La Terza sezione del Tribunale civile di Palermo, con ordinanza emessa in data 25 marzo 2015, a seguito di ricorso ex art. 702 bis c.p.c., ha condannato il Ministro della Giustizia a risarcire i danni patiti da un ex detenuto della casa circondariale Pagliarelli di Palermo, avendo accertato che le condizioni di detenzione cui è stato sottoposto il detenuto per 18 mesi erano incompatibili con il rispetto della dignità umana e comunque contrarie a quanto disposto dall'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cedu).
La pronuncia del Tribunale di Palermo è intervenuta a circa un anno di distanza dall'approvazione del decreto legge 92/2014 (convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 117), che ha introdotto nell'Ordinamento Penitenziario l'art. 35 ter, che disciplina in modo specifico i rimedi risarcitori azionabili dai detenuti in conseguenza della violazione dell'art. 3 della Cedu. Rimedi che, come è noto, lo Stato italiano ha dovuto introdurre nel proprio ordinamento a seguito della sentenza Torreggiani[1] emessa dalla Corte europea di Strasburgo che, oltre a condannare l'Italia nel caso specifico, applicando il meccanismo della procedura pilota, ha invitato il nostro paese a sanare la propria posizione, a fronte dell’attestazione di un problema strutturale nel sistema carcerario italiano.
La vicenda che ha suscitato l’intervento del legislatore italiano, finalizzato a introdurre per la prima volta nell’ordinamento rimedi ad hoc di tipo risarcitorio e preventivo, merita una breve digressione al fine di rintracciare la ratio ultima di tali strumenti.
La protezione dei diritti dei detenuti, a livello europeo, ha un’origine risalente, ma l’attenzione per le specifiche condizioni materiali di detenzione, tema strettamente legato all’esponenziale aumento dei tassi detentivi e al sovraffollamento penitenziario che ne è derivato, in maniera pressoché uniforme, su tutto il territorio europeo, si è attestato come polo di interesse qualificato nella riflessione giurisprudenziale della Corte europea. A partire da una serie di sentenze[2], infatti, la Corte ha costruito una piattaforma argomentativa volta a sanzionare le condotte lesive del divieto di trattamenti disumani e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tale architettura argomentativa e le linee giurisprudenziali che ne sono derivate, si sono caratterizzate, nel tempo, per la ricostruzione di una stretta causalità sovraffollamento-danno; attraverso questa breve digressione sulla giurisprudenza europea in tema, ci proponiamo di sollevare alcuni spunti decostruttivi in merito all’attuale tendenza giurisprudenziale (europea e nazionale) a connettere immediatamente ed esclusivamente il danno al computo dei metri quadri di spazio personale disponibile per ciascun detenuto, all’interno delle celle detentive. E ciò al fine di richiamare uno dei principi cardine in materia risarcitoria, ossia la contestualizzazione del fatto e la essenziale relatività della valutazione.
La Corte europea afferma, per la prima volta, nella sentenza Kudla[3] che l’art. 3 garantisce il diritto di tutti i soggetti ristretti a essere “detenuti in condizioni che sono compatibili con il rispetto della dignità”. Tale ricostruzione pretoria appare, anche nell’analisi prospettica, notevole. Se, infatti, la Convenzione garantisce espressamente il diritto di ogni persona posta sotto la giurisdizione dello Stato a non subire tortura o trattamenti disumani o degradanti da parte delle forze di sicurezza[4] o degli altri detenuti[5], la stessa tace riguardo alle condizioni detentive specifiche (a differenza del Patto internazionale sui diritti civili e politici[6]). Rapidamente, tuttavia, la Commissione, ancora prima della Corte, struttura una linea argomentativa a partire dal principio per cui la detenzione non priva i detenuti dei diritti garantiti dalla Convenzione[7] e giunge, attraverso lo strumento della protection par ricochet[8], ad affermare che le condizioni di detenzione possono ricadere nell’alveo dell’art. 3. Dunque una pena detentiva è suscettibile di un giudizio ex art. 3 della Convenzione sotto lo specifico angolo di osservazione della maniera in cui è eseguita e della sua durata[9].
Il ragionamento della Corte nell’arresto Kudla compie un salto qualitativo, superando la protezione indiretta, fino ad allora adottata e giungendo alla consacrazione di un nuovo diritto, il diritto a condizioni detentive conformi alla dignità umana. Per fare ciò la Corte elabora l’argomento della “soglia minima di gravità”: i trattamenti e le condizioni detentive devono raggiungere un livello minimo di gravità per ricadere sotto l’art. 3 e la valutazione di tale livello minimo appare “relativa per essenza”. Nelle parole della Corte: “the assessment of this minimum is, in the nature of things, relative; it depends on all the circumstances of the case, such as the nature and context of the treatment, the manner and method of its execution, its duration, its physical or mental effects and, in some instances, the sex, age and state of health of the victim[10]”. Questo iniziale appello alla relativizzazione della valutazione in ordine al livello minimo di gravità e, quindi, in ordine all’integrazione di una violazione al divieto di trattamenti disumani e degradanti, appare come uno dei cardini argomentativi essenziali per salvaguardare la natura assoluta dell’art. 3 della Convenzione. Scendendo nell’analisi della cornice entro la quale tale giudizio, essenzialmente relativo, deve muoversi, la Corte sottolinea[11] come la propria giurisprudenza avesse già avuto modo di precisare che, sebbene tutte le pene si accompagnino a un grado ordinario di sofferenza e umiliazione, per raggiungere la qualifica di trattamento disumano e degradante, la sofferenza e l’umiliazione inflitte devono “oltrepassare ciò che consegue a una qualsiasi forma data di detenzione legittima[12]”. Ricorrendo, poi, all’interpretazione evolutiva il giudice europeo abbassa la soglia minima di gravità richiesta per far ricadere i trattamenti all’interno dell’art. 3 e afferma che certi atti, un tempo esclusi dal campo di applicazione dell’art. 3, vi rientrano a pieno titolo oggi[13]. Il modello di protezione in Kudla appare caratterizzato dal principio per cui le modalità di esecuzione della pena detentiva, per essere esenti da rilievi ex art. 3, non devono sottomettere “l’interessato a una afflizione o a una prova di intensità tale da eccedere il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e, con riguardo alle esigenze pratiche dell’incarceramento, devono assicurare in maniera adeguata la salute e il benessere del detenuto[14]”. Infine la Corte afferma l’esistenza di un doppio ordine di obbligazioni per gli stati membri, una di tipo negativo e una di tipo positivo, ossia l’obbligazione a non sottomettere i detenuti a condizioni detentive che integrino un trattamento contrario all’art. 3 e l’obbligazione di assicurare condizioni detentive conformi alla dignità umana.
Non è per mero esercizio di memoria che giova ricordare che le condizioni di applicabilità del diritto sono, in questa prima sentenza, rinvenute dalla Corte nella giurisprudenza relativa al reato di tortura e trattamenti disumani e degradanti. Come vedremo, infatti, l’evoluzione della giurisprudenza europea, sul tema che ci interessa, si distacca progressivamente dalle prime attestazioni della Corte in Kudla e si incardina nel tempo su una linea argomentativa che ha privilegiato considerazioni legate allo spazio minimo disponibile rispetto alle altre dimensioni critiche del sistema penitenziario.
Si inaugura, così, la giurisprudenza europea del “danno da sovraffollamento penitenziario[15]” che si è sviluppata, attraverso varie sentenze, innescando un dibattito argomentativo interno alla stessa Corte, con una forte ricaduta esterna. La disputa ruota intorno alla preminenza e all’automatismo di una strategia interpretativa costruita sulla base di precisi criteri valutativi di natura spaziale, atti a integrare (da soli o unitamente ad altri elementi) automaticamente una violazione dell’art. 3 della Convenzione.
La prima sentenza che rivolge l’attenzione al quadro detentivo italiano è Sulejmanovic c. Italia[16]. Dopo aver ribadito la natura assoluta del divieto di trattamenti disumani e degradanti, la Corte riafferma il principio secondo cui, nonostante una condizione di eccessivo sovraffollamento ponga di per sé un problema sotto il profilo dell’art. 3 della Convezione[17], pure “la Corte non può quantificare, in modo preciso e definitivo, lo spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai sensi della Convenzione. Esso può infatti dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta o le condizioni mentali e fisiche del detenuto (Trepachkine c/Russia, n. 36898/03, § 92, 19 luglio 2007)”[18]. Questa affermazione di principio appare coerente con la argomentazione svolta in Kudla sulla relatività per essenza del giudizio ex art. 3 Cedu. Tuttavia la Corte in Sulejmanovic prosegue e consolida l’elaborazione dei criteri di valutazioni legati alla preminenza del dato spaziale nei casi di sovraffollamento, strutturando una dogmatica dell’interpretazione che modula la valutazione secondo tre situazioni definite attraverso il criterio dei metri quadri di spazio personale disponibile per ogni detenuto. Se il criterio stabilito dal Comitato per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Disumani Degradanti (CPT) fissa in 7 m2 a persona la superficie minima auspicabile per cella detentiva[19], la Corte europea trova il proprio principio guida in 3 m2, al di sotto dei quali la mancanza di spazio appare “talmente flagrante da giustificare da sola la violazione dell’art. 3[20]”. Gli altri aspetti delle condizioni detentive appaiono, secondo questa linea argomentativa, rilevanti, unicamente in relazione al preminente criterio spaziale che diventa la stella polare nella determinazione delle violazioni dell’art. 3 della Cedu. Nei casi, infatti, di spazio personale disponibile compreso tra 3 e 4 m2 la Corte si propone di indagare altri aspetti delle condizioni detentive. Tra di essi figurano la possibilità di utilizzare privatamente i servizi igienici, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base[21]. Applicando questi criteri e rientrando il caso in esame nella prima situazione descritta, la Corte europea condanna l’Italia al risarcimento del danno morale nei confronti del ricorrente nella misura, equitativamente valutata (come da art. 41 della Convenzione) in 1.000,00 euro.
Il paradigma spazio-centrico assunto dalla maggioranza è oggetto di censura da parte della opinione dissenziente del giudice Zagrebelsky che coglie una delle possibili derive della strategia interpretativa portata avanti dalla maggioranza. Possiamo dire che il giudice dissenziente torni alle origini della questione, rileggendo e attestando quanto argomentato dalla Corte in Kudla, a partire dal livello minimo di gravità che il trattamento deve raggiungere per integrare una violazione dell’art. 3 della Convenzione e dalla considerazione “contestualista” della valutazione necessariamente relativa di tale livello minimo di gravità. La natura contestuale e relativa della valutazione in ordine alla gravità delle violazioni, appare speculare alla salvaguardia della natura assoluta della norma convenzionale in esame. Diversamente argomentando si rischia di giungere alla tendenziale e “pericolosa deriva verso la relativizzazione del divieto, dato che, quanto più si abbassa la soglia « minima di gravità », tanto più si è costretti a tenere conto dei motivi e delle circostanze (oppure ad annullare l’equa soddisfazione)[22]”.
Nonostante il carattere dibattuto della questione, all’interno delle linee tendenziali della giurisprudenza europea[23], il fascino di una soluzione dal tenore più legislativo che giurisprudenziale, capace di fornire direttive certe per l’azione interpretativa e sgravare parte dell’obbligo argomentativo dalle spalle dei giudici, è stato fino ad ora, l’indirizzo prevalente.
A ulteriore conferma di tale impostazione è intervenuta la sentenza Torreggiani[24], giudizio pilota[25] che sancisce la natura endemica e sistematica delle violazioni dell’art. 3 della Convenzione in materia di sovraffollamento penitenziario e condizioni detentive in Italia.
La Corte, nell’arresto Torreggiani, riafferma la strategia interpretativa legata al parametro dei 3 m2 e si avvale dello strumento della procedura pilota al fine di indurre il legislatore italiano a introdurre nell’ordinamento un sistema combinato di rimedi di natura preventiva e risarcitoria.
Il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 117, che ha introdotto nella legge 26 luglio 1975, n. 354 (l’Ordinamento penitenziario) l’art. 35-ter, recante «Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti e internati», rappresenta la risposta italiana allo stimolo europeo. Una risposta che introduce un rimedio di natura preventiva disciplinato all’art. 35 bis dell’Ordinamento penitenziario e un rimedio risarcitorio contenuto all’interno del nuovo art. 35 ter Ordinamento penitenziario[26].
Nel settembre 2014, infine, la sentenza Stella[27] ha chiuso la procedura pilota contro l’Italia positivamente valutando le misure introdotte nell’ordinamento nazionale attraverso una formula prospettica aperta (insieme condizionata e condizionale) per cui la Corte “estime qu’elle ne dispose d’aucun élément qui lui permettrait de dire que le recours en question ne présente pas, en principe, de perspective de redressement approprié du grief tiré de la Convention[28]”.
Senza scendere nei particolari della sentenza (che merita un’analisi separata) per quel che interessa i nostri fini la Corte in Stella opera una valutazione preventiva dell’astratto operato del legislatore e, in tema di giudizio sul rimedio risarcitorio, di cui in questa sede discutiamo, la stessa afferma di doverne valutare l’accessibilità e l’effettività. Sull’accessibilità, il giudizio è conclusivo, determinando, il giudice alsaziano, che il rimedio appare accessibile a tutte le persone ristrette in condizioni materiali contrarie alla Convenzione. La previsione, da un punto di vista temporale, è aperta a situazioni attuali e di passata restrizione della libertà, potenzialmente capace, quindi, di sgravare il ruolo del giudice europeo dal peso di un notevole numero di ricorsi pendenti, come significativamente ricorda la Corte. Tuttavia, proprio questo punto appare critico. La Corte, infatti, espressamente si affranca dal principio generale per cui i ricorsi si valutano al tempo del loro deposito; un tempo, nel caso della Stella, in cui l’ordinamento italiano versava ancora in condizione di violazione strutturale in assenza di rimedi ad hoc. Tale statuizione sembra costruire una nuova eccezione espressa al principio generale di cui sopra, relativa ai casi in cui, a seguito di una procedura pilota, lo stato elabora una serie di misure tese a risolvere in maniera strutturale il problema oggetto della violazione; allo stesso tempo, però, l’affermazione di questa eccezione introduce una sfumatura di incertezza sull’azionabilità dei giudizi di fronte al giudice europeo. Tale concessione all’approccio deferenziale nei confronti degli stati membri appare come una sorta di bilanciamento rispetto all’elevato livello di incisività propria dello strumento della procedura pilota. Inoltre, sul piano sostanziale, il giudizio della Corte in merito alla effettività dei rimedi dovrà nel futuro tenere conto dell’interpretazione, estensiva o restrittiva, che le corti nazionali daranno proprio in relazione all’accesso al rimedio offerto dall’art. 35 ter[29]. Discutendo in merito al risarcimento in forma specifica (ossia la riduzione di pena per ogni giorno passato in condizioni contrarie all’art. 3 della Convenzione), la Corte ne sancisce l’adeguatezza[30] rispetto all’art. 3 in considerazione del fatto che tale riduzione è espressamente concessa per riparare una violazione dell’art. 3 della Convenzione e che il suo impatto sul quantum di pena per la persona detenuta appare misurabile (oltre a presentare l’innegabile vantaggio di favorire la deflazione carceraria). La Corte, tuttavia, significativamente ricorda che ancora non si è attestata, su questo punto, una propria giurisprudenza e, anche in questa sentenza, lascia aperto il fronte del giudizio sull’adeguatezza di questa forma risarcimento in casi di lesione dell’art. 3 Cedu[31]. Sulla questione del risarcimento per equivalente, infine, la Corte esprime un giudizio che è per la nostra analisi di particolare rilievo. Il giudice europeo, infatti, afferma la necessità di lasciare agli stati, che decidono di introdurre una misura risarcitoria espressa per violazioni relative a norme della Cedu, il più ampio margine di apprezzamento, al fine di organizzare tale misura in maniera coerente rispetto al proprio sistema giuridico e alle proprie tradizioni e in conformità rispetto al tenore di vita del paese[32]. La Corte accetta, quindi, la congruità della somma stabilita dal legislatore italiano nella misura di 8 euro per ogni giorno passato in condizioni tali da integrare una violazione dell’art. 3 della Convenzione; somma che, pur integrando un quantum risarcitorio inferiore alla media prevista e accordata dalla giurisprudenza della Corte, non appare, a giudizio della Corte di Strasburgo, irragionevole. Ancora una volta il nodo della questione consiste nella ricostruzione della cornice entro cui avanzare il giudizio di ragionevolezza; la Corte fornisce tale cornice quando indica, come criteri di conformità, la tradizione giuridica e il livello di vita del paese. Come vedremo infra, giudici di tale conformità non potranno che essere le corti nazionali (in sede civile e di sorveglianza) chiamate a operare una valutazione che tenga conto proprio della elaborazione in tema di risarcimento del danno costruita dalla tradizione giuridica italiana.
Infine, il tema dell’effettività di tali rimedi, costituisce il punto centrale su cui la sentenza Stella apre al futuro riesame della situazione italiana, stabilendo : “La Cour souligne toutefois que cette conclusion ne préjuge en rien, le cas échéant, d’un éventuel réexamen de la question de l’effectivité du recours en question, et notamment de la capacité des juridictions internes à établir une jurisprudence uniforme et compatible avec les exigences de la Convention (…) et de l’exécution effective de ses décisions. Elle conserve sa compétence de contrôle ultime pour tout grief présenté par des requérants qui, comme le veut le principe de subsidiarité, ont épuisé les voies de recours internes disponibles (…)[33]”.
L’effettività di tali rimedi appare oggi il metro attraverso cui valutare le pronunce che si stanno avvicendando e si avvicenderanno nella giurisprudenza di merito e di legittimità. L’effettività di tali misure, infatti, costituisce il parametro cardine nella valutazione che i giudici di Strasburgo offriranno dei rimedi posti in essere dall’Italia per affrontare il problema.
Nel tentativo di decostruire il mito della strategia dei 3 m2 vale la pena definire il problema che sta alla base delle condanne italiane. Ragionando in questo senso appare evidente e il pungolo argomentativo di Zagrebelski risulta, a tal proposito, stimolante, come si siano spesso confusi, in sede interpretativa, i sintomi del problema con l’essenza stessa di esso. Il sovraffollamento è, infatti, parzialmente causa del problema e suo sintomo. Il problema, o meglio i problemi, sono le condizioni disumane e degradanti del sistema penitenziario, nella sua dimensione strutturale e nelle carenti proposte risocializzanti. Il problema si sostanzia nella violazione dei diritti soggettivi e nella mancanza di strumenti atti a rendere effettivi e azionabili tali diritti, attraverso la individuazione di un giudice e di una forma procedurale di rimedio. Il sovraffollamento e il corollario di considerazioni spaziali che ne derivano (la costruzione del mito dei 3 m2) sono una delle concause del problema e, al tempo stesso, appaiono un sintomo dello stesso.
Le considerazioni spaziali sono, invece, ormai assurte a forma e limite del problema, ingabbiando la discussione del giudice europeo e (come vedremo) la riflessione del giudice domestico, in una dimensione interpretativa a geometria fissa, basata sul sillogismo che ha, come premessa principale, proprio la misurazione esatta (o meno[34]) dello spazio personale disponibile. Nasce il giudice con il righello.
Un ultimo tassello nell’elaborazione giurisprudenziale europea in tema di condizioni materiali di detenzione è stato recentemente aggiunto a opera della sentenza Muršić[35], che scinde la valutazione in merito al livello minimo di gravità delle condizioni detentive dal mero dato dello spazio personale disponibile, rigettando il ricorso di un detenuto, ristretto in uno spazio inferiore a 3 m2 e. Nel tentativo di mettere ordine nel viluppo giurisprudenziale in tema, il giudice europeo torna alle origini, richiamando la strategia valutativa elaborata nell’arresto Kudla e indicando i tre cardini entro cui deve muoversi il giudizio in merito alla violazione dell’art. 3 della Convenzione; in particolare, infatti, gli stati devono assicurare che le condizioni detentive siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che i modi e i metodi di esecuzione della misura non sottopongano il soggetto a una afflizione o a una prova di intensità tale da eccedere il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e, con riguardo alle esigenze pratiche dell’incarceramento, devono assicurare in maniera adeguata la salute e il benessere del detenuto[36]. Relativamente al giudizio sulle condizioni detentive, inoltre, si afferma il valore dell’ “effetto cumulativo” di queste tre componenti, cui si aggiunge, come quarto elemento di valutazione necessitata, il tempo di protrazione della specifica situazione detentiva[37]. Infine si ricorda come il mero dato spaziale debba essere considerato come una forte presunzione di violazione[38], secondo il ragionamento della Corte nel caso Ananyev[39], che individua, tra l’altro tre standard probatori rilevanti nei casi in cui la violazione dell’art. 3 discenda da una mancanza palese insufficienza di spazio personale disponibile[40]. Prescindendo, quindi, da qualsiasi automatismo, la Corte in Ananyev afferma che il parametro spaziale, lungi da rappresentare elemento autonomo e automatico di giudizio, deve essere letto alla luce di tre prospettive: ogni detenuto deve avere a disposizione un posto letto individuale, deve avere a disposizione almeno 3 m2di superficie calpestabile (calpestabile, detratto quindi il mobilio fisso, tra cui rientrano, senz’altro, il letto, gli armadi e gli ingombri) e la superficie stessa della cella deve essere tale da assicurare alla persona ristretta di muoversi liberamente tra gli arredi[41]. L’assenza di qualunque di questi elementi crea una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 della Convenzione[42]. Si prescinde, così, da ogni automatismo spazio-centrico nella valutazione della potenziale violazione dell’art. 3 della Convenzione.
L’argomentazione del giudice europeo in Muršić, insieme alle riflessioni condotte nella opinione dissenziente di Zagrebelski, possono offrire (anche e soprattutto ai giudici nazionali) gli spunti persuasivi per una revisione del paradigma spazio-centrico in materia di risarcimento del danno da condizioni detentive disumane e degradanti.
Proprio dello strumento risarcitorio tratta la presente ordinanza che, come vedremo, è introdotta nelle forme del ricorso ordinario e non in quelle del rimedio ad hoc di cui all’art. 35 ter. Preme, infatti, ricordare che il rimedio introdotto con la norma suddetta attribuisce la competenza sulla tutela risarcitoria de qua al magistrato di sorveglianza per le ipotesi di pena ancora in corso di espiazione, ma anche al giudice civile nei casi di chi ha subito il pregiudizio “in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere”. Pur non esprimendosi sulla fattispecie di cui all’art. 35 ter o.p., le considerazioni svolte dal giudice palermitano ci permetteranno di verificare le questioni sottese al tema dell’effettività della tutela risarcitoria conseguente alla fattispecie del danno da condizioni detentive inumane. Sotto il profilo prettamente procedurale, per prima cosa, è interessante osservare come, anche a seguito dell'introduzione, nelle more del presente giudizio, di una procedura ad hoc di carattere giurisdizionale, finalizzata a ottenere il risarcimento dei danni, il Tribunale di Palermo abbia accolto il ricorso dell'ex detenuto, promosso nelle forme ordinarie del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c., introdotto nel codice di procedura civile con la novella del 2009. Questa decisione sembra, quindi, offrire la possibilità - a coloro che hanno subito condizioni di detenzione inumane e contrarie al rispetto della dignità umana - di ottenere anche il riconoscimento dell'eventuale maggior danno rispetto agli 8 euro giornalieri che il legislatore ha individuato come misura risarcitoria fissa per il detenuto che promuova un ricorso ex art. 35 ter o.p. (sulla questione relativa alla possibile compatibilità di tali forme di risarcimento standard, senza personalizzazione del ristoro, con i principi del nostro ordinamento in materia risarcitoria vi sono già dubbi, come osservato da altri anche su questa rivista)[43]. Ma della questione relativa alla quantificazione del danno tratteremo più avanti.
Il secondo aspetto della pronuncia del giudice siciliano che merita di essere analizzato riguarda la qualificazione del danno da risarcire, che il Tribunale di Palermo ha inteso inquadrare nello schema del danno da cose in custodia ex art. 2051 c.c., che sancisce una responsabilità di carattere oggettivo in capo al soggetto che esercita il controllo sulla cosa, risultando così sufficiente, per l’integrazione della responsabilità in parola, la prova del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi, al riguardo, la condotta del custode o l'osservanza o meno di uno specifico obbligo di custodia.“Tale disposizione - afferma il giudice monocratico - si applica anche agli enti pubblici e pur configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva dalla quale “il custode” può sottrarsi solo provando il caso fortuito non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno”. Si tratta di un'interpretazione piuttosto singolare che francamente suscita perplessità, anche alla luce dei primi commenti della dottrina, successivi all'entrata in vigore dell'art. 35 ter o.p..
Premesso che non vi è alcun dubbio sul fatto che il danno de quo debba essere inquadrato come danno di natura non patrimoniale, l'orientamento prevalente, almeno inizialmente, ha inteso ricondurre il danno da inumana detenzione nell'ambito della responsabilità extracontrattuale che trova il suo fondamento nella condotta illegittima dell'amministrazione penitenziaria. Interpretazione, questa, che è stata recepita anche dalla Seconda Sezione del Tribunale di Roma che, con una pronuncia del 30.05.2015[44], con cui ha rigettato il ricorso ex art. 35-ter di un detenuto, ha espressamente qualificato la violazione del diritto ad una detenzione conforme all’art. 3 Cedu come un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.c., richiamando in tal senso una sentenza della Corte di Cassazione penale emessa prima dell’introduzione della novella del 2014[45].
Secondo altri commentatori, tra cui si annovera anche l'autorevole parere del CSM (delibera del 30.07.2014[46]), saremmo invece nel campo della responsabilità da contatto sociale con conseguente applicazione del termine prescrizionale ordinario decennale. A tal proposito occorre far menzione del recentissimo decreto di rigetto emesso dallo stesso Tribunale di Palermo in data 1.06.2015[47] nel quale il giudice monocratico ha assimilato l’obbligo dell’amministrazione penitenziaria di tenere specifiche condotte di facere,nei confronti dei detenuti con cui entra “in contatto”, a quello dell’azienda ospedaliera che è tenuta a fornire assistenza e cure adeguate ai propri pazienti; individuando così una responsabilità dell’amministrazione penitenziaria derivante dalla violazione di norme comportamentali poste dall’ordinamento a carico di determinati soggetti.
Merita ricordare, come citato nella stessa pronuncia testè richiamata, che la Corte di Strasburgo, a corollario del principio, ormai consolidato in sede europea, per cui lo status detentionis non priva il ristretto dei diritti sanciti dalla Convenzione europea, ha affermato che la persona detenuta può avere bisogno di una tutela rafforzata (protection accrue) in ragione della vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello stato[48]. Come ricordato nel breve excursus sulla giurisprudenza europea supra, la protezione che deriva dalla giurisprudenza di Strasburgo, in particolare a seguito dell’arresto Kudla, affianca a un’obbligazione di tipo negativo per gli stati membri, una specifica obbligazione positiva, volta ad assicurare a ogni detenuto condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Trasportando tale modello di protezione all’interno della nostra tradizione giuridica in materia risarcitoria, appare poco persuasiva la riconduzione della responsabilità dell’amministrazione penitenziaria alla fattispecie dell’illecito aquiliano, dato che la responsabilità extracontrattuale è conseguenza diretta del danno ingiusto e del tutto svincolata da specifici obblighi comportamentali. Al contrario, l’inquadramento all’interno della responsabilità da contatto sociale, di natura contrattuale, appare coerente con la ricostruzione del rapporto tra amministrazione penitenziaria e soggetto detenuto, così come elaborato dalla giurisprudenza della Corte europea, che individua nella persona ristretta il soggetto debole della relazione e che pone a carico dello stato un’obbligazione positiva che si sostanzia in specifici comportamenti. Ne segue che la fattispecie di illecito contrattuale sembra l’ipotesi che maggiormente valorizza il sottostante rapporto e contatto tra amministrazione e detenuto e che appare più idonea a tutelare i diritti che da tale contatto sociale derivano.
Favorevole a quest’ultima interpretazione si è dichiarato, infine, il giudice del Tribunale di Genova Roberto Braccialini, il quale, nel suo interessante articolo pubblicato su Questione e Giustizia[49], sostiene che la responsabilità dell'amministrazione penitenziaria discenda da una norma di legge (art. 1173 c.c.) e che pertanto possiamo parlare di una “responsabilità contrattuale discendente da un intero sistema normativo”.
Nell’ambito della qualificazione del danno lamentato dal ricorrente, si inserisce anche la questione relativa alla legittimazione passiva del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria convenuto in giudizio dal ricorrente insieme al Ministero della Giustizia in quanto organo deputato alla gestione del sistema carcerario. Il giudice palermitano ha ritenuto il DAP legittimato a stare in giudizio, riconducendo la domanda del detenuto allo schema del danno cagionato da cose in custodia ex art. 2051 c.c. che sancisce la responsabilità del soggetto che eserciti sulla cosa un effettivo potere di controllo. Come visto, tuttavia, detta qualificazione del danno patito dal detenuto non ha trovato riscontro né in dottrina, né in altre pronunce giurisprudenziali e deve pertanto ritenersi marginale. Con la conseguenza che pure la legittimazione passiva del DAP nei procedimenti ex art. 35-ter o.p. è discutibile e niente affatto scontata.
Un’altra interessante questione affrontata dal Tribunale di Palermo e oggetto di dibattito giurisprudenziale, riguarda l’onere della prova dei fatti addotti dal detenuto a sostegno della richiesta di risarcimento danni. Il giudice siciliano, raccogliendo le indicazioni fornite dalla Corte europea nelle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani, afferma l’applicabilità, al caso di specie, del principio di non contestazione, in virtù del quale, in difetto di puntuali e circostanziate eccezioni dell’Amministrazione penitenziaria alle doglianze del ricorrente, la domanda deve essere accolta. Si tratta di un principio cardine del processo civile in tema di onere della prova, sancito dall’art. 115 cpc e applicato costantemente dalla Suprema Corte che considera la non contestazione come “un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti”[50]. Ci sentiamo senz’altro di condividere l’interpretazione del tribunale siciliano anche in ragione della peculiarità della controversia che, si rammenta nell’ordinanza, è caratterizzata da un evidente squilibrio di posizioni, tra detenuto e amministrazione, quanto a disponibilità di dati e documenti relativi all’oggetto del contendere[51].
Nel caso in esame, peraltro, è risultata determinante ai fini dell’accoglimento della domanda del ricorrente, una precedente ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Palermo, prodotta agli atti, che conteneva un puntuale e approfondito accertamento delle condizioni igienico-sanitarie e dello stato del carcere in cui era stato ristretto il detenuto; accertamento che confermava le doglianze del ricorrente. Il principio dell’onere della prova, infatti, non implica che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte dal danneggiato, ben potendosi utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo[52]. Nel nostro ordinamento processuale vige il principio di acquisizione, secondo cui le risultanze istruttorie, comunque ottenute, concorrono tutte alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro e, quindi, senza che possa escludersi l’utilizzazione di una prova fornita da una parte per trarne elementi favorevoli alla controparte[53].
Prendendo spunto, inoltre, dalla fonte probatoria privilegiata che ha consentito al detenuto del carcere siciliano di vedere riconosciuto il proprio diritto al risarcimento, riteniamo percorribile anche la strada di un ricorso in via cautelare tramite l’istituto dell’accertamento tecnico preventivo (disciplinato dall’art. 696 c.p.c.), che abbia come obiettivo la verifica definitiva (anche tramite immagini o riprese video) e “cristallizzata” dello stato dei luoghi e delle condizioni di vivibilità delle strutture carcerarie, al fine di costituire una prova difficilmente confutabile “ad uso e consumo” di tutti quei detenuti (rectius: ex detenuti) che ritengono di essere stati reclusi in condizioni contrarie all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In tal modo al giudice non resterebbe che prendere atto della situazione, alla stregua di un fatto notorio non contestabile, e la sua valutazione sarebbe così limitata alle conseguenze giuridiche che ne derivano.
In merito al criterio utilizzato dal Tribunale di Palermo per la quantificazione del danno non patrimoniale patito dal detenuto, il giudice monocratico, pur dichiarandosi consapevole dell’irretroattività della norma che ha introdotto l’art. 35 ter, ha ritenuto di condividere il parametro equitativo di 8 euro al giorno, introdotto dal legislatore con detta normativa, liquidando al ricorrente la somma di euro 240 per ogni mese di inumana detenzione. La decisione del tribunale siciliano, tuttavia, è discutibile sotto un duplice profilo. Da un lato, ci pare renda vana l’alternativa del detenuto di richiedere il risarcimento del danno patito instaurando un giudizio ordinario. La scelta del ricorrente di azionare un normale giudizio di cognizione, infatti, presuppone l’intenzione di ottenere il riconoscimento di un risarcimento maggiore rispetto al ristoro a misura fissa previsto in caso di ricorso ex art. 35 ter o.p.. Sotto altro profilo, l’adozione sic et simpliciter del parametro equitativo introdotto dal legislatore con la novella del 2014, fa sorgere – come già accennavamo sopra - più di un dubbio riguardo alla legittimità di detto criterio. L’applicazione generalizzata di tale risarcimento a misura fissa, che non tenga conto della singola situazione di ogni detenuto, come ad esempio la durata e le modalità specifiche della detenzione, al di là del mero dato spaziale, si espone ad un elevato rischio di incostituzionalità. Occorrerebbe, infatti, adeguare l’importo liquidato alla concreta gravità del danno, tenendo conto delle sofferenze effettivamente patite dal detenuto in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso specifico, senza ricorrere a meri automatismi.
Passando ad analizzare l’argomentazione in punto di valutazione della sussistenza del danno, va rilevato che il giudice palermitano pare aderire alla corrente “relativista e contestualista” della giurisprudenza europea, quando afferma la necessità di un giudizio da operarsi caso per caso, evitando qualsiasi automatismo spazio-centrico e precisando che, in mancanza di chiare indicazioni normative, il giudizio “deve assumere carattere equitativo”. D’altra parte, sembra che la valutazione effettuata sposi piuttosto il paradigma dei 3 m2, incentrandosi l’argomentazione sul preminente dato dello spazio personale disponibile non superiore ai 3 m2, pur se affiancato dall’accertamento sulla sussistenza degli altri requisiti, relativi alla mancanza di riscaldamento, di acqua calda nella cella e di una luce che permetta l’aerazione naturale del servizio igienico, elementi che si assumono provati in base alle risultanze della precedente ordinanza del magistrato di sorveglianza[54]. Se, dunque, la lesione dell’art. 3 Cedu appare pienamente integrata in punto di spazio personale disponibile, riscaldamento e aerazione, lo stesso non può dirsi delle lamentate concrete modalità di gestione della vita carceraria. Relativamente a questi profili, infatti, la valutazione del giudice palermitano appare incoerente rispetto alla individuazione del regime probatorio precedentemente adottato. Il giudice ha ritenuto, infatti, infondate le allegazioni relative alle ulteriori doglianze in merito di “processi educativi e ricreativi”, di pulizia degli ambienti e del pregiudizio derivante dal fumo passivo. Tali profili appaiono, al giudice civile, viziati da “assoluta genericità”, in quanto, per ciò che concerne le attività trattamentali, manca la prova dell’“intendimento del ricorrente di partecipare ad attività di studio e lavoro e alle ragioni che ne avrebbero impedito la partecipazione”. Sulla questione della pulizia degli ambienti, significativamente, il giudice dichiara che “è un fatto notorio che l’onere del decoro delle celle gravi sui soggetti ristretti”. Infine in tema di pregiudizio conseguente alla forzata condivisione della cella con soggetti fumatori, il giudice palermitano richiama la documentazione di parte convenuta attestante l’acquisto ripetuto di tabacco da parte del ricorrente.
Passando al vaglio critico gli argomenti appena illustrati, occorre rilevare che, in merito alla prima questione, relativa all’accesso alle attività trattamentali, il giudice avanzi una richiesta di allegazione riguardo all’intendimento del ricorrente di partecipare alle suddette attività, oltremodo gravosa e di cui non si rinviene l’effettiva ragione. Tale integrazione probatoria risulterebbe, in ogni caso, assorbita dalla valutazione primaria riguardo all’effettiva esistenza e fruibilità delle stesse attività; dimostrazione, questa, che, per quanto sopra indicato dallo stesso giudice, avrebbe dovuto essere fornita dalla convenuta amministrazione. La stessa richiesta di integrazione relativa alle ragioni che avrebbero impedito la partecipazione alle attività doveva essere, a nostro avviso, subordinata all’indagine sull’operatività, all’interno del carcere, delle offerte trattamentali e dei programmi risocializzanti e sulla loro sostanziale fruibilità.
Anche in ordine all’asserita infondatezza della doglianza relativa alla pulizia degli ambienti, vale la pena rilevare che sarebbe stata opportuna l’indagine in merito alle eventuali carenze strutturali e igieniche degli ambienti detentivi (in particolare delle celle). Il giudicante, invece, ha sommariamente liquidato la questione, facendo ricorso all’argomento scivoloso del “fatto notorio”, per cui sui detenuti graverebbe un onere del “decoro delle celle” la cui fonte si rinviene nella Carta dei diritti e doveri dei detenuti[55]. Precetto decisamente generico che, in ogni caso, non può sollevare l’amministrazione penitenziaria dal garantire condizioni igieniche adeguate all’interno degli spazi detentivi.
Da ultimo appare quantomeno discutibile la diretta connessione tra l’acquisto di fumo e la presunta condizione di “tabagista abituale” del ricorrente (in particolare in considerazione del fatto che tabacco e sigarette costituiscono merce di scambio corrente nel contesto penitenziario), sulla cui base il giudice ha ritenuto infondato il lamentato pregiudizio conseguente alla condivisione forzata della cella con soggetti fumatori e al conseguente danno da fumo passivo.
Benchè tali profili non incidano sulla determinazione del giudice in ordine all’accoglimento del ricorso, pure meritano attenzione per la strategia argomentativa tesa a escludere ab origine la loro fondatezza e la conseguente richiesta di prova contraria da parte dell’amministrazione.
Come abbiamo visto, l’attuale panorama giurisprudenziale sul risarcimento del danno da inumana detenzione, in sede civile, si sta arricchendo progressivamente. La stimolo europeo e la conseguente introduzione di un rimedio ad hoc disciplinato dall’art. 35 ter o.p., hanno avuto il grande merito di sollecitare l’espansione di un contenzioso anche nelle forme ordinarie, chiamando il giudice civile a riflettere e fornire tutela per una situazione giuridica che, seppur astrattamente contemplata, non risultava effettivamente tutelata. Di fatto la duplice condanna italiana da parte dei giudici di Strasburgo, si è riverberata sull’intero ordinamento, attraverso l’introduzione di una nuova forma risarcitoria e la configurazione di un nuovo tipo di danno.
In questa prospettiva, è auspicabile che, seguendo le indicazioni argomentative della Corte europea, i giudici civili italiani riescano a distinguere i profili risarcitori legati alle due diverse tipologie di rimedio. Da una parte, infatti, lo strumento introdotto con la novella del 2014 disegna una forma risarcitoria dai confini ben delineati e pre-valutati dal legislatore, in particolare in punto di quantificazione del danno[56], che lasciano al giudice, in sede civile, un ambito di discrezionalità limitata alla valutazione in ordine alla sussistenza della lesione. D’altra parte, per ciò che concerne i ricorsi introdotti nelle forme ordinarie, le corti italiane dovranno riuscire ad affrancarsi dai rigidi criteri individuati dall’ art. 35 ter o.p., e far riferimento ai tradizionali parametri, consolidati dalla giurisprudenza, in materia di quantificazione, anche equitativa, del danno.
In questa prospettiva merita riallineare il giudizio con i principi dell’integralità[57] e della personalizzazione[58] del danno che paiono perfettamente speculari allo stimolo europeo verso la relativizzazione e contestualizzazione del giudizio. Perdendo di vista questi principi, che costituiscono il battistrada della tutela risarcitoria in Italia, il giudice italiano rischierebbe di snaturare il proprio ruolo e allontanarsi proprio da quella tradizione[59] che viene posta, dagli stessi giudici di Strasburgo, a fondamento del giudizio di adeguatezza dello strumento di cui all’art. 35 ter o.p..
Riteniamo, inoltre, che gli strumenti di tutela (speciale e ordinario) non siano da considerare tra loro alternativi, ma potenzialmente cumulabili al fine di ottenere il riconoscimento di un maggior danno, oltre a quello fissato nei rigidi parametri di cui all’art. 35 ter o.o.. In ordine alla valutazione della sussistenza della lesione nei giudizi civili ordinari (come, d’altronde, nei procedimenti ex art. 35 ter o.p.), appare ancora più cogente la necessità di operare una disamina caso per caso, di natura relativa e contestuale, non limitandosi al mero calcolo dello spazio personale disponibile e all’automatismo che ne deriva, ma operando un giudizio ampio e approfondito sulle effettive condizioni materiali della detenzione.
Ci auguriamo che i giudici civili italiani (ma altrettanto può dirsi dei giudici di sorveglianza) si assumano la responsabilità di sviluppare linee giurisprudenziali “uniformi e compatibili con le esigenze della Convenzione[60]”.