente “creazione” (il sale). Qui Salgado capirà che siamo parte di un genere vastissimo – «le nostre cellule sono quelle dell’iguana» – che potremmo addirittura aiutare a sopravvivere, se tutti gli Uomini fossero Salgado.
Ne abbiamo la dimostrazione.
Il film-documentario finisce col ritorno nella foresta pluviale brasiliana da cui tutto un giorno era partito. Il padre, che aveva faticosamente fatto laureare tutti i suoi numerosi figli, l’aveva vista morire a causa della siccità. Salgado e la moglie ripiantano milioni di alberi, destinati a sopravvivere ai loro salvatori. Torna l’acqua, e con essa gli animali («compreso il giaguaro»).
A quel punto si capisce che non è un film, non un documentario, ma la testimonianza quasi religiosa di un laico che ha fatto della sofferenza il concime per trovare la forza, guarendo, per far ripartire il mondo.
Tanto le immagini dell’Uomo sono crude e violente – la morte appare in tutte le sue forme, compresa la ruspa che ammassa i cadaveri per sotterrarli senza ritualità alcuna – quanto quelle della natura sono pacificatrici. Gli spazi si aprono.
La voce narrante ci dice, all’inizio, che Salgado è più di un fotografo. In effetti ha l’aspetto di un Santo, ed è forse uno dei più puri e veri del nostro tempo.