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Arbitro tra parti diseguali: l'imparzialità del giudice del lavoro *

di Elisabetta Tarquini
consigliera presso la Sezione lavoro della Corte d’Appello di Firenze

Il processo del lavoro, nella struttura voluta dal legislatore del 1973, era un processo pensato per regolare un conflitto tra parti diseguali, costruito, come era costruita la disciplina del rapporto di lavoro in quegli stessi anni, intorno all’attribuzione di giuridica rilevanza a tale disuguaglianza sostanziale. In quel modello di processo il giudice era un attore centrale, il cui potere ufficioso serviva a superare la disparità delle parti nell’accesso alla prova e insieme a controbilanciare il regime di forti preclusioni, in vista del raggiungimento rapido di una decisione di merito il più possibile conforme alla verità materiale dei fatti. Quel modello è stato attraversato da una profonda trasformazione, culturale, più che normativa, che ha accompagnato le modifiche legislative che hanno interessato la regolamentazione sostanziale del rapporto di lavoro. L’esito è stato nel senso, non del superamento, ma della rimozione dall’orizzonte regolativo del rapporto e culturale degli operatori del diritto della disuguaglianza sostanziale delle parti, che tuttavia nel frattempo non è affatto diminuita. Ne è seguito un mutamento, nelle prassi processuali, anche del ruolo del giudice, sempre meno disposto a fare uso dei propri poteri ufficiosi. Solo in tempi recentissimi la giurisprudenza ordinaria e costituzionale ha riportato il crudo fatto della disuguaglianza sostanziale al centro dell’argomentazione giudiziale.

1. Nella sua struttura originaria, nel modello voluto dal legislatore del 1973, il processo del lavoro esprimeva molto bene le peculiarità del diritto del lavoro rispetto al diritto civile.

Perché era un processo pensato per regolare conflitti tra parti diseguali, nel rapporto negoziale e quindi anche nell’accesso alle tutele giudiziali (talvolta o spesso quanto alla possibilità stessa di farvi ricorso, in relazione alla provvista materiale necessaria, ma quasi sempre in relazione alla disponibilità della prova le cui fonti normalmente appartengono all’organizzazione riferibile al datore di lavoro). E per questo era un processo diverso, diversissimo dal rito civile ordinario. Il riconoscimento, l’attribuzione di giuridica rilevanza alla diseguaglianza effettiva delle parti segnava la disciplina del rapporto di lavoro e così connotava anche il processo.

Per questo il fatto, l’accertamento del fatto, della sua materialità, della sua verità (per usare un termine assai impegnativo) aveva in quel modello di processo un posto centrale, che si legava molto strettamente al ruolo del giudice, che era non un arbitro silente del contraddittorio, ma attore di un modello processuale collaborativo, costruito su preclusioni forti, per essere rapido e concentrato (perché la tutela effettiva era ritenuta presupporre la rapidità), ma nel quale proprio il sistema delle preclusioni (con i rischi che ne derivavano, essenzialmente il rischio elevato di divaricazione tra accadimento dei fatti, ove apprezzabili in termini di verità/falsità, e verità processuale) era temperato dai poteri istruttori ufficiosi del giudice, che dovevano essere diretti anche a superare lo specifico profilo della disuguaglianza sostanziale delle parti rappresentato dalla diversa loro prossimità alla fonte della prova, al fine di pervenire a una decisione di merito il più vicina possibile alla verità fattuale.

Era quindi un processo pensato per l’effettività e che guardava, che prendeva atto dei rapporti di forza e in questo costituiva un’adeguata rappresentazione della disciplina sostanziale del rapporto di lavoro dell’epoca, l’epoca di introduzione del processo del lavoro, perché anche la disciplina del rapporto muoveva dall’insufficienza nel rapporto di lavoro del canone dell’uguaglianza formale delle parti (che pure è principio fondamentale del diritto dei contratti) e mirava a costruire una tutela diseguale, fondata sulla norma inderogabile e sulla legittimazione e legalizzazione del conflitto collettivo.

 

2. E’ una banalità dire che quella disciplina del rapporto di lavoro dai tempi dello Statuto e dell’introduzione del processo di lavoro sia cambiata molto, molto profondamente, nella direzione, non del superamento, ma, almeno a quanto pare a chi scrive, della rimozione, dall’orizzonte regolativo, della diseguaglianza come dato strutturale del rapporto di lavoro. A questo conduce il declino della norma inderogabile come strumento di tutela e per contro il crescente rilievo attribuito alla volontà individuale delle parti, anche a quella del lavoratore (il lavoratore che si intenderebbe considerare “maggiorenne”, in tal senso è paradigmatica la modifica nel tempo della disciplina delle mansioni), mentre lo strumento del diritto diseguale viene utilizzato per regolare altri conflitti, porre rimedio ad altre diseguaglianze, evidentemente ritenute maggiormente intollerabili  (così ad esempio nel diritto dei consumatori).  

E’ stata una trasformazione normativa (che non è forse adeguato chiamare riprivatizzazione del diritto del lavoro, visto che sul piano delle sanzioni del principale inadempimento del datore di lavoro, il licenziamento, il legislatore si è allontanato significativamente dal modello civilistico dell’integrale riparazione del danno, rappresentata, secondo le Sezioni Unite, dalla reintegrazione), ma è stata anche una profonda trasformazione culturale e la trasformazione culturale ha investito anche il processo, che invece di modifiche normative importanti non ne ha subite, almeno fino a tempi recentissimi, se non quella, quella sì molto rilevante, del regime delle spese. E con il processo ha interessato anche il ruolo del giudice. Così che oggi il processo del lavoro è molto meno dissimile dal processo civile e il giudice del lavoro è molto più di prima un giudice civile.

 

3. Gli esiti di questa trasformazione, ad avviso di chi scrive, sono essenzialmente due, relativi a due connotati centrali del processo del lavoro: la tendenziale marginalizzazione dell’accertamento del fatto, con il sempre più frequente ricorso a decisioni fondate su questioni di forma, e il ridimensionamento del ruolo del giudice, come attore del processo e come interprete.

Ci si soffermerà soprattutto sul secondo tema, per quanto si tratti di aspetti tra loro correlati. 

Quanto al ruolo del giudice come attore processuale, è un dato immediatamente rilevabile da chiunque abbia un po’ di pratica delle aule di giustizia di come l’impiego dei poteri ufficiosi, che pure erano cruciali nell’architettura originaria del rito del lavoro, sia diventato, come dire, rarefatto. Per non parlare dell’accesso sui luoghi di lavoro, istituto ormai sostanzialmente desueto.

Le ragioni sono diverse e certo c’entra molto il fatto che il tempo sia diventato la merce più preziosa nel processo, a fronte della prescrizione, ormai costituzionalizzata, della ragionevole durata e di tutti le disposizioni in materia di gestione del contenzioso che impongono di arrivare il più presto possibile a sentenza, il che alimenta senz’altro la ritrosia a utilizzare strumenti che comunque determinano allungamenti inevitabili dei tempi del giudizio. 

E tuttavia, ad avviso di chi scrive, questo self-restraint, la frequente, molto frequente abdicazione da parte del giudice, nella prassi applicativa, al ruolo attivo che le norme processuali ancora gli attribuiscono, ha molto a che fare anche con la neutralizzazione del suo ruolo nel processo, che è un riflesso, tutto culturale, giacché la legge processuale non è cambiata, della tendenza alla rimozione del dato della diseguaglianza sostanziale delle parti nella disciplina del rapporto.

Sembra cioè che sia diventato meno sostenibile per il giudice affrontare il disagio di apparire più favorevole alla posizione della parte che prevedibilmente si avvantaggi dalle prove ammesse d’ufficio, perché è meno evidente il ruolo riequilibratore del potere ufficioso e per contro meno sentito il disvalore delle disuguaglianze anche nel processo. 

Certo è che la sostanziale sterilizzazione del potere ufficioso, unita al doveroso, ma rigoroso rispetto delle preclusioni da parte del giudice, aumenta fortemente il rischio che la decisione resti in fatto rimessa alla regola formale di giudizio sull’onere della prova, che era un esito non auspicato nella struttura originaria del processo e che, per quanto soluzione ultima insostituibile di un conflitto, non è certo la più auspicabile  per la tutela effettiva dei diritti, particolarmente di quelli fondamentali, che pure sono coinvolti nel rapporto di lavoro e nel processo che ne regola la patologia.

 

4. A questa riduzione della sua centralità come attore del processo, si è affiancata una trasformazione analoga che ha interessato tuttavia il giudice come interprete.

Ci si riferisce al rilievo che almeno una parte della più recente giurisprudenza, di merito, ma quello che più conta, di legittimità attribuisce all’interpretazione testuale, intesa, non semplicemente come regola di ermeneutica insieme ad altre, ma come forma necessaria di fedeltà alla legge, cui si accompagna una diffidenza, talvolta espressa, verso altri canoni interpretativi, in primo luogo quelli indirizzati all’armonizzazione delle norme con principi contenuti in fonti superiori (l’interpretazione costituzionalmente orientata o comunitariamente conforme), che si teme possano in effetti esprimere scelte valoriali soggettive del giudice interprete, quando per contro l’interpretazione testuale lascerebbe al legislatore soltanto di esprimere tali opzioni di valore.  

Il tema è ovviamente generalissimo, ma in materia lavoristica ha connotati discretamente specifici già per la presenza di clausole generali o norme aperte cui è affidata la regolazione di snodi essenziali della disciplina del rapporto di lavoro. Basti pensare anche solo alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo.

Ora pare a chi scrive che proprio la lettura testuale di norme del genere (una lettura per esempio prescelta, rivendicata anzi dalla Corte di  Cassazione nella nota decisione del 2016 sul giustificato motivo oggettivo[1]), mostri invece come l’interpretazione testuale sia normalmente, al pari di ogni altra lettura delle norme, una scelta di significato, tra i diversi possibili per riempire di contenuto il precetto normativo, una scelta (riduttiva del contenuto di senso della norma) che corrisponde a una precisa visione del ruolo del giudice interprete. 

Peraltro, ma il tema è assai complesso, l’interpretazione testuale pone al giudice interprete problemi molto specifici nella lettura delle norme di fonte UE, in cui la lettera della legge è in realtà il prodotto di una trasposizione anche linguistica e di una, spesso difficile armonizzazione, tra ordinamenti, fonti e anche tra lingue diverse. Un esempio di questa criticità mi pare possa rinvenirsi nella decisione 6497/2021 della Corte di Cassazione in materia di discriminazione per handicap, che, nella sua ampia motivazione, per delimitare i confini della ragionevolezza degli accomodamenti richiama i principi di diritto interno di buona fede e correttezza, a fronte di una diversa ricostruzione di quella stessa nozione di ragionevolezza nella fonte internazionale (la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e i Commenti generali forniti dal Comitato, istituito dall’art. 34 della convenzione, con la funzione di monitorare la sua attuazione da parte degli Stati contraenti e di formulare linee guida e raccomandazioni), una fonte che pure sia la direttiva 2000/78, sia la legge nazionale di attuazione pongono a fondamento della figura normativa degli accomodamenti ragionevoli.

 

5. Come che sia, questa visione dell’interprete si attaglia, è pienamente confacente a quel modello di giudice, parte non semplicemente imparziale rispetto ai litiganti (che è il connotato necessario della giurisdizione), ma neutrale rispetto ai diritti coinvolti nella lite, che emerge da molte prassi applicative del processo del lavoro come è oggi: il giudice di un rapporto tra pari. Quale peraltro è sempre meno il giudice civile, anche nel diritto dei contratti, perché comunque i mutamenti delle forme di impresa hanno fatto emergere l’evidenza, per esempio nella fornitura di servizi, di attori negoziali in grado di esercitare un ruolo preponderante nella formazione dell’accordo contrattuale, le cui controparti si trovano quindi in una posizione di sostanziale disuguaglianza (almeno informativa) cui la legge attribuisce rilievo.

E’ in ogni caso un fatto che le parti del rapporto di lavoro uguali non lo siano e che anzi la riduzione delle tutele di legge abbia portato obiettivamente a un mutamento dei rapporti di forza (di cui pure è fatto anche il rapporto di lavoro) in favore delle imprese, per cui probabilmente oggi uguali lo sono ancora meno. Tanto che, da alcuni anni, assistiamo all’emersione di un fenomeno, almeno in Italia in precedenza inedito, quale quello dei lavoratori poveri, dei poveri anche se lavoratori e anche se lavoratori regolarmente contrattualizzati. 

Così che applicare il canone dell’uguaglianza formale a queste parti, rappresentarle come parti di un ordinario rapporto contrattuale, litiganti aventi pari accesso ai rimedi del processo è anche oggi, forse più oggi, un problema che a che fare anche con la possibilità del diritto e del processo di avere una minima aderenza alla realtà di fatto.

 

6. Molto di recente la giurisprudenza, costituzionale e ordinaria, si è incaricata di riportare il diritto del lavoro a confrontarsi con il fatto, la «fangosità dei fatti[2]», come scriveva Paolo Grossi, quindi con il mondo di fuori e con le vite delle persone che lo abitano.

Nella giurisprudenza costituzionale questo è accaduto soprattutto con la sentenza n. 59 del 2021, quando la Corte ha affermato, con ammirevole understatement, che la diversità delle tutele previste dal nuovo testo dell’art. 18 della L. 300/1970, (come modificato dalla L. 92/2012), ha «implicazioni notevoli», così che, nel delimitare il relativo ambito applicativo il legislatore «è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza[3]».

Un’affermazione che smentisce con una certa evidenza l’assunto, in precedenza diffuso in giurisprudenza come in dottrina, secondo cui i confini della reintegrazione (e per contro del risarcimento del danno derivante da un licenziamento dichiarato illegittimo) restavano rimessi alla libera discrezionalità del legislatore, non essendo la reintegrazione un rimedio costituzionalmente necessario e approntando comunque la legge un’adeguata sanzione (seppure solo monetaria) al licenziamento illegittimo.

La Corte riporta invece i duri fatti, i nudi fatti all’interno del ragionamento giuridico e afferma che quella tra reintegra, pur nella forma attenuata, e risarcimento del danno, è un’alternativa che deve essere governata dal principio di ragionevolezza perché si dà tra «due forme di tutela profondamente diverse». Una diversità che si coglie con certa evidenza se si ha riguardo appunto al mondo di fuori, agli effetti di quelle tutele sulle vite dei lavoratori, lavoratori -  si rammenti - licenziati illegittimamente, attori vittoriosi secondo il diritto sostanziale, magari uomini e donne ultracinquantenni non particolarmente qualificati, per i quali la possibilità di trovare, dopo un licenziamento, un qualsiasi diverso decent work sarebbero, al momento, praticamente prossime allo zero e per i quali quindi essere o non essere reintegrati ha davvero «implicazioni notevoli».

Con la pronuncia del 2021 la Corte si attribuisce un ruolo che già aveva più volte svolto in passato, appunto quello di portare il diritto del lavoro a radicarsi nei fatti, nella realtà della disparità di fatto che è coessenziale al rapporto di lavoro. Così era avvenuto negli anni Sessanta e Settanta con le note decisioni a proposito della prescrizione dei crediti di lavoro e della sua sospensione, che rappresentano l’antitesi perfetta della retorica del lavoratore maggiorenne.

 

7. Nella giurisprudenza ordinaria la risignificazione giuridica della disuguaglianza di fatto ha da ultimo trovato un approdo molto significativo nelle recenti decisioni della Corte di Cassazione sul salario minimo costituzionale (si tratta delle sentenze n. 27711, 27713 e 27769 del 2 ottobre 2023), la cui motivazione è in parte ricostruttiva di una lunga e ininterrotta tradizione giurisprudenziale e in parte innovativa, a fronte del dato fattuale della crisi della contrattazione collettiva come parametro della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. 

In particolare quelle decisioni sono interessanti, innanzi tutto per l’esito finale, per cui a essere regolata da principi diversi da quello del consenso, dell’accordo contrattuale per quanto conforme al parametro presuntivo di adeguatezza della contrattazione collettiva, è una delle prestazioni fondamentali del rapporto di lavoro, la retribuzione. 

Ma soprattutto per il rilievo che, nel corpo dell’ampia motivazione, assume la realtà fattuale dei rapporti di lavoro, in specie il dato di fatto della povertà nel rapporto, con l’indicazione precisa da parte del giudice di nomofilachia degli indici giuridicamente rilevanti di questa povertà, dell’insufficienza della retribuzione. E per contro torna ad essere centrale, in queste decisioni, la funzione anche emancipatrice del lavoro, per cui, afferma la Corte, la retribuzione giusta ex art. 36 non è quella che garantisce di non essere poveri, ma quella che assicura una vita libera e dignitosa. Una costruzione che passa anche dal richiamo alle fonti UE, in specie al considerando n. 28 della Direttiva Ue 2022/20241 sul salario minimo che suggerisce di determinare il salario minimo adeguato attraverso strumenti che tengano conto oltre che delle «necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio», «anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali».

Infine quelle decisioni sono rilevanti anche perché delineano i contorni, oltre che della sufficienza, della proporzionalità della retribuzione, provando quindi a riscrivere i connotati della corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, a partire dalla nozione costituzionale di retribuzione. Potrebbe aprirsi così un qualche spazio per ridiscutere, in via interpretativa, di parità retributiva anche in materia di appalti, una delle questioni più rilevanti poste dalle moderne articolazioni di impresa e dai loro effetti sul lavoro e quindi sulla vita delle persone che lavorano. Uno spazio, è necessario ricordarlo, aperto da un giudice interprete che accetti di svolgere un ruolo, più che di arbitro di un conflitto già compiutamente regolato di cui deve dare lettura, di controllore di prima istanza della rispondenza delle scelte della legge ai precetti di un ordinamento multilivello, fatto di una complessa articolazione e gerarchia di fonti e che si ponga per questo in un dialogo necessario con il giudice delle leggi e quello dell’Unione.

 

 
 
[1] Si tratta di Cass., 7.12.2016 n. 25201.

[2] Il riferimento si trova in Oltre la legalità, Laterza, 2020.

[3] Entrambi i riferimenti sono a Corte Cost. 1.4.2021, n. 59.

[*]

Il testo costituisce la versione modificata e aggiornata della relazione, tenuta dall’autrice al convegno Diritto del lavoro e diritto civile. I temi di un dialogo, tra tecniche di tutela, inclusione ed emancipazione, svoltosi a Pisa il 27 e 28 ottobre 2023.

18/06/2024
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