1. I punti più evidenti della crisi della giustizia penale sono: a) lo stato di "ingolfamento" dei processi ( il termine è quello usato, per la giustizia pretorile, dal Monitoraggio sul nuovo codice di procedura penale pubblicato nell' ambito della IV conferenza nazionale di statistica nel 1998 ); b) la concreta ineffettività delle sanzioni penali: la macchina processuale "ingolfata" gira a vuoto.
Quanto al primo aspetto, quello della incapacità del sistema giudiziario di smaltire il flusso dei reati, con il conseguente effetto delle punizioni a sorteggio, tradizionalmente è stato affrontato con strumenti interni (selezioni fattuali operate della polizia, dal pm, dalla vittima) ed esterni (amnistie e prescrizioni).
La situazione sembra avere oggi raggiunto il limite della tollerabilità. A prescindere dai rilievi di tipo statistico, la perdita di credibilità del sistema di giustizia penale è evidente per gli operatori, si esprime nelle campagne per una maggiore sicurezza (esemplare il recente disegno di legge sulla cd microcriminalità), ma mi sembra ben espressa anche dalla quotidiana volgarizzazione di talune pronunce della Cassazione, offerte dai media alla libera interpretazione popolare.
2. E' ormai opinione diffusa che negli ultimi anni vi sia stata una forte sovraesposizione delle tematiche processuali, a cui ha invece corrisposto una scarsa attenzione per il diritto penale sostanziale e per i nessi tra sistema delle incriminazioni e accertamento. E' il rilievo che mi sembra animi anche questo incontro.
Fino ad ora, di contro, il processo si è fatto carico del soddisfacimento delle esigenze di prevenzione generale, intervenendo sugli istituti sostanziali governati a fini esclusivamente processuali (il fenomeno è stato qualificato diritto sostanziale del processo).
E' questa la storia degli ultimi anni: storia di frenetica progettazione (i "pacchetti" Flick). Si è di recente osservato come il processo sia "un cantiere costantemente aperto" ad interventi di riforma spesso di segno opposto.
3. Alla luce della acquisita consapevolezza della necessità di un intervento organico sul sistema, si tratta anzitutto di verificare quale sia oggi la situazione, lo "stato dell'arte", nella duplice, e connessa, direzione della deflazione penalisticae dello sfoltimento endoprocessuale. E' da questo binomio che, ragionevolmente, si ritiene possa muovere, per il sistema di giustizia penale, un ricupero di funzionalità, credibilità e quindi legittimazione e consenso.
Non ci si illuda di trovarsi di fronte ad un quadro progettuale organico. Riprendendo il titolo di un recente incontro di studio, si tratta di una "riforma itinerante", disseminata nel contesto di vari disegni di legge.
(A) Disegno di legge di depenalizzazione. La sua attuale fisionomia sembra confermare l'affermazione che coglie ormai nella ricorrente parola d'ordine della depenalizzazione "una fola raccontata a veglia". Il testo approvato dal Senato il 3 marzo 1999 esprime un travagliatissimo iter, in cui si è colta, da un lato, l'assenza di qualsiasi coerente e razionale progetto politico criminale di riduzione dell'area del penalmente rilevante, dall'altro l'operare di compensazioni tra contrapposti interessi di parte che hanno condotto il disegno a perdere via via i suoi contenuti più qualificanti (reati di opinione, consumo di gruppo di stupefacenti e coltivazione a scopo di consumo personale, finanziamento illecito dei partiti, ambiente, urbanistica e territorio). Il risultato è minimo: la riforma riguarda principalmente gli assegni a vuoto (reato di cui, per altro, è possibile dubitare, alla luce del principio di sussidiarietà, dell'opportunità di una depenalizzazione ). Forse effetti deflattivi produrrà per i reati tributari (il dubbio è determinato dal ricorso allo strumento della legge delega). La procedibilità a querela per il furto semplice non lascia prevedere un serio impatto concreto. Tra le decriminalizzazioni, significativa, ma solo da un punto di vista ideologico, quella dell'oltraggio.
(B) Irrilevanza del fatto. E' istituto che dovrebbe operare sul piano della selezione. Già previsto nel testo unificato sul giudice unico del 23 giugno 1998, è stato successivamente accantonato (così come l'ipotesi del cd "patteggiamento allargato"). Come era articolata, la nozione di irrilevanza non era confondibile con quella di inoffensività del fatto tipico, essendo invece riconducibile al concetto di esiguità, di graduabilità dei singoli elementi del reato.
(C) Competenza penale del giudice di pace. La riforma punta all'alleggerimento del carico della magistratura togata. La competenza del giudice di pace riguarda violazioni delittuose espressive di microconflittualità tra privati, mentre scarsa è l'incidenza sulle contravvenzioni. E' prevista l'irrilevanza del fatto su un modello vicino alla vigente legislazione minorile. Sono contemplate forme di mediazione e di estinzione del reato collegate a condotte riparatorie o risarcitorie.
Il bilancio - nella prospettiva del binomio deflazione/sfoltimento endoprocessuale non può certo dirsi positivo. A ciò si aggiunga come sia inarrestabile la parallela implementazione del sistema. Penso ad iniziative scomposte ed estemporanee come quelle sulla "microcriminalità", ma anche a quella sui reati ambientali, in cui la centralità di macroeventi di pericolo concreto, di difficile accertamento, lascia facilmente pronosticare il significato solo declamatorio degli elevati livelli sanzionatori. Una costante implementazione - per la verità anche imposta da nuove realtà criminali, penso al traffico di essere umani, o dal diritto penale di derivazione comunitaria - che fa dubitare anche della reale possibilità di iniziative in corso basate sulla realizzazione di un disegno organico. Penso ai lavori della commissione per la riforma del codice penale, presieduta da C. F. Grosso.
4. Dai disegni di riforma passiamo a quelli che definirei alcuni modelli analitici e progettuali.
4.1. Il concetto di deflazione evoca anzitutto la prospettiva del diritto penale minimo. Essa riconduce il penale ad una dimensione di tutela dei diritti soggettivi, omogenea al postulato di partenza che individua la duplice funzione preventiva delle incriminazioni nella tutela della vittima e in quella dell'autore del reato rispetto alla vendetta sociale. Sul piano progettuale, riforma del codice, accompagnata da una "riserva di codice" che offre garanzie maggiori della mera riserva di legge, con l'intento di convogliare tutto il penale nel codice in questo modo cristallizzando beni meritevoli di tutela e condotte aggressive da sanzionare.
4.2. Critica nei confronti del diritto penale minimo è l'impostazione che in esso identifica un modello chiuso, di derivazione illuministica (il diritto penale della cittadella) di consolidamento di rapporti semplici, di razionalizzazione coattiva del conflitto. Ad esso viene contrapposto un modello funzionalistico. Al diritto penale spetta una funzione di creazione coattiva di consenso, di semplificazione coattiva della complessità. Il diritto penale organizza e fomenta consenso sulla gestione burocratica dei problemi sociali, riallocando i rischi sociali. Il modello contrapposto a quello della cittadella, è quindi il forum aperto. Rispetto ad esso è palese l'insufficienza del modello codicistico, dimostrata dall'esistente (basti pensare a quello che è stato definito il diritto penale dei mercanti e dei tecnocrati, al controllo del flusso di capitali e del ciclo economico). Inteso in tali termini il penale è suscettibile di una dilatazione illimitata, abbandonando qualsiasi prospettiva di una sua fondazione, e giustificazione, prenormativa. La legittimazione di una funzione di controllo dei conflitti emargina definitivamente il ruolo del bene giuridico - in funzione di limite alla tutela penale - a vantaggio di una supremazia difficilmente contenibile delle opzioni politico criminali.
4.3. In una posizione che definirei intermedia si colloca chi rivendica una permanente centralità da riservare alle ipotesi delittuose ancorate alla tutela di beni giuridici e, ovviamente, necessità di organica riforma del codice. Codice che contempli anche l'esplicito rinvio a disposizioni complementari accorpate con l'identificazione dei beni-scopo da tutelare. A parte il sistema degli illeciti contravvenzionali. Passando da questi rilievi topografici ai contenuti: i delitti con una struttura tendenzialmente di evento, a pericolo concreto e a tutela di beni consolidati, fatti offensivi di beni finali con una tipologia differenziata di disvalore doloso e colposo; le contravvenzioni tendenzialmente di mera condotta e a pericolo astratto esprimenti un progetto preventivo/organizzativo, con un'attenuata differenziazione tra dolo e colpa. Ma sono soprattutto i meccanismi di degradazione verso l'area extrapenale - nella logica di elaborazione di un diritto punitivo generale - a dar conto delle possibilità deflattive dell'ipotesi. Clausola di esiguità, anche per i delitti, da codificare nei criteri per valutare le "antigiuridicità minori"; per le contravvenzioni, un articolato sistema di oblazioni, di cause speciali di non punibilità (legate a ravvedimenti, sanatorie e condoni) plasmate sulle singole materie extrapenali; diffide amministrative, sul modello recentemente introdotto in campo antinfortunistico. Un insieme di tecniche di degradazione e collegamento tra diverse antigiuridicità, già conosciute e praticate in modo disorganico e spesso arbitrario. Infine, rispetto all'illecito di pericolo astratto, la possibilità di provare la assoluta carenza di pericolosità della condotta al tempo della sua realizzazione.
5. Ma il nodo è quello della pena. Ad una macchina processuale ingolfata e ormai fine a se stessa, ad un "diritto sostanziale del processo" che si fa carico delle esigenze di prevenzione generale plasmando il diritto sostanziale a fini processuali, corrisponde la constatazione della ineffettività della sanzione che connota indelebilmente il penale, sostituita da una macchina che gira a vuoto o svolge compiti di stigmatizzazione (mediatica, a campione, del tutto casuale) che rendono ancora più odiosi i criteri selettivi.
Patteggiamenti, sanzioni alternative, sospensioni condizionali, quando non intervenga la prescrizione, investono una fascia media-alta di violazioni, operando al di fuori di qualsiasi reale prospettiva di prevenzione speciale. E nelle carceri troviamo "i soliti sospetti".
In questo pelago cantano sirene scandalizzate: e allora, riconduciamo i parametri di commisurazione della giustizia negoziata a criteri sostanziali di valutazione della responsabilità, eliminiamo gli automatismi indulgenziali della condizionale e delle sanzioni alternative, da contenere nella tipologia, interveniamo sulla prescrizione, anche in corso d'opera, limitiamo le possibilità di impugnazione. Sono sirene della nuova retribuzione, deluse dal fallimento della rieducazione e, forse, inconsciamente affascinate dalle notizie d'oltre oceano. E' preferibile tapparsi le orecchie ed aprire gli occhi: per vedere, e cercare di capire, ciò che dal fondo agita il mare della giustizia penale.
E' la perdita di legittimazione della pena detentiva, ormai priva di credibili giustificazioni ideologiche e, quanto meno teoricamente, rivolta a soggetti diversi da quelli sui quali venne conformata al momento della sua affermazione. La macchina gira a vuoto non perché l'ordinamento difetti degli strumenti, ma perché il suo prodotto finale, la pena detentiva, rimasta sostanzialmente immutata per due secoli, non trova più consenso, a cominciare dagli stessi soggetti preposti alla sua inflizione, se non in base a paradigmi di pericolosità soggettiva che, significativamente, ridanno effettività alla sanzione solo nel processo, attraverso le misure cautelari.
La riforma è ormai improcrastinabile, ma essa non può che muovere dalla pena.
Postilla
Il testo riporta fedelmente la relazione del 7 maggio. Alcuni spunti in essa contenuti erano emersi nel convegno, di poco precedente, "Quale riforma del sistema penale?" organizzato il 23 e 24 aprile a Macerata da quella Università, dall'Istituto di diritto e procedura penale e dalla Ricerca cofinanziata Murdt "La riforma del diritto penale complementare". In particolare, nelle relazioni di Carlo Piergallini, Carlo Enrico Paliero e Massimo Donini. Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione.
Cosa è avvenuto tra il mese di maggio e la fine di agosto?
Il 25 giugno 1999 è stata approvata la cd legge di depenalizzazione (si tratta in realtà di provvedimento legislativo complesso e diversificato: legge delega per la depenalizzazione e per la riformulazione dei reati tributari, a cui si aggiunge la decriminalizzazione immediata di alcune fattispecie). I suoi contenuti non divergono da quelli sinteticamente descritti a proposito del disegno di legge. Non può quindi mutare il giudizio riguardante la scarsa efficacia deflativa, ma, soprattutto la mancanza di un coerente disegno di politica criminale.
L'estate ha visto esplodere la questione della ineffettività delle pene e, più in generale, dell'inefficienza del sistema di giustizia penale. A seguito di alcuni gravi fatti di cronaca l'attenzione dei media si è concentrata sul tema. Come al solito spesso sono prevalsi gli isterismi e gli appelli al rigore, tanto generici quanto irrazionali, posto che continuano ad eludere la sostanza della questione. Se le pene non vengono eseguite non è "colpa" di un legislatore troppo indulgente e distratto o dei princìpi garantistici del diritto penale o, ancora, dell'anomalia del caso Italia, che sembra alimentare lo stereotipo di un paese "poco serio" e vocato al facile perdono.
Massimo Pavarini, indagando di recente sulla "produttività "del nostro sistema penale, ci segnala alcune sorprese: la penalità materiale, quella cioè che guarda ai tassi di rei penalmente condannati e di condannati carcerizzati e che corrisponde alla effettiva domanda sociale di penalità, è oggi in Italia nella media degli altri paesi europei così come la lunghezza media delle pene e la tipologia degli illeciti effettivamente puniti. Ciò che quindi produce incontestabili effetti deformanti è piuttosto lo sviluppo abnorme della penalità simbolica "che rischia di squilibrare pericolosamente il rapporto tra penalità minacciata e penalità agita, nonché di ripercuotersi altrettanto pericolosamente sui criteri stessi di selettività e di evidenziare pertanto la sproporzione tra funzioni e risorse oltre i limiti di tollerabilità e compatibilità sistemiche" (M. Pavarini, La penalistica civile e la criminologia, ovvero discutendo di diritto penale minimo, testo dattiloscritto cortesemente messo a disposizione dall'autore, destinato agli studi in onore del prof. Pisapia). Le conclusioni di Pavarini: scettiche rispetto all'illusione repressiva, ma anche verso la fede riduzionista e l'utopia abolizionista che non riescano a pensare e a progettare "altro" per dare soddisfazione alle domande di sicurezza al di fuori della penalità minacciata e/o agita
Ancora e quindi centralità del problema della pena nel binomio storicamente affermatosi pena detentiva e pecuniaria, della sua obsolescenza a cui non corrisponde una adeguata progettualità della cultura (e del governo) della sinistra. Molto efficaci, in questa direzione, alcuni passi introduttivi del libro di David Garland (Punishhment and Modern Society, 1990), recentemente tradotto (Pena e società moderna, trad. it. di A. Ceretti e F. Gibellini, Il saggiatore, Milano 1999). "La questione che ora si pone non è più quella di una riforma interna al contesto istituzionale: a essere confutata è la stessa possibilità di racchiudere i sentimenti e le implicazioni sociali delle modalità esecutive delle sanzioni all'interno delle istituzioni specializzate. In un certo senso, ci troviamo di fronte a una crisi dell'intera concezione penale moderna. E' in atto una forma di scetticismo nei confronti di quel progetto penale nato con l'illuminismo, in base al quale la pena costituisce uno dei tanti strumenti che aiutano a edificare una società giusta e a organizzare istituzioni in grado di migliorare il genere umano". Scetticismo e perplessità che, secondo Garland, riguardano anzitutto la professionalità degli stessi operatori delle istituzioni penali e di chi amministra la giustizia (pp. 46 e 47). Osservazione, quest'ultima, che, nel nostro contesto, trova una inequivocabile conferma nella struttura discrezionale di tutti quegli istituti - dal concorso di reati, alla sospensione condizionale, alle pene sostitutive, alle misure alternative - quotidianamente indicati come i responsabili, per la loro stessa esistenza, della perdita di tenuta del nostro sistema punitivo. Al contrario - e torniamo alla produzione di "penalità materiale" e alle sue ragioni - nessuna delle espressioni di indulgenza sopra richiamate opera in modo automatico. E ciò sta a significare che la perdita di effettività della risposta sanzionatoria non corrisponde certo a carenze normative quanto piuttosto ad una più generale e radicale sfiducia nei suoi confronti, espressa a cominciare dai giudici.
A questo proposito assai interessante la parte della relazione della commissione Grosso dedicata al sistema delle pene (il testo è stato reso pubblico a mezza estate e costituirà, in tutte le sue parti, un importante oggetto di riflessione). Il tema della pena è affrontato con condivisibili intenti di razionalizzazione e semplificazione - dalla riduzione dei livelli edittali, alla riarticolazione del sistema delle pene diverse dalla reclusione, alla sospensione condizionale, solo per fare alcuni esempi - ma il vero life motive del documento è costituito dal progetto di riduzione dell'eccessivo potere discrezionale concesso oggi al giudice. Senza entrare nel merito delle varie soluzioni proposte, mi pare così significativo che in conclusione si debba dare atto “che due magistrati componenti della commissione hanno sostenuto che la limitazione della discrezionalità giudiziale che scaturisce dal complesso delle innovazioni proposte condurrebbe ad un eccessivo irrigidimento del sistema delle pene...”, a cominciare dalle limitazioni imposte alla sospensione condizionale. Un’osservazione che forse conferma lo iato ormai esistente tra logiche di produzione della penalità materiale e disegni che, per quanto improntati a buone intenzioni riformiste, non riescono tuttavia a rilegittimare una penalità credibile. Questo per dire che la eccessiva discrezionalità giudiziale nella concreta declinazione delle pene, al di là di rassicuranti nostalgie giacobine, non costituisce un incidente, un effetto indesiderato casualmente prodotto da un legislatore confusionario, quanto piuttosto la dimostrazione - come sinonimo di ragionevolezza - del carattere ingannevole della moderna narrativa penalistica. [*]
[*] E’ il testo della relazione svolta al seminario organizzato a Sasso Marconi, il 7 maggio 1999, da Magistratura democratica, pubblicato sul n. 5/1999 di Questione Giustizia