1. Premessa storica sul lavoro all’interno del carcere
Da quando esiste il carcere moderno, le attività di lavoro da far svolgere ai reclusi hanno costituito un cardine imprescindibile del dispositivo disciplinare e di sorveglianza. In parallelo all’istruzione scolastica e a quella religiosa, il lavoro è stato uno degli argomenti retorici più utilizzati per legittimare l’esistenza e la diffusione dell’istituzione totale. Di retorica per lo più si è trattato, in quanto da sempre il lavoro in carcere non si è quasi mai trasformato né in un palestra di formazione professionale di una qualche utilità per il reinserimento sociale dei condannati, né tanto meno in un’attività con qualche impatto di rilievo dal punto di vista produttivo-economico [1]. Sono le stesse dinamiche strutturali dell’istituzione totale a rendere estremamente difficile che il lavoro in carcere sia qualcosa di paragonabile al lavoro extramurario. Erving Goffman ha ben individuato i termini della questione quando ha sottolineato come nelle istituzioni totali «qualunque sia l’incentivo al lavoro, esso non avrà il significato strutturale che ha nel mondo esterno. Ci saranno motivazioni diverse e diversi modi di considerarlo» (Id., 1961, p. 39). In particolare, secondo il principale teorico delle istituzioni totali, in alcuni casi il lavoro degli internati rappresenta un mero rituale finalizzato all’impiego del tempo e il cui corrispettivo non corrisponde mai al valore dell’attività prestata. In altri casi, il lavoro è una forma suppletiva di afflizione eccedente i normali carichi di lavoro libero, rispetto alla quale si ottiene il consenso dell’internato «non tanto attraverso l’incentivo del guadagno, quanto piuttosto per la paura di una punizione fisica» (ivi, p. 40). O, potremmo aggiungere, comunque di una sanzione che peggiori le condizioni di vita detentiva [2]. Una pratica che ben sintetizza questa doppia funzione del lavoro in carcere è quella, denominata tread-wheel, che vigeva in molte carceri inglesi sino ai primi anni del Novecento: consisteva nel far ruotare, camminando su un progenitore del moderno tapis-roulant, una puleggia che metteva in moto macchine per pompare acqua, macinare frumento o in alcuni casi puramente per affaticare i reclusi [3]. Un impiego del tempo fine a sé stesso e, per converso, un rituale di degradazione atto ad umiliare la volontà di resistenza dell’internato.
Oltre a non essere mai stato un efficace strumento di reinserimento sociale, il lavoro intramurario è stato spesso oggetto di speculazioni e di malversazioni da parte di quegli imprenditori privati che hanno approfittato delle risorse pubbliche investite per il funzionamento dell’istituzione totale o di manodopera reclusa a costi molto inferiori a quelli di mercato. E questo fenomeno si è manifestato sin dall’inizio della storia del carcere disciplinare.
Per fare un solo, ma significativo, esempio è possibile fare riferimento ad una vicenda riguardante la prima prigione disciplinare moderna del Regno di Sardegna inaugurata nel 1828 alla Castiglia di Saluzzo, non a caso chiamata Casa di reclusione e di lavoro [4] e attuale sede del Museo della memoria carceraria [5]. Dopo qualche anno dalla sua inaugurazione la struttura saluzzese venne sottoposta ad una visita ispettiva ministeriale di uno dei più noti e autorevoli penitenziaristi italiani del XIX secolo: Carlo Ilarione Petitti di Roreto. Quando, nel settembre 1835, egli viene inviato a Saluzzo, è terminata da più di un anno la parabola del primo direttore della Casa di lavoro Giacomo Caorsi, figura di filantropo genovese, contrario alle pene corporali e favorevole al coinvolgimento responsabile delle persone recluse nel progetto di reinserimento sociale [6]. Caorsi era stato esautorato dalla sua carica proprio in ragione di una vicenda relativa al lavoro dei reclusi avendo adottato un’interpretazione del regolamento dell’istituto che consentiva di lasciare al recluso una percentuale più elevata della retribuzione prevista per il loro lavoro interno al carcere. Al posto del “laico” Caorsi veniva chiamato un capitano militare, tale Giuseppe Pavese, con il compito di ristabilire l’ordine all’interno dell’istituto, con una scelta di politica penitenziaria che potrebbe essere agevolmente ricondotta alla cronaca dei nostri giorni [7]. Petitti arriva dunque a Saluzzo quasi un anno dopo questo “cambio della guardia” e constata che ha conquistato una posizione di potere all’interno dell’istituto, in connubio con la nuova direzione, un imprenditore, tale Cristoforo Ducco, che si occupa, oltre che dei processi di lavorazioni interni svolti dai reclusi (in particolare un lanificio, una teleria e una falegnameria), anche della fornitura del vitto e della gestione della cantina, servizio quest’ultimo molto apprezzato da una popolazione reclusa di estrazione contadina che nel vino ravvisava un elemento irrinunciabile della alimentazione quotidiana [8]. L’interesse economico del Ducco, tuttavia, non era incentrato sulle attività lavorative che erano penalizzate da macchinari desueti, strutture materiali inadeguate e personale non qualificato e scarsamente motivato; il vero lucro emergeva dalla gestione del vitto e della cantina dove, a fronte di tariffe di mercato per quanto riguardava il compenso all’imprenditore, il cibo e il vino offerto ai reclusi risultava di qualità pessima. Ducco aveva escogitato un meccanismo, potendo godere della copertura del direttore, attraverso il quale circa metà del compenso spettante al lavoratore detenuto gli veniva consegnato brevi manu sottraendolo, in tal modo, alla parte spettante allo Stato per il suo mantenimento e alla parte del fondo di massa che veniva consegnato al condannato al momento della scarcerazione. Questa disponibilità di denaro contante da parte del recluso veniva poi dirottata sul servizio cantina tanto che lo stesso Petitti constatava nella sua visita la presenza di detenuti e di guardiani palesemente ubriachi!
Questi dunque i pessimi risultati di una scelta di politica penitenziaria che aveva abbandonato «una conduzione decentrata e “policentrica” della prigione, con strumenti di supervisione affidati in parte alla società civile, la quale partecipava anche con gli imprenditori locali nella gestione dei laboratori» [per aderire ad] «un’amministrazione accentrata e priva di un effettivo controllo» [9]. Che cosa ci insegna questa esperienza storica rispetto all’attuale assetto delle attività lavorative all’interno del sistema carcerario? Mi occuperò in questa sede esclusivamente di quelle attività lavorative che sono indispensabili per il funzionamento degli istituti penitenziari e che vengono attualmente gestite in via diretta dall’amministrazione penitenziaria utilizzando manodopera reclusa. Si tratta di attività che vengono attualmente considerate dalla stessa amministrazione penitenziaria come mansioni non equiparabili al lavoro vero e proprio. «È chiaro che di tali attività – che da alcuni studiosi sono definite “domestiche” −, pur essendo molto utili nella quotidianità di una struttura detentiva, difficilmente potrà dirsi che riflettano l’organizzazione e i metodi di lavoro utilizzati nella società libera, come invece prevede l’art. 20, comma 5 ord. penit.» [10]. Ciò che si cercherà di dimostrare in questo saggio sarà proprio che tale caratteristiche dei cd. lavori domestici non è affatto chiara, né tanto meno inevitabile e si spiega con le dinamiche di potere esistenti all’interno dell’istituzione totale; dinamiche che possono essere in qualche misura intaccate da progetti di esternalizzazione correttamente concepiti ed implementati.
Una esauriente descrizione di queste attività lavorative la troviamo nel caso di studio che analizzerò, ovvero il processo di costruzione del nuovo carcere di Bolzano. Si tratta di un progetto che utilizza lo strumento del project financing non solamente per l’edificazione dell’istituto, ma anche per la gestione dei cd. servizi no core per i successivi diciassette anni a partire dalla sua effettiva messa in funzione [11]. Tali servizi sono stati così individuati dallo studio di fattibilità preparato dalla Provincia Autonoma di Bolzano, l’ente pubblico da cui è partita l’intera operazione: manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile, gestione delle utenze (fonti energetiche, riscaldamento, servizio idrico e telefonico) compresa quella del sistema informatico, servizio mensa detenuti e spaccio interno, servizio mensa del personale, servizio lavanderia e biancheria sia per i detenuti che per la polizia penitenziaria, servizio lavaggio posti-letto, servizio pulizia aree interne e caserma polizia penitenziaria, manutenzione aree verdi, organizzazione delle attività sportive, ricreative, culturali e di formazione professionale per le persone recluse. Come si può osservare, sono attività che non riguardano quelle funzioni che debbono, in un ordinamento giuridico come il nostro, ispirato al modello europeo continentale, necessariamente essere riservate al soggetto pubblico, quali la sicurezza e il trattamento relativo al reinserimento sociale del condannato [12]. Vedremo nei prossimi paragrafi quali siano i punti di forza e quelli critici del progetto bolzanino [13], anche in relazione all’ultima riforma del lavoro carcerario emanata dal governo gialloverde che pare ignorare del tutto il tema che pure era stato oggetto di interessanti proposte nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale [14]. Riforma che sul tema del lavoro fa sorgere «dubbi sulla effettiva attuazione della delega, laddove prevedeva l’obiettivo dell’incremento delle opportunità di lavoro retribuito e (…) di reinserimento sociale dei condannati anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna. (…) [T]ale potenziamento sembra essere stato affidato unicamente alla nuova disciplina del lavoro di pubblica utilità» [15], strumento presentato, oltre che con eccessiva enfasi retorica, in un’ottica di giustizia riparativa che poco ha a che vedere con effettivi percorsi di riabilitazione lavorativa.
2. Il difficile iter del progetto bolzanino: storie di ordinaria burocrazia
Il progetto bolzanino sembra partire dalla vision di un uomo politico che, al termine della sua carriera, ha cercato di lasciare un segno duraturo della propria presenza su di un territorio che lo ha visto protagonista della vita pubblica per alcuni decenni. Si tratta di Luis Durnwalder, presidente della Provincia Autonoma di Bolzano dal 1989 al 2014, leader storico della Südtiroler Volkspartei, il partito di riferimento per decenni della cultura tedesca e ladina nell’area bolzanina.
«C’è da tenere presente che questo carcere è stato pensato, voluto alla fine di 25 anni da Presidente di Giunta da Luis Durnwalder, perché costruire un carcere, spendere dei soldi per un carcere non è politicamente proprio una cosa che ti porta avanti (…) diciamo che chi aveva governato in Alto Adige per gli ultimi 25 anni, con la maggioranza assoluta, con il Presidente della Giunta che ha dei poteri enormi rispetto a qualsiasi altro Presidente delle altre regioni italiane, qualsiasi decisione la prende come mono-partito, non ha bisogno di ulteriori confronti, dunque se decide che si fa il carcere, si fa il carcere. Comunque l’ha fatto essenzialmente come ultimo atto della sua presidenza» (Alessandro Pedrotti, Caritas Bolzano).
Iniziativa dunque intrapresa non certo per acquisire consenso elettorale, in tempi in cui il tema carcere è assai poco spendibile sul mercato della politica. A facilitare la scelta, la presenza nella città di Bolzano di una struttura penitenziaria risalente alla metà del XIX secolo, ormai a parere di molti esperti fatiscente e sovraffollata, ma soprattutto collocata in un’area residenziale e centrale della città e quindi facilmente riutilizzabile da parte della Provincia che, secondo l’accordo stipulato con il Demanio statale il 19 marzo 2010, ne diventerà proprietaria appena il nuovo carcere sarà inaugurato.
Che il progetto non fosse spendibile dal punto di vista del consenso elettorale è stato confermato dalla difficile individuazione del sito su cui costruire il nuovo istituto.
«Tale ricerca s’è protratta per un considerevole lasso di tempo, in quanto, oltre alle specifiche normative e direttive ministeriali, venivano in rilievo anche le suscettibilità sociali, che non tollerano siti del genere nelle adiacenze degli insediamenti residenziali. Dopo lungo cercare, alla fine si trovò la soluzione in una proposta di un’impresa edile che era venuta in possesso di un appezzamento adiacente all’aeroporto, affiancato dalla caserma di un nucleo elicotterista e vicino ad una caserma della Guardia di Finanza; tutti soggetti che per ragioni istituzionali non potevano dirsi contrari ai nuovi vicini» (Herman Berger, ex segretario generale della Provincia di Bolzano e primo RUP della procedura).
Dal punto di vista della collocazione territoriale, dunque, l’istituto di Bolzano non si discosta dalle regole non scritte ormai largamente diffuse nell’ambito dell’edilizia penitenziaria della società postmoderna: posizione periferica e distanza da zone residenziali sembrano anche in questo caso essere stati requisiti essenziali per tener fede alla metafora del carcere come discarica sociale. Ma se da questo punto di vista il progetto bolzanino non risulta per nulla innovativo, altrettanto non si può dire per la procedura amministrativa adottata al fine della costruzione e della gestione del nuovo istituto. La scelta di utilizzare lo strumento del project financing e della concessione di lavori pubblici [16], infatti, può essere certamente considerata un unicum nella storia dell’edilizia penitenziaria italiana che da sempre si è avvalsa invece della procedura dell’appalto di opera pubblica [17]. Le motivazioni di tale scelta sono ben analizzate nello studio di fattibilità del progetto e non si discostano da quelle che, anche a livello internazionale, sono state poste a fondamento della privatizzazione di alcune funzioni tradizionalmente gestite dallo Stato [18]. In primo luogo, si mette in luce come il concessionario, chiamato a costruire l’opera nei primi tre anni e a gestire i servizi no core nei successivi diciassette, «è stimolato a fare un progetto [19] che agevoli l’attività gestionale» che sarà a suo carico. In secondo luogo, si ottiene un risparmio di risorse pubbliche in quanto il concessionario investe nell’opera fondi propri e quindi il suo pagamento «viene dilazionato nel tempo per tutto il periodo di durata della concessione». Dal punto di vista della riduzione dei costi, inoltre, «si possono immaginare servizi accessori che il concessionario potrebbe svolgere che garantiscano un flusso di cassa, in modo da ridurre i costi a carico dell’Amministrazione» [20]. Infine, last but not least, «la gestione della struttura risulta più efficiente in quanto il concessionario assume l’obbligazione contrattuale di garantire standard qualitativi predeterminati ed il mancato rispetto di tali standard comporta l’applicazione delle penali e, quale estrema conseguenza, la risoluzione del contratto di concessione». Il canone percepito dal concessionario, infatti, è sempre subordinato all’efficienza della gestione della struttura che viene monitorata nel corso del tempo attraverso la predisposizione e la verifica di indicatori della qualità dei servizi erogati.
Vedremo in seguito come gli aspetti positivi dell’esternalizzazione dei servizi no core possano risultare, almeno in forma potenziale, ben più rilevanti del risparmio economico andando ad incidere sulle dinamiche di potere dell’istituzione totale, ma è significativo che la scelta di utilizzare tale modello organizzativo sia partita dalla Provincia Autonoma per ragioni che poco hanno a che vedere con il campo penitenziario. Tali ragioni, infatti, devono essere fatte risalire alla volontà dell’ente finanziatore di avere un maggior controllo sulle modalità di spesa sia nella fase della costruzione che di gestione successiva della struttura. Motivazioni quindi di natura essenzialmente tecnocratica, non disgiunte da uno spirito autonomistico che da sempre vede con diffidenza ogni ingerenza centralistica [21].
«Il Sudtirol ha da sempre, nel suo DNA, un’idea di autonomia. Nel 1400 è stato fatto un decreto, da Massimiliano d’Austria, in cui i sudtirolesi erano l’unico popolo, nell’Impero, che poteva andare in guerra solo se veniva chiamato in causa. (…) I sudtirolesi hanno sempre avuto dentro di sé l’autonomia e dal momento in cui si è parlato di un assetto finanziario si è parlato, al contempo, di autonomia» (Alessandro Pedrotti, Caritas Bolzano).
Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha quindi dovuto assumere una posizione sollecitato da una proposta proveniente da un soggetto pubblico esterno davanti alla quale sarebbe stato piuttosto difficile rispondere negativamente, considerato il fatto che il piano carceri, presentato all’opinione pubblica sin dal 2010 come la soluzione del problema del sovraffollamento, si era mostrato nella sua realizzazione pratica pressoché irrilevante [22]. Il progetto bolzanino pertanto rischiava di essere l’unico effettivamente realizzabile per quanto riguardava la costruzione di istituti ex novo [23].
Una volta decisa la procedura da seguire, la Provincia Autonoma ha provveduto ad indire la gara pubblica che ha visto la partecipazione di sei soggetti e come vincitore la ditta Inso (Società Italiana per Condotte spa), società nata nel 1974 all’interno del gruppo Eni, specializzata in costruzione e cogestione di strutture ospedaliere [24]. Parallelamente al bando, la Provincia, tramite la Caritas della Diocesi di Bolzano-Bressanone, costituiva un gruppo di lavoro con il compito di raccogliere le best practices, a livello internazionale, relative ai modelli architettonici carcerari e, a livello nazionale, la mappatura dei progetti di reinserimento lavorativo realizzati all’interno degli istituti penitenziari, nonché una ricerca-azione sulla predisposizione degli operatori economici del settore manifatturiero della provincia bolzanina ad instaurate rapporti di collaborazione con la struttura carceraria [25]. Il tentativo quindi è stato quello di inserire il progetto del nuovo carcere integrandolo nel tessuto produttivo del territorio ospitante e di ispirarsi, per quanto riguarda i modelli architettonici e organizzativi, ai modelli più avanzati dei Paesi nordeuropei.
Il vincitore del bando veniva proclamato, rispettando il time planning previsto, nelle prime settimane del 2014, ma la procedura doveva affrontare di lì in poi di una serie di disavventure, tipiche delle vicende delle opere pubbliche italiane: dapprima un ricorso al Tar da parte di uno dei soggetti partecipanti alla gara, comunque respinto; in un secondo momento una lunga diatriba tra Provincia Autonoma e Ministero dell’economia e finanze sulla ripartizione dei fondi necessari alla realizzazione dell’opera; infine, la società vincitrice Inso veniva coinvolta nella situazione di dissesto di Condotte spa che portava al suo commissariamento e all’amministrazione straordinaria ex legge Marzano con provvedimento del Tribunale di Roma del 14 agosto 2018. Al momento in cui scrivo questo testo, da notizie giornalistiche, i commissari sono riusciti a sbloccare dagli istituti di credito 190 milioni di euro di rifinanziamento con garanzia da parte dello Stato [26] che dovrebbero consentire di far partire i lavori nei primi mesi del 2019. Stiamo parlando dunque di un progetto che, nonostante le difficoltà incontrate nella fase prodromica alla sua attuazione, si sta avviando e risulta quindi estremamente interessante valutarne i possibili elementi innovativi, nonché sottolinearne le potenziali criticità. Tale valutazione verrà tratteggiata utilizzando le interviste ad alcuni testimoni privilegiati [27] e attraverso l’analisi del Disciplinare della gestione dei servizi che regolerà i rapporti tra concessionario, amministrazione penitenziaria e Provincia di Bolzano una volta che l’istituto sarà entrato in funzione.
3. Punti di forza e criticità del progetto nella percezione dei testimoni privilegiati intervistati
Un primo punto critico che emerge dalle dichiarazioni degli intervistati è stato quello di individuare un soggetto imprenditoriale che possedesse le competenze in un settore di mercato in Italia pressoché inesistente. Si tratta di un punto evidentemente decisivo non solamente per quanto riguarda la fase di progettazione e di costruzione della struttura carceraria, ma soprattutto per quella della gestione dei servizi no core. La società Inso da questo punto di vista ha cercato di acquisire anche competenze esterne, come si evince dalle dichiarazioni di una delle principali progettiste che hanno preparato il programma risultato vincitore.
«Condotte è una realtà che si occupa prevalentemente di infrastrutture così come buona parte dei progettisti che hanno partecipato alla cordata dell’area di Bolzano. Per quanto riguarda INSO, interamente di proprietà di Condotte, loro si occupano in particolare di edilizia civile, soprattutto sanità, e avevano già partecipato a più di una iniziativa di gara per la costruzione e la gestione di penitenziari all’estero. Quindi avevano un’esperienza a livello di progettazione, tant’è che durante la preparazione del progetto fecero venire uno dei maggiori esperti francesi di edilizia carceraria, in Francia sono molto più avanti di noi sotto questo punto di vista, in Italia nessuno ha esperienza in questo ambito (…) è stato creato un gruppo di lavoro, raggruppamento di progettisti, quasi tutti di Bolzano e Trento, lo Studio Policreo di Parma, per la parte di costruzione e GSP Qualitas per la parte dei servizi gestionali: manutenzione, pulizie, mensa, lavanderia e servizi trattamentali. Le difficoltà sono quelle di una iniziativa nuova che va studiata; la compagine era costituita tutta da soggetti abituati, da lungo tempo, ad approcciare al project financing, noi in particolare abbiamo sviluppato progetti di praticamente tutti i project financing ospedalieri in Italia, quindi non è che l’approccio sia molto diverso, diversa è la parte che riguarda i servizi trattamentali, ma manutenere un impianto elettrico in un ospedale o in un carcere non è che faccia molta differenza (…) anzi fare le pulizie nelle sale operatorie è sicuramente più critico che fare le pulizie in un carcere» (Silvia Maina, GPS Qualitas).
Emerge da queste dichiarazioni una certa sottovalutazione delle implicazioni che operare in una istituzione totale come il carcere comporta. L’impostazione sembra concentrarsi sulle caratteristiche tecniche delle attività che vi si svolgono, senza considerare sufficientemente come il contesto carcerario tenda a declinare e a soggiogare ogni relazione tra i soggetti che vi operano, al fine di preservare gli equilibri di potere che si instaurano tra custodi e custoditi.
«Gli stessi problemi che ci possono essere in qualunque appalto di servizi erogato per un ente pubblico perché bisogna interfacciarsi in un ospedale con la direzione sanitaria così come in un carcere con la direzione penitenziaria, la quale continua a decidere chi tra i detenuti debba svolgere le attività lavorative, per il privato non fa molta differenza. L’importante che vengano selezionati quelli che diano meno problemi. (…) Al costruttore non interessa fare dei problemi sulla parte di gestione, la svolge perché così prevede l’appalto, gli conviene avere persone valide che cerchino di far funzionare le cose, in stretto raccordo, per forza, con l’amministrazione penitenziaria. Ma non c’è un’esperienza precedente per cui non si possono sapere a priori quali saranno i problemi» (Silvia Maina, GPS Qualitas).
Affiora qui un atteggiamento “minimalista” da parte del concessionario nella gestione dei suoi rapporti con la direzione penitenziaria. Un principio di non ingerenza nelle dinamiche dell’istituzione totale che dovrebbe continuare a selezionare le persone detenute che accedono ai lavori interni in una logica premiale che assume i connotati del sistema dei privilegi descritto da Goffman, piuttosto che quello dei diritti previsto dal nostro ordinamento costituzionale dell’esecuzione penale [28]. L’importante è che i lavoratori-detenuti “non diano problemi” e il concessionario sembra non essere interessato alla selezione del personale, né, conseguentemente, ad una valutazione della sua operosità, abilità professionale, attitudini lavorative, capacità di apprendere etc. Valutazioni che rientrano nella ordinaria attività dell’imprenditore rispetto ad un lavoratore neoassunto e che dovrebbero essere svolte anche nei confronti della persona reclusa, finanche nella prospettiva di una sua assunzione, una volta trascorso il periodo detentivo, nelle attività extracarcerarie del concessionario stesso [29]. Sarebbe questa una potenzialità del sistema misto alquanto “rivoluzionaria” rispetto agli equilibri di potere esistenti: creare un canale di valutazione del lavoratore-recluso almeno parzialmente autonomo rispetto a quello tradizionale dell’istituzione totale, nell’ambito del quale prevalga il primo dei due termini del binomio, ovvero il lavoratore rispetto al recluso [30]. Il valore aggiunto, infatti, del coinvolgimento dell’imprenditore privato nella gestione del lavoro interno dovrebbe essere, infatti, proprio quello relativo all’instaurarsi tra la persona reclusa e il concessionario un rapporto quanto più possibile simile a quello che si sviluppa tra un qualunque lavoratore e il suo datore di lavoro all’esterno del contesto carcerario. Il processo di infantilizzazione al quale è sottoposta la persona reclusa all’interno della istituzione totale, infatti, rende il lavoro inframurario un’attività che in ogni caso si distingue, per eccesso o per difetto, da quella svolta da un comune lavoratore. Oggi più raramente, per eccesso, quando diventa uno strumento di mera afflizione [31]; per difetto quando perde il suo valore produttivo e professionalizzante per assumere i connotati di un mero impiego del tempo in attività marginali e squalificanti. Connotati così presenti nella cultura carceraria tanto che nel gergo dell’istituzione totale i lavori domestici vengono designati con diminutivi quali spesino, scopino etc. [32]. Che la forza gravitazionale dell’istituzione totale sia così intensa da impedire che anche i rapporti di lavoro tra lavoratore recluso e concessionario sfuggano alla sua logica è questione di non facile risposta, ma certamente è attraverso il superamento di tale logica che si gioca la valenza risocializzante del lavoro all’interno del carcere. Vedremo infra come, da questo punto di vista, il Disciplinare sulla gestione dei servizi no core del carcere di Bolzano apra prospettive interessanti.
Anche le opinioni ministeriali che ho raccolto in merito al progetto sembrano scarsamente consapevoli di tali questioni e appaiono in linea con una percezione dei benefici del modello della cd. gestione mista strettamente legati alla maggiore efficienza del sistema.
«In sostanza, attraverso tale progettualità, l’amministrazione assume il suo ruolo più confacente di controllore, vigilando i processi, piuttosto che quelli di gestione diretta di taluni servizi che non sarebbero dissimili ove anche realizzati in ambito squisitamente privati. Si pensi al servizio di preparazione dei pasti per le persone detenute che può corrispondere ad analogo servizio assicurato presso una fabbrica, una scuola pubblica o privata, un ospedale pubblico o privato. (…) Non vedo rischi nella misura in cui ciascuna parte agisca ed operi in modo rigoroso e nel rispetto delle regole contrattuali, anzi, ritengo che sia più semplice orientare, vigilare e sanzionare le condotte non rispettose dei patti piuttosto che avere la gestione diretta di alcuni servizi , inventandoci semmai delle professionalità che non abbiamo assolutamente, mentre esse sono ben presenti ed organizzate nel mondo del privato»(Enrico Sbriglia, Provveditore Amministrazione penitenziaria Regione Veneto, Trentino Alto-Adige e Friuli Venezia Giulia).
Si sottolinea la maggiore economicità dei servizi gestiti da soggetti esterni all’amministrazione penitenziaria che dispensano quest’ultima da incombenze gestionali percepite come gravose e verso le quali si ammette una sostanziale incompetenza.
«Si spera in un miglioramento qualitativo delle attività di servizio oggetto della concessione posto che la remunerazione di tali servizi è legata proprio ad una puntuale e soddisfacente resa delle prestazioni pattuite. (…) Nel sistema previsto una serie di rilevanti oneri e adempimenti, si pensi alla sicurezza sul lavoro, alle retribuzioni degli operatori e dei detenuti impiegati nei servizi, alla responsabilità nella conduzione e gestione degli impianti, eccetera, viene traslata dal concedente al concessionario, sollevando la pubblica amministrazione da una serie di obblighi, adempimenti tecnici e amministrativi, nonché lavori anche di tipo specialistico per i quali spesso non si dispone di adeguate risorse umane e strumentali» (Ettore Barletta, dirigente Ufficio VII, Coordinamento tecnico e gestione dei beni immobili del Dap).
Tutt’al più si cerca di esorcizzare lo spettro, da taluni evocato, della privatizzazione dell’esecuzione penale di matrice statunitense sottolineando le specificità della situazione italiana o scongiurando il pericolo con sperticate professioni di fede “statalista”.
«Non ritengo che dietro questo innovativo progetto possa prospettarsi una situazione di business in termini affaristici, anche perché la gestione di una struttura di servizio sociale come il carcere in Italia, nel rispetto della legislazione nazionale e internazionale, non è semplice; si tratta di esperienze parallele, per alcune caratteristiche, agli ospedali e ad altre residenze comunitarie coatte, non facili da organizzare e gestire»(Ettore Barletta, dirigente Ufficio VII, Coordinamento tecnico e gestione dei beni immobili del Dap).
«Ho un animo fieramente statalista e ogni giorno non ho difficoltà a confermare con piacere un antico giuramento di fedeltà e lealtà che feci sulla nostra Costituzione» (Enrico Sbriglia, Provveditore Amministrazione penitenziaria Regione Veneto, Trentino Alto-Adige e Friuli Venezia Giulia).
Ciò che sembra del tutto assente da queste dichiarazioni, o per lo meno non esplicitata verbalmente, è la consapevolezza di come la presenza di un concessionario esterno che cogestisca settori importanti della vita detentiva potrebbe modificare in misura rilevante le dinamiche dell’istituzione totale e in particolare i rapporti di potere che si instaurano tra internati e staff e tra i componenti dello staff stesso. In particolare, l’attuale gestione dei lavori intramurari alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e le attività della cd. Mof (Manutenzione ordinaria dei fabbricati) va valutata a partire da alcuni dati statistici che ne condizionano pesantemente le modalità attuative. È noto che ormai da molti anni la percentuale delle persone recluse a cui è garantito il diritto al lavoro come componente fondamentale del trattamento risocializzante rappresenta una stretta minoranza della popolazione detenuta. Occorre, infatti, considerare che quando tale percentuale è quantificata in poco più del 30% della popolazione reclusa [33], non si fa riferimento ad una situazione in cui tale quota, pur minoritaria, di detenuti lavori in modo continuativo; in essa rientrano infatti coloro che, nel corso dell’anno, hanno svolto mansioni lavorative anche per un breve periodo di tempo [34]. Inoltre, la stragrande maggioranza (pari all’86,5%!) di questi detenuti lavoranti non operano alle dipendenze di datori di lavoro esterni, ma della stessa amministrazione penitenziaria. Dunque, è possibile affermare che il lavoro all’interno degli istituti rappresenta una risorsa scarsa distribuita quasi interamente dall’amministrazione penitenziaria con criteri altamente selettivi attraverso processi decisionali ampiamente discrezionali e spesso poco trasparenti [35]. Ci sono evidentemente tutti i presupposti perché tale risorsa si trasformi in un formidabile strumento di potere a disposizione di quei gruppi che possono controllarne la distribuzione. Tra questi ultimi assume un ruolo certamente preponderante la polizia penitenziaria che non solo è in grado di condizionare le decisioni relative all’assegnazione dei lavori interni, ma che attualmente svolge un ruolo di direzione dei lavori stessi attraverso l’esercizio di funzioni che esorbitano palesemente dalle sue competenze sia formali, che sostanziali. Attualmente gran parte dei cd. lavori della Mof vengono diretti da agenti di polizia penitenziaria che si improvvisano, a seconda delle occasioni, elettricisti, capomastri, executive chefs, falegnami etc. [36]. Un sistema che, oltre a permettere l’acquisizione di piccoli benefit economici da parte degli agenti, consento loro di avere un controllo totale sulle attività di lavoro interne svolte dalle persone recluse, con tutti gli effetti negativi in termini di infantilizzazione dei lavoratori reclusi e di scadente formazione professionale.
Il modello organizzativo della gestione dei servizi no core da parte del concessionario potrebbe rappresentare un efficace strumento di contrasto rispetto ai meccanismi inesorabili con cui l’istituzione totale stravolge del tutto il significato delle attività lavorative e la loro funzione riabilitativa. Ovviamente tale opera di contrasto è tutt’altro che scontata e possiede qualche chanches di successo solamente a precise condizioni che cercherò di delineare brevemente anche alla luce delle esperienze internazionali di esternalizzazione di servizi carcerari [37]. Quel che ritengo, invece, indubitabile è che un sistema di questo tipo abbia potenzialità maggiori rispetto a quello definito dalla più recente riforma emanata dal Governo gialloverde incentrata sui lavori di pubblica utilità. Sebbene, infatti, questi ultimi non possano avere ad oggetto, ex comma 2 del nuovo art. 20-ter dell’Ordinamento penitenziario, «la gestione o l’esecuzione dei servizi interni d’istituto» [38], è abbastanza evidente, dall’enfasi già ricordata con cui il legislatore presenta questo istituto, che esso rappresenta il “nuovo” modello di riferimento del lavoro all’interno del carcere. Un modello che, rifacendosi ad un istituto introdotto nel nostro ordinamento come misura sanzionatoria-riparatoria, ha come presupposto il lavoro volontario non retribuito ed è, quindi, privo alla radice di ogni requisito necessario per instaurare un rapporto di lavoro “adulto” e quanto più possibile simile a quelli esistenti nella società extramuraria [39]. Come noto, l’uso del termine volontario per designare comportamenti richiesti a persone private della libertà è un ossimoro che assai spesso è riconducibile a vuote retoriche moralistiche.
4. Precauzioni di metodo
4.1 La scelta del concessionario e cautele per non creare il business penitenziario
Una prima precauzione da adottare in una prospettiva di resistenza alle logiche dell’istituzione totale è di natura macroeconomica: occorre evitare che si creino le condizioni di quello che negli Stati Uniti è stato chiamato il business penitenziario. Senza arrivare agli eccessi del sistema anglosassone, anche in un Paese come la Francia di cultura giuridica statalista simile alla nostra, l’esternalizzazione della gestione del sistema carcerario ha visto sorgere soggetti economici privati che si sono specializzati nel settore realizzando monopoli che svolgono un’attività di lobbying nei confronti del sistema politico al fine di far prevalere politiche penitenziarie che quanto meno non riducano la domanda di pena detentiva [40]. È noto, infatti, che il processo di esternalizzazione ha avuto come principale motivazione quella di affrontare il sovraffollamento carcerario prodotto dal mass imprisonment sviluppatosi nel mondo occidentale negli Stati Uniti a partire dagli anni ’80 del secolo scorso attraverso un più efficiente uso delle risorse pubbliche che il privato avrebbe dovuto garantire [41]. «La scelta sembra, dunque, dettata non tanto dall’effettivo conseguimento di una migliore qualità dei servizi o di un risparmio, ma dalla semplice impossibilità e inadeguatezza dell’apparato pubblico a sostenere la crescita del settore» [42]. Tuttavia, se si crea un nuovo settore di mercato, gli operatori economici tenderanno ad occuparlo e ad incrementare la domanda del servizio verso cui hanno indirizzato la propria struttura produttiva: così come i proprietari di una catena di hotel o di ristoranti hanno interesse ad incrementare i flussi turistici, i soggetti economici che gestiscono istituti penitenziari avranno interesse che il tasso di carcerazione di un Paese faccia registrare un trend positivo. Dunque, «[n]on è da considerarsi paradossale una situazione in cui si assista all’emergere di una “lobby del carcere privato” interessata ad aumentare i propri dividendi, nel contempo restringendo le funzioni repressive dello stato per trasformarle in istanze che richiedono comportamenti normativi a tutela di interessi privati» [43].
Come evitare che si crei tale situazione di conflitto di interessi tra imperativi economici ed esigenza pubblica di un uso quanto più possibile moderato dalla carcerazione? Innanzitutto, occorre limitare rigorosamente l’area dei servizi da esternalizzare sia per ragioni di carattere politico-costituzionale che rendono indispensabile il ruolo centrale dello Stato nell’esercizio della funzione pubblica [44] di esecuzione delle pene, sia per evitare che i soggetti privati si specializzino in servizi tipici delle strutture carcerarie e detentive costituendo un vero e proprio mercato del business penitenziario. Come afferma un intervistato, gestire una mensa, i servizi di pulizia, la manutenzione ordinaria e straordinaria di un carcere non è molto diverso dal farlo in un contesto ospedaliero piuttosto che scolastico. Occorre, quindi, costruire le condizioni per le quali gli operatori economici tendano a diversificare le loro attività secondo il criterio del tipo di servizio erogato e non secondo quello del tipo di strutture entro le quali tali servizi vengono forniti. Il caso bolzanino da questo punto di vista è un esempio di buona pratica [45]: il concessionario Condotte spa, infatti, è, come detto, un operatore economico che spazia in vari settori e quindi non dipende in via principale dal mercato dei servizi penitenziari. Ciò rende più difficile l’instaurarsi di una perversa dinamica tra interessi economici e domanda di penalità. Occorre incentivare l’aspetto sociale delle finalità dell’imprenditoria privata; essa deve poter trovare nel settore carcerario un ritorno “d’immagine” più che di tipo strettamente economico. Si tratta di un meccanismo che ha trovato le sue prime applicazioni con il concetto di “bilancio sociale” o Corporate Social Responsability (Csr) dell’impresa e che ha funzionato piuttosto bene nell’ambito della protezione dell’ambiente. Così come è entrato ormai nella cultura degli affari che utilizzare maggiormente energie rinnovabili o produrre minori quantità di rifiuti non riciclabili è un fattore che consente di fornire un’immagine positiva della propria azienda, nulla vieterebbe di considerare in tali termini un’impresa privata che voglia investire nel settore penitenziario in termini di formazione professionale e reinserimento lavorativo delle persone recluse, rendendo alla società un servizio in termini di maggiore sicurezza e di riduzione dei costi sociali della penalità [46].
4.2 La regolamentazione dei rapporti tra concessionario e amministrazione penitenziaria: il Disciplinare per la gestione dei servizi
Un altro elemento fondamentale da considerare per ottenere innovazioni positive in termini di attenuazione dei processi di prigionizzazione [47] è quello del quadro normativo entro il quale devono essere inscritti i rapporti tra concessionario e amministrazione penitenziaria. Da questo punto di vista è estremamente interessante esaminare il preliminare [48] del Disciplinare della gestione dei servizi che è stato stipulato tra Provincia Autonoma di Bolzano e il concessionario. Prenderò in esame, per economia di spazio, solamente alcuni aspetti a mio parere estremamente significativi nell’ottica della gestione mista come strumento di contenimento della logica dell’istituzione totale.
Il Disciplinare prevede che il concessionario metta a disposizione dell’amministrazione penitenziaria, senza oneri aggiuntivi, un sistema di gestione elettronica delle cd. domandine [49], ovvero quelle richieste che, nel modello organizzativo informale [50] presente nella realtà del sistema carcerario italiano, le persone recluse devono presentare agli agenti di polizia penitenziaria per soddisfare qualsiasi esigenza che vada al di là della routine quotidiana. «Tale sistema prevede che i detenuti, dopo aver compilato a mano le “domandine”, le consegnino agli agenti, i quali provvederanno al loro inserimento elettronico sul software messo a disposizione dal Concessionario, attraverso le postazioni/pc scanner fornite, che potranno essere collocate presso le sezioni detentive negli appositi spazi concordati con la Direzione; si precisa che l’uso di tali postazioni sarà riservato esclusivamente agli agenti di polizia penitenziaria» (art. 2, comma 8 Disciplinare). Emergono qui in modo evidente le precauzioni in merito ad un mutamento organizzativo reso possibile dall’uso della tecnologia che potrebbe rivelarsi alquanto destabilizzante per gli equilibri di potere dell’istituzione totale. Sulla gestione delle domandine, sostanzialmente arbitraria e del tutto discrezionale da parte della polizia penitenziaria, infatti, si fonda buona parte del potere di quest’ultima nei confronti della popolazione reclusa. Nella situazione attuale l’agente di polizia penitenziaria non ha alcun onere di risposta nei confronti della domandina né rispetto ai tempi [51], né rispetto addirittura alla necessità di fornire comunque una risposta, auspicabilmente anche con qualche motivazione in caso di diniego. Poter tracciare e certificare attraverso lo strumento informatico, gestito da un terzo rispetto al conflitto custodi-custoditi qual è il concessionario, la data di presentazione e il contenuto della richiesta, nonché la risposta fornita dall’amministrazione penitenziaria rappresenterebbe con ogni evidenza una pratica che potrebbe creare non pochi problemi al sistema dei privilegi che si instaura nelle istituzioni totali. Di qui l’estrema prudenza con cui il Disciplinare tratta il tema e il permanere di quel vero e proprio tabù ancora oggi dominante nella cultura carceraria: la persona reclusa davanti ad uno schermo di computer, potenzialmente in grado di collegarsi con il misterioso mondo del web [52]. Come noto a tutti gli esperti di informatica, oggi esistono tecnologie in grado di minimizzare, se non di escludere totalmente, i rischi legati ad un uso improprio del web da parte delle persone recluse, ma con ogni evidenza non siamo qui in presenza di una resistenza legata ad un problema di sicurezza, bensì ad una questione strettamente connessa ai rapporti di potere su cui si reggono le istituzioni totali. Rapporti di potere che in questo frangente producono, tra l’altro, uno dei maggiori danni derivanti oggi dalla prigionizzazione: la diffusione di un profondo digital divide tra popolazione reclusa e cittadini liberi con la formazione di gruppi di persone affette da grave analfabetismo digitale a cui sono preclusi interi settori del mercato del lavoro più qualificato.
Un altro tema decisivo per innescare processi innovativi nell’ambito dell’istituzione totale è quello relativo al monitoraggio e alla verifica della qualità dei servizi erogati dal concessionario. Il Disciplinare, da questo punto di vista, mette a punto un articolato “sistema di misurazione delle performances” dotato di puntuali strumenti sanzionatori in termini di penali a carico del concessionario [53]. Al fine di consentire tale misurazione, si prevede la stesura di un “Piano Qualità dei Servizi” per ognuno dei servizi no core gestiti dal concessionario con le relative performances attese e gli indicatori con i quali verificare il loro raggiungimento. È molto significativo che tra questi indicatori siano presenti anche indagini sul grado di soddisfazione dell’utente secondo le ormai consolidate pratiche della cd. customer satisfaction [54]. Il Disciplinare, in tale prospettiva, utilizza, rispetto ai vari servizi oggetto di valutazione, la seguente formula standard: «Il Concessionario garantirà un sistema di monitoraggio della qualità del servizio anche tramite la ricezione di un feedback da parte degli utenti del servizio (inclusi i detenuti), i quali, a campione e individuati unitamente alla Direzione Penitenziaria, potranno esprimere un giudizio sul servizio, che dovrà essere indicativo e garantire un adeguato coinvolgimento delle persone interpellate». Questa formula si ripete in particolare per il servizio mensa (art. 34, comma 32), quello di pulizia e ricambio biancheria (art. 15, comma 27), quello di igienizzazione e pulizia dei locali di detenzione (art. 24, comma 27), quello di organizzazione della attività sportive (art. 9, comma 11) e ricreative (art. 13, comma 11), infine, last but not least, quello relativo alla formazione professionale e al lavoro svolto in carcere (art. 13, comma 12). Il Disciplinare, inoltre, non si limita ad auspicare genericamente il sistema di monitoraggio, ma descrive anche lo strumento d’indagine attraverso il quale far emergere le opinioni dei clienti sul servizio, individuandolo in questionari a risposta chiusa, che dovranno contenere anche uno spazio per eventuali osservazioni. Non solo: il Disciplinare già indica esempi di domande da inserire nel questionario. Rispetto al servizio mensa occorrerà indagare sulla puntualità e la qualità dei pasti; nell’ambito del servizio pulizia, se il ricambio della biancheria avviene con la regolarità stabilita; in generale, se si ritiene adeguata la professionalità del personale addetto; se le attività sportive siano «state utili per favorire la socializzazione con altri detenuti e per migliorare le relazioni interpersonali»; se le attività ricreative e culturali «abbiano permesso di superare eventuali barriere etnico-culturali»; se l’attività lavorativa svolta in carcere «possa tornare utile al di fuori del carcere per la ricerca di un’occupazione», e così via.
Risulta del tutto evidente quale sia la portata di innovazione culturale di un approccio che considera la persona reclusa come un cliente di cui occorre misurare il grado di soddisfazione nell’usufruire dei servizi erogati da un istituto penitenziario. Viene messa in discussione addirittura la stessa concezione afflittiva della pena o, per meglio dire, tale afflittività viene ricondotta ai suoi stretti confini di limitazione della libertà. Ogni altra sofferenza tradizionalmente legata alla condizione detentiva (vitto scadente, difettosa pulizia dei locali, inattività fisica prolungata, etc.) diventa un elemento che influenza negativamente la soddisfazione del cliente recluso e quindi va contrastata e possibilmente eliminata da chi gestisce il servizio. Sembra già di sentire gli scandalizzati benpensanti nostrani evocare “le carceri come hotel a cinque stelle”; in realtà si tratterebbe solamente di ricondurre la pena detentiva al dettato costituzionale e alla radice illuministica del carcere moderno [55].
Naturalmente occorre essere consapevoli che non sarà certamente un disciplinare dei servizi no core gestiti da un concessionario esterno a rappresentare un ostacolo insormontabile al riemergere delle dinamiche strutturali delle istituzioni totali che esistono da quando esse sono state concepite. Del resto, nello stesso disciplinare emergono alcuni dettagli organizzativi che potrebbero limitare fortemente il carattere innovativo delle pratiche di customer satisfaction. Si precisa, ad esempio, che «i questionari saranno distribuiti solo previo consenso da parte della direzione carceraria»; si afferma che il campione di intervistati sarà individuato «unitamente alla direzione del carcere»; nulla viene detto su quali saranno le modalità di somministrazione dei questionari che possano garantire l’anonimato degli intervistati. Per il corretto funzionamento degli strumenti di valutazione, infatti, è indispensabile che il campione di intervistati venga scelto con metodo rigorosamente statistico (e quindi con i dovuti elementi di casualità regolata) e che la somministrazione del questionario avvenga con modalità in grado di garantire la persona reclusa che il suo giudizio sui servizi di cui beneficia, eventualmente negativo, non abbia ripercussioni sulle sue condizioni detentive. Aspetti non facili da garantire in un contesto materiale come quello carcerario, ma che aprono in ogni caso nuovi spazi di contrattazione e di negoziazione nel perenne conflitto tra custodi e custoditi. Decisivo da questo punto di vista sarà, a mio parere, l’atteggiamento che verrà mostrato da due attori del campo del penitenziario: il concessionario e il direttore dell’istituto penitenziario. Il primo dovrà mostrare la necessaria determinazione nel far valere la propria autonomia decisionale nell’ambito delle scelte organizzative relative alla gestione dei servizi no core, incentivato in tale prospettiva dalla minaccia del pagamento di consistenti penali nel caso i servizi non raggiungano il livello di qualità previsto nel contratto. Il secondo, allo stesso modo, dovrà essere in grado di essere sufficientemente refrattario alle pressioni che di certo giungeranno da parte dall’attore che, in termini di potere, ha maggiormente da perdere in questo processo innovativo, ovvero la polizia penitenziaria [56].
Tra le attività di monitoraggio previste dal Disciplinare vi è anche una sezione dedicata alla valutazione da parte del personale del concessionario dei percorsi di reinserimento sociale e lavorativo durante lo svolgimento delle attività che il recluso compie sotto la direzione del concessionario stesso. A tal fine, recita il Disciplinare, «saranno predisposte delle apposite schede sulle quali dovranno essere riportate, a cura del personale del Concessionario coinvolto nel servizio, le informazioni necessarie per valutare l’approccio dei detenuti verso le attività svolte» (art. 13, comma 14). Tali schede hanno la finalità di far emergere la valutazione che il concessionario effettua rispetto alla capacità lavorativa della persona detenuta e «potranno essere messe a disposizione anche delle ditte terze che saranno coinvolte dal Concessionario per fare eseguire ai carcerati lavorazioni all’interno del carcere o presso le quali i carcerati ammessi al lavoro esterno presteranno la propria opera» (art. 13, comma 15). E anche in questo caso il Disciplinare indica i contenuti principali di tale scheda di valutazione: il grado di socializzazione nel contesto lavorativo, le capacità di coinvolgimento nella dimensione lavorativa e di apprendimento dei compiti svolti, la professionalità raggiunta, l’autonomia nelle scelte decisionali nelle mansioni lavorative.
In quest’ambito le resistenze da parte del campo penitenziario potrebbero giungere dagli operatori del trattamentale in quanto è abbastanza evidente che ci si muove su di un territorio assai vicino a quello di loro competenza: una valutazione sul grado di efficacia dei percorsi di reinserimento lavorativo, infatti, non potrà non incidere anche su quella che tali operatori devono inviare alla magistratura di sorveglianza per la concessione delle misure alternative alla detenzione. Qui è necessario che si delimitino con chiarezza le sfere di competenza per preservare il principio dell’appartenenza alla sfera pubblica della funzione gestionale dell’esecuzione penale, senza peraltro perdere l’opportunità di utilizzare, a fini innovativi, elementi organizzativi non del tutto compromessi dalle dinamiche dell’istituzione totale introdotti da un attore esterno al campo penitenziario. Almeno dal punto di vista concettuale non è particolarmente arduo tener separati i due tipi di valutazione: quella del concessionario deve rimanere strettamente legata alla dimensione lavorativa della persona reclusa, quella degli operatori del trattamentale, invece, adotta uno spettro di osservazione più ampio riguardante le capacità di reinserimento sociale e la residua pericolosità sociale del condannato attraverso un giudizio prognostico concernente la sua propensione ad abbandonare la carriera criminale una volta ritornato in libertà.
Ciò che va, tuttavia, attentamente preservata è l’autonomia della sfera dei rapporti tra concessionario e lavoratore-detenuto nell’ambito della quale è il primo dei due termini che deve prevalere. Occorre, in altre parole, costruire degli spazi all’interno del carcere che siano, per così dire, immuni dalle dinamiche dell’istituzione totale [57] e che riproducano il più possibile relazioni sociali e professionali simili a quelle che si svolgono nella società dei liberi cittadini. Le valutazioni a cui è sottoposto il lavoratore-detenuto devono essere di altra natura ed avere altri obiettivi rispetto a quelle dello staff penitenziario: dovrebbero essere le valutazioni che un qualsiasi datore di lavoro pone come premessa alla scelta di assumere un lavoratore.
Come insegna la recente riforma della sanità penitenziaria italiana [58], costruire questi spazi, isole che dovrebbero difendere strenuamente la loro autonomia nel mare minaccioso dell’istituzione totale, è così difficile da sconfinare, secondo alcuni, nell’irrealizzabile. Non di meno, a mio parere, l’ingresso nel campo penitenziario di nuovi attori quanto più possibile estranei ad esso può innescare processi di mutamento destabilizzanti per l’equilibrio di potere tra staff e internati. Esistono del resto scelte organizzative che possono favorire la costruzione di questi spazi di innovazione; per concludere ne cito un paio desumibili dal Disciplinare più volte citato.
L’art. 11 del Disciplinare regolamenta la divisa del personale del concessionario prevedendo che esso, per consentire che sia facilmente riconoscibile, adotti «un diverso colore di divisa per ogni servizio, in modo che il personale della Casa Circondariale ed i detenuti stessi possano associare immediatamente ad ogni colore di divisa la natura del servizio. Il personale dovrà riportare sulla divisa la scritta o il distintivo di riconoscimento del Concessionario, la targhetta con le generalità e la fotografia». Il Disciplinare non precisa se tale disposizione dovrà essere attuata anche per le persone recluse che lavoreranno alle dipendenze del Concessionario, ma certamente tale attuazione sarebbe decisiva per la percezione collettiva della comunità carceraria della loro identità, nonché per la loro autopercezione. È noto, infatti, come uno degli antichi rituali di degradazione delle istituzioni totali consistesse nel segnare la nuova identità dell’internato attraverso la spoliazione degli abiti civili e l’assegnazione della divisa del carcerato; pratica così diffusa da essere entrata e rimasta nell’immaginario collettivo anche dopo il suo abbandono [59]. Assegnare al recluso la divisa di lavoratore, con tanto di indicazione delle sue generalità non per attribuirgli uno stigma, ma al fine della sua responsabilizzazione appunto come lavoratore, rappresenterebbe certamente un segnale culturale di non poco conto.
Gli spazi all’interno dell’istituzione totale, inoltre, hanno necessità di una loro consistenza materiale attraverso l’individuazione di confini ben definiti. Il Disciplinare prevede che tutti i luoghi in cui il concessionario gestisce in esclusiva i servizi no core, come quelli della preparazione dei pasti e della conservazione degli alimenti, siano liberamente accessibili a fine ispettivi, senza alcun preavviso, da parte degli organi di controllo del concedente (ovvero della Provincia di Bolzano) e della direzione carceraria. Qui emerge, tra le righe, una considerevole inversione della prospettiva con cui tradizionalmente si percepiscono gli spazi all’interno del carcere: non è l’amministrazione penitenziaria che concede il permesso di accedere ad uno spazio che considera come di sua assoluta proprietà, ma è invece l’amministrazione che, per fini ispettivi e di controllo, può entrare in un ambito spaziale che altrimenti gli sarebbe precluso. Anche in questo contesto, quindi, l’esternalizzazione dei servizi no core è in grado potenzialmente di consentire ad uno sguardo esterno di penetrare nelle impermeabili trame dell’istituzione totale con effetti senza dubbio positivi in termini di attenuazione dei meccanismi di prigionizzazione: in quell’avverbio risiede peraltro tutta l’incertezza dell’impresa.
[1] Se si fa eccezione forse per la primissima fase di sviluppo dell’istituzione carceraria negli Stati Uniti (cfr. D. Melossi, M. Pavarini, Il carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario [XVI−XIX secolo], il Mulino, Bologna, 1977, p. 175 ss.) e per i Paesi governati da regimi autoritari come l’Unione Sovietica, anche dopo la caduta del regime comunista, dove il lavoro forzato ha probabilmente avuto qualche ricaduta di tipo economico.
[2] Ed è questo, come vedremo, il meccanismo con cui oggi viene distribuita la risorsa scarsa dei lavori interni agli istituti penitenziari.
[3] Cfr. D. Melossi, M. Pavarini, op. cit., p. 76.
[4] Per la ricostruzione, attraverso una rigorosa documentazione d’archivio, del progetto di costruzione e dei primi anni di funzionamento della struttura penitenziaria saluzzese, cfr. S. Montaldo, La Casa di correzione e di lavoro di Saluzzo e la riforma penitenziaria nel Regno di Sardegna, in Il presente e la storia, numero monografico La Castiglia. Pagine di carcerazione dal Regno di Sardegna ai giorni nostri, n. 74, 2008, pp. 15−59.
[5] Per una concisa descrizione di tale progetto museale, unico in Italia relativamente al tema della storia del carcere disciplinare moderno, mi permetto di rinviare a C. Sarzotti, Il museo della memoria carceraria della Castiglia di Saluzzo, in Antigone. Quadrimestrale di critica al sistema penale e penitenziario, 3, 2013, pp. 173−184 e al sito www.museodellamemoriacarceraria.it
[6] Per un resoconto della vicenda di Caorsi si può leggere la sua illuminante relazione che inviò al Parlamento Subalpino alcuni anni dopo il suo esautoramento. Cfr. G. Caorsi, Sul sistema penitenziario e sulle carceri, Torino, Tip. Castellazzo Degaudenzi, 1850.
[7] Mi riferisco al conflitto, spesso sotterraneo, che, nel corso delle attività degli Stati generali dell’esecuzione penale e in seguito alla “controriforma” approvata dal nuovo governo gialloverde, ha riguardato la figura del direttore di istituto minacciata di estinzione per la scelta di non bandire nuovi concorsi esterni a favore di bandi interni aperti alle figure dirigenziali della polizia penitenziaria.
[8] I penitenziaristi ottocenteschi discussero a lungo se fosse legittimo mantenere nella dieta del recluso il vino, ma per lo più conclusero per la soluzione positiva, anche se con un rigido controllo della somministrazione della bevanda.
[9] S. Montaldo, op. cit., p. 51.
[10] S. Ardita, L. Degl’Innocenti, F. Faldi, Diritto penitenziario, Roma, Laurus Robuffo, 3^ ediz., 2016, p. 71. Questa citazione di un manuale di diritto penitenziario è molto significativa del modo di percepire i cd. lavori domestici nella cultura carceraria dominante perché proviene da Sebastiano Ardita, uno dei maître à penser della “controriforma” dell’ordinamento penitenziario del governo gialloverde.
[11] Siamo nell’ambito di quel fenomeno che è stato chiamato di privatizzazione dell’esecuzione penale che ha coinvolto alcuni Paesi occidentali. Sul tema, anche per lo specifico progetto di Bolzano, cfr. C.A. Romano, L. Ravagnani, N. Policek, La privatizzazione degli Istituti di Pena: il caso Italia, in Rassegna Italiana di Criminologia, X, 1, 2016, pp. 59−69.
[12] Tutt’al più, si potrebbe avere qualche dubbio rispetto alle attività sportive, ricreative e culturali, nonché a quelle di formazione professionale che effettivamente possono essere fatte rientrare nell’ambito del trattamento penitenziario. Si tratta, peraltro, di attività marginali dal punto di vista economico rispetto all’impianto complessivo del progetto; una loro esclusione dalla gestione privatistica non sposterebbe quindi di molto i termini della questione.
[13] Le informazioni sulla vicenda bolzanina sono state raccolte per via diretta attraverso la mia partecipazione al gruppo di lavoro che la Caritas di Bolzano ha costituito per fornire elementi utili alla progettazione dell’istituto penitenziario e attraverso alcune interviste semistrutturate a testimoni privilegiati (che verranno in seguito citate nel saggio) svolte in occasione del lavoro di ricerca per la tesi di laurea di Marta Graziano, presentato al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino nel corso dell’anno accademico 2017−2018.
[14] Si vedano i report conclusivi del Tavolo 8 (Lavoro e formazione) e il Tavolo 17 (Processo di reinserimento e presa in carico territoriale) in https://www.giustizia.it. In particolare, nel report di quest’ultimo tavolo (coordinato da chi scrive questo saggio) si è proposto il modello bolzanino come esempio di possibili sperimentazioni da estendere su tutto il territorio italiano a livello di singoli provveditorati.
[15] D. Di Cecca, Il lavoro, in P. Gonnella (a cura di), La riforma dell’ordinamento penitenziario, Giappichelli, Torino, 2019, p. 61.
[16] Strumento reso possibile giuridicamente a partire dal decreto legge sulle liberalizzazioni del 24 gennaio 2012, n. 1, emanato dal Governo dell’epoca presieduto da Mario Monti e in seguito convertito nella legge n. 27/2012.
[17] Con risultati, come noto, alquanto mediocri in termini di qualità progettuale, utilizzo efficiente delle risorse pubbliche e tempi di realizzazione, cfr. per tutti C.G. De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943−2007, con prefaz. di G. Neppi Modona, Bari-Roma, Laterza, 2009, p. 125 ss.
[18] Si tratta essenzialmente di ragioni di tipo economico riguardanti un uso più efficiente delle risorse pubbliche che peraltro non sempre pare essersi realizzato soprattutto in quei Paesi dell’area anglosassone che hanno adottato sistemi di privatizzazione totale degli istituti: cfr. C.A. Romano, L. Ravagnani, N. Policek, op. cit., p. 63.
[19] E si potrebbe aggiungere anche a realizzare a regola d’arte l’opera da costruire; aspetto non certo scontato nel caso dell’appalto di opera pubblica dove l’appaltatore spesso ha tutto l’interesse ad abbattere i costi di edificazione, in quanto non sarà lui a gestire il manufatto una volta consegnato alla Pubblica Amministrazione dopo il collaudo.
[20] Per fare un unico esempio, si pensi a quelle iniziative che sono state realizzate negli istituti di Bollate e di Torino di attività di ristorazione all’interno degli spazi carcerari aperte ai comuni cittadini.
[21] Mentre sto scrivendo queste pagine, tale spirito autonomistico è di nuovo emerso in misura eclatante in merito alle polemiche suscitate dalle dichiarazioni del Ministro dei trasporti Danilo Toninelli di voler nazionalizzare l’autostrada A22 del Brennero in seguito ai disservizi manifestatisi in occasione di una forte nevicata. Si veda la replica del Presidente leghista della Provincia Autonoma di Trento Maurizio Fugatti su La Stampa, 4 febbraio 2019, p. 2.
[22] Si veda, a tal proposito, la relazione allegata alla deliberazione della Corte dei conti del 30 settembre 2015 (n. 6/2015 G) da cui si evince che solamente circa l’11% dei fondi stanziati erano stati spesi nonostante la nomina dal gennaio 2013 di un Commissario straordinario per l’emergenza carceraria con poteri speciali.
[23] In una prima stesura, il Piano carceri prevedeva la costruzione di nuovi istituti a Pordenone, Torino e Camerino a cui poi si è rinunciato, rimanendo in vigore solamente quello di Catania.
[24] Per avere una sintetica descrizione delle opere realizzate, non esclusivamente ospedaliere, si può consultare il link http://www.inso.it/realizzazioni.php
[25] Il gruppo di lavoro era composto, oltre all’autore di questo articolo, dall’architetto Cesare Burdese, da Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, da Silvia Mondino ricercatrice dell’Università di Torino e dall’istituto di ricerca Apollis (Centro di ricerca Sociale e Demoscopica) che ha realizzato la ricerca-azione sugli imprenditori dell’area bolzanina. Per il contenuto del lavoro svolto si può consultare il report conclusivo, A. Pedrotti, M. Rottensteiner (a cura di), Dentro le mura, fuori dal carcere. Una ricerca sul nuovo carcere della Provincia di Bolzano, Bolzano-Bressanone, Odòs ed., 2014.
[26] Occorre ricordare che il dissesto di Condotte spa è stato dovuto in massima parte al ritardo con cui la Pubblica Amministrazione adempie ai suoi obblighi contrattuali. Si tratta del classico fallimento da crediti nei confronti di un “cattivo pagatore” come lo Stato.
[27] Che si sono peraltro mostrati piuttosto restii nell’ipotizzare il funzionamento dell’istituto di Bolzano una volta che il sistema di gestione mista sarà andato a regime. Reticenza del tutto comprensibile, in presenza di un progetto che non ha precedenti nella storia del sistema carcerario italiano.
[28] Che il lavoro in carcere sia diventato nel nostro ordinamento un diritto, nel senso di elemento indispensabile del cd. trattamento penitenziario, e che quindi non rappresenti più né un obbligo in senso stretto, né una gentile concessione da parte dell’amministrazione penitenziaria liberamente revocabile, lo ha stabilito con grande chiarezza la nostra Corte costituzionale che ha ricordato come «il lavoro dei detenuti, lungi dal caratterizzarsi come fattore di aggravata afflizione, si pone come uno dei mezzi di recupero della persona, valore centrale per il nostro sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo» (Cort. cost. n. 341 del 2006 che riprende la n. 158 del 2001).
[29] Si tratta di una eventualità solamente auspicabile per quanto riguarda il progetto bolzanino, ma che nulla vieterebbe di prevedere come vero e proprio obbligo a carico del Concessionario. Tra l’altro, è bene precisare che questo atteggiamento “minimalista” è contraddetto da molte disposizioni contenute nel Disciplinare che esamineremo infra.
[30] È lo stesso cambiamento culturale che avrebbe dovuto innervare il passaggio del servizio sanitario penitenziario al Servizio sanitario nazionale rispetto al binomio paziente-recluso. Il condizionale anche in questo caso è peraltro d’obbligo, considerate le condizioni in cui la riforma della sanità penitenziaria è stata attuata. Cfr. da ultimo, D. Ronco, Cura sotto controllo. Il diritto alla salute in carcere, Carocci, Roma, 2018.
[31] L’afflizione nelle carceri odierne è costituita piuttosto dall’assenza del lavoro che, per un verso, rende più monotona la quotidiana vita detentiva e, per l’altro, priva il recluso di quelle piccole rendite economiche che consentono una esistenza reclusa meno disagiata (si pensi alla possibilità di acquisti nello spaccio interno dell’istituto penitenziario).
[32] L’esistenza di tali termini nel gergo carcerario è stata oggetto di una “gogoliana” circolare ministeriale del 31 marzo 2017, nella quale l’amministrazione penitenziaria si impegnava, in seguito anche alla segnalazione di uno dei tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale, ad espungere da ogni comunicazione, sia verbale che scritta, l’uso di termini infantilizzanti «che sono avulsi da quelli comunemente adottati dalla collettività» con tanto di elenco dei vocaboli e relativi sinonimi da utilizzare!
[33] Per l’ultimo anno di cui sono a disposizione i dati, il 2017, tale percentuale si collocava al 31,9%, cfr. XIV rapporto sulle condizioni detentive in Italia dell’associazione Antigone in http://www.antigone.it.
[34] Tra i lavori alla dipendenza dell’amministrazione penitenziaria quelli meno qualificati sono assegnati “a rotazione”, ovvero dopo circa un mese di attività il recluso lascia il suo posto di lavoro per riaverlo a distanza di qualche mese. È significativo, tra l’altro, che l’amministrazione non renda pubblici i dettagli dei dati relativi a tale turnover.
[35] Un indice di questa alta selettività dei processi decisionali di distribuzione della risorsa lavoro può essere visto proprio nella puntigliosità con cui il legislatore cerca di stabilire dei criteri oggettivi di scelta avendo anche istituito un’apposita commissione che dovrebbe produrre gli elenchi dei reclusi idonei al lavoro (cfr. la più recente stesura dell’art. 20, commi 4 e 5, Ordin. Penit.).
[36] Ho avuto modo di assistere di persona a questo “singolare” modello organizzativo seguendo il cantiere di allestimento di un’area colloqui all’aperto presso la Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino, in un progetto, finanziato dal Politecnico di Torino e denominato Spazi violenti, a cui hanno partecipato studenti di Giurisprudenza dei miei corsi all’Università di Torino e del Politecnico stesso. Cfr. https://spaziviolenti.wordpress.com/
[37] È da notare che tale letteratura si è concentrata quasi esclusivamente sulle dinamiche macro dei processi di privatizzazione delle carceri, trascurando spesso l’analisi delle innovazioni prodotte da tali processi nelle concrete relazioni intramurarie tra staff e internati. Cfr. l’analisi di tale letteratura in C.A. Romano, L. Ravagnani, N. Policek, op. cit., passim.
[38] Rispetto ai quali la riforma non introduce alcun mutamento, dimostrando probabilmente come il modello della gestione mista non sia nelle corde della nuova compagine governativa, con ogni probabilità su questi argomenti eterodiretta da quelle forze interne all’amministrazione penitenziaria che sono riuscite a far inserire nel cd. contratto di governo gialloverde, nell’unica paginetta dedicata all’ordinamento penitenziario, temi come “un piano straordinario di assunzioni” per il personale di polizia penitenziaria, un intervento “risolutivo” sulla qualità della vita lavorativa degli agenti e la revisione in chiave securitaria del modello della sorveglianza dinamica e del regime penitenziario “aperto” (revisione puntualmente avvenuta in una riforma nella quale non si fa più alcun cenno a tale modello, cfr. S. Marietti, Il trattamento e la vita all’interno alle carceri, in P. Gonnella, op. cit., p. 19 ss.).
[39] Principi del resto richiamati dallo stesso art. 20 dell’OP, ma che vengono poi contraddetti da scelte di politica penitenziaria che sul territorio stanno già portando alcuni istituti a convertire in lavoro volontario e di pubblica utilità progetti che, precedentemente all’ultima riforma, erano stati concepiti in termini di mansioni retribuite attraverso l’acquisizione di risorse economiche esterne al carcere.
[40] In particolare, si tratta della Gepsa (Gestion des établissements pénitentiares services auxiliares), un’impresa facente parte della multinazionale Cofely (che si occupa di energia e strutture, impianti, installazioni di sistemi elettrici, tecnologici, informatici). L’azienda si è specializzata nella gestione e organizzazione di servizi in istituzioni totali e opera in tredici istituti penitenziari francesi e in otto strutture detentive per stranieri.
[41] Per la ricostruzione analitica degli argomenti, non esclusivamente finanziari, che portarono alla scelta di privatizzare una parte degli istituti penitenziari statunitensi, cfr. tra gli altri, C.H. Logan, Private Prisons. Cons & Pros, New York, Oxford University Press, 1990, p. 38 ss.
[42] E. D’Alterio, La gestione privata del sistema carcerario (USA, Inghilterra e Francia)”, in IRPA, Terzo rapporto sulle esternalizzazioni nelle pubbliche amministrazioni, Maggioli, 2011, p. 195.
[43] C.A. Romano, L. Ravagnani, N. Policek, op. cit., p. 67.
[44] Funzione pubblica, prerogativa dello Stato, che deve essere tenuta ben distinta dai servizi pubblici che si prestano per loro natura a processi di privatizzazione come ci hanno insegnato gli studiosi di diritto amministrativo.
[45] Agevolata dal fatto che in Italia, non essendosi ancora sviluppato un mercato del business penitenziario, non sono ancora presenti operatori economici che abbiano sviluppato un know-how strutturato nella gestione di istituti penitenziari.
[46] Si tratta di una cultura d’impresa che già affiora localmente e in misura ancora alquanto sporadica nei casi di “imprenditori illuminati” che decidono di trasferire parte della loro struttura produttiva in istituti penitenziari, andando spesso incontro a gravi diseconomie e ad intralci burocratici di rilevante entità. Nella stessa prospettiva, si inserisce anche lo strumento dei cd. Social Bond, o più propriamente Pay by Result, recentemente proposto in Italia da Human Foundation e dalla Fondazione Sviluppo e Crescita della Cassa Risparmio di Torino sul modello del carcere inglese di Peterborough, che consiste nell’incentivare l’investimento di capitali finanziari privati in iniziative di reinserimento di persone recluse, cfr. lo studio di fattibilità reperibile in http://humanfoundation.it. Nulla vieterebbe di applicare tale modello di finanziamento anche alla gestione dei servizi no core di uno o più istituti penitenziari.
[47] Il richiamo teorico qui non può che essere al “vecchio ma sempre attuale” D. Clemmer, The Prison Community, Boston, The Christopher Publishing House, 1941.
[48] Preliminare in quanto quello definitivo «andrà perfezionato a seguito di aggiudicazione della Concessione, tenendo in considerazione le prescrizioni dell’Amministrazione Provinciale, il Regolamento interno della Casa Circondariale e ogni altra indicazione che sarà fornita dalla Direzione del carcere» (art. 1, comma 3 Preliminare Disciplinare).
[49] Qui il redattore del Disciplinare fa sfoggio di conoscenza del gergo carcerario volendo evidentemente mostrare come conosca molto bene il contesto penitenziario: in realtà, occorrerebbe ben guardarsi dal fornire legittimità istituzionale a termini chiaramente infantilizzanti per designare attività delle persone recluse.
[50] Occorre sottolineare l’informalità di tale pratica che non è prevista espressamente da alcuna norma del nostro Ordinamento penitenziario.
[51] Che, come noto, rispetto ad alcune richieste è un fattore decisivo: si pensi alla richiesta di medicinali per disturbi passeggeri come emicranie o, nel caso delle donne recluse, sindromi mestruali. A totale discrezione dell’agente di polizia penitenziaria queste richieste possono ottenere anche risposte positive, per così dire, “a babbo morto”.
[52] Sono stato testimone diretto, con l’amico Franco Prina, delegato dal Rettore dell’Università degli Studi di Torino per il Polo Universitario presso la Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino, delle infinite difficoltà incontrate (e ad oggi non ancora superate) per consentire agli studenti reclusi l’accesso ad un uso limitato di Internet al fine di studio. Difficoltà riaffiorate quando, all’interno degli Stati generali dell’esecuzione penale, si è parlato della possibilità dei colloqui coi familiari attraverso l’uso del programma Skype, oggetto proprio nei giorni in cui sto ultimando questo lavoro di una circolare ad hoc.
[53] In particolare, per ogni servizio no core il Disciplinare indica le specifiche inadempienze del Concessionario e le relative penali quantificate in termini sanzionatori minimi e massimi a seconda della gravità di tali inadempienze.
[54] Pratiche di valutazione, come noto, che hanno avuto inizio nell’ambito privatistico, ma che si sono ormai da alcuni anni estese ai vari settori della Pubblica amministrazione, cfr. per tutti A. Tanese, G. Negro, A. Gramigna (a cura di), La customer satisfaction nelle amministrazioni pubbliche. Valutare la qualità percepita dai cittadini, Rubbettino, 2003. Per rimanere all’ambito penitenziario, nelle carceri federali statunitensi è stato elaborato, sin dagli anni Novanta, uno strumento di valutazione denominato Prison Social Climate Survey che consiste essenzialmente in una serie di parametri oggettivi e soggettivi (nel senso di riscontrabili nelle opinioni degli operatori penitenziari e della popolazione detenuta periodicamente rilevate con questionari ad hoc) con cui è possibile misurare la qualità dei servizi resi all’interno di un istituto penitenziario (cfr. S.D. Camp, G.G. Gaes, W.G. Saylor, Quality of Prison Operations in the US Federal Sector. A Comparison with a Private Prison, in Punishment and Society, n. 1, 2002, pp. 27-53).
[55] La limpida descrizione concettuale di tale radice la si può leggere in L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, con prefaz. di N. Bobbio, Laterza, Roma-Bari, 1990, p. 386 ss.
[56] Nella prospettiva dell’autonomia decisionale della figura del direttore appare ancor più letale l’annunciato indirizzo del Ministero della giustizia di non bandire concorsi esterni per la posizione di dirigente d’istituto, ma di indire concorsi interni aperti anche alla dirigenza della polizia penitenziaria.
[57] O, per essere più precisi, degli spazi entro cui le dinamiche sono proprie di un altro tipo di istituzioni totali quali sono, in qualche misura, i luoghi di lavoro.
[58] Dove lo spazio in quel caso riguarderebbe la relazione tra il medico penitenziario e il paziente-recluso; spazio, come noto, ampiamente colonizzato dallo staff penitenziario anche in presenza di una riforma che ha affidato ad un soggetto esterno, il Sistema sanitario nazionale nella sua articolazione regionale, la gestione del servizio.
[59] Da tempo questo rituale è stato abbandonato, ma tale fatto non va interpretato, a mio parere, come l’acquisizione di una maggior autonomia da parte del recluso, piuttosto come il venir meno del progetto rieducativo dell’istituzione totale a vantaggio della sua funzione meramente neutralizzativa.