Un sussulto ti viene già leggendo nella seconda pagina la prima critica, che è anche la tesi di fondo del libro.
Partendo dall’analisi di casi giudiziari che hanno avuto un grande risalto mediatico, si individua “… sebbene all’inizio del nuovo Millennio si collochi quel robusto spartiacque ravvisabile nella sentenza Franzese in tema di accertamento del rapporto di causalità … una netta spaccatura – assimilabile ad un vero e proprio scontro ideologico – tra due metodi conoscitivi nettamente divaricati tra loro …”.
Da un lato, l’approccio moderno, che nella raccolta e nella valutazione delle prove applica “… il tentativo di smentita ed il criterio del ragionevole dubbio …”; dall’altro, resiste “… un orientamento sensibile alla cd. convergenza del molteplice, talora riconosciuta ex professo come un metodo accertativo ancora meritevole di applicazione, talaltra applicata in via di fatto, a dispetto di un ossequio formale all’approccio alternativo moderno”[1].
Questo scontro ideologico è concretamente dimostrato attraverso l’analisi delle decisioni dei giudici sull’ammissione e valutazione della prova e, soprattutto, sui criteri di giudizio. Gli esiti opposti delle decisioni di primo e secondo grado nei processi esaminati sono la manifestazione concreta più evidente di questa spaccatura, dello “scontro ideologico”.
La spaccatura si traduce in interpretazioni antitetiche sulla prova indiziaria, sul diritto delle parti all’accesso alla prova, sul diritto delle parti alla perizia, nel caso conflitti irrisolti sulle questioni scientifiche; sulla parte su cui ricade l’onere della prova della correttezza delle modalità di repertazione ed all’assenza di contaminazione dei reperti mediante il rispetto delle best practices.
L’adesione all’approccio moderno determina un’interpretazione del tutto diversa dell’antico brocardo iudex peritus peritorum, fino al suo superamento[2], ed un differente approccio alla prova scientifica.
Lo scontro ideologico si fa ancora più evidente quanto ai criteri di giudizio, laddove, con “la scienza del dubbio”, “non conta che l’ipotesi accusatoria risulti probabile: occorre che si tratti dell’unica ipotesi formulabile in relazione a quell’accadimento alla luce della scienza, della logica e dell’esperienza in ogni suo tassello e nel suo complesso”[3].
L’adesione, consapevole che sia, all’orientamento sensibile alla cd. convergenza del molteplice, al “più probabile che no”, fa si che in una sentenza di condanna si affermi “… per trentanove volte che è probabile che sia avvenuto un determinato fatto, e ciò a conclusione del singolo ragionamento indiziario; per 39 volte si è concluso che è probabile che Sollecito ed Amanda avessero compiuto l’omicidio”[4].
O, ancora, che si inseriscano ricostruzioni personali degli avvenimenti[5].
Altri interessantissimi spunti emergono dalle riflessioni degli autori sul processo mediatico, dominato, per lo più dagli atti delle indagini preliminari: l’accesso diretto e parallelo agli atti procedimentali e processuali, la loro riproposizione mediatica al di fuori delle regole del processo – si pensi a quelle relative alla inutilizzabilità ed ai criteri di ammissibilità e di valutazione della prova scientifica – genera un pre-giudizio nell’opinione pubblica, che può formarsi fin dalle indagini preliminari, che poi resiste anche agli esiti assolutori[6].
Se la pubblicità del processo è nata quale “fondamentale garanzia di un processo giusto” affinché l’opinione pubblica “potesse controllare il processo ed i giudici”, quale “antitesi alla segretezza del processo inquisitorio”, oggi però “l’opinione pubblica non vuole solo essere informata: vuole giudicare”[7].
Quello mediatico è un processo nel quale “non viene rispettata la presunzione di innocenza, né il diritto di difesa, né il principio del contraddittorio …” ed ha pertanto una “natura squisitamente inquisitoria”[8].
“E non esiste il ragionevole dubbio: o si è innocentisti o si è colpevolisti”[9].
Lo scontro culturale è, a mio parere, la manifestazione della lentezza con cui la magistratura ha metabolizzato il “nuovo” processo penale e, soprattutto la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio: sono i postumi dell’inquisitorio, duri a morire[10].
Ed è significativo notare che la tesi della convergenza del molteplice ed il processo mediatico hanno in comune la matrice inquisitoria[11]: una cultura dunque che resiste, con gli esiti ben descritti nel libro.
Lo scontro culturale denunciato è anche il termometro di quella che si potrebbe definire “l’indipendenza del giudice dalle indagini preliminari”.
Ed involge, inevitabilmente, il p.m.: più alta e convinta è l’adesione del p.m. all’approccio moderno, fondato sul principio del contraddittorio e sul criterio del ragionevole dubbio, più forte sarà la sua capacità di direzione delle indagini e la sua autonomia nel rapporto con la polizia giudiziaria, la sua cultura della prova. In una parola il suo inserimento nella cultura della giurisdizione.
Dunque, gli autori del libro ci esortano a superare questo scontro culturale per una scelta definitiva verso l’approccio moderno; è come se dovessimo espellere da noi le scorie dell’inquisitorio. Così, alla fine del processo, vi sarà un colpevole od un innocente. Non un colpevole che l’ha fatta franca.
*In copertina un fotogramma tratto da Il Mostro, episodio de I Mostri di Dino Risi (1963)
[1] C. Conti, La verità processuale nell’era “post Franzese”: rappresentazioni mediatiche e scienza del dubbio.
[2] Cfr. P. Tonini e D. Signori, Il caso Meredith Kercher; si veda in particolare pag. 141 e l’analisi della sentenza della Corte di Cassazione del 7 settembre 2015.
[3] C. Conti, pp. 20 e 21.
[4] Cfr. P. Tonini e D. Signori, Il caso Meredith Kercher, p. 142.
[5] Cfr. ancora pp. 154 e ss. Nelle quali si riportano le argomentazioni delle sentenze perugine di primo grado e di appello sul coltello rinvenuto nell’abitazione di R. Sollecito.
Ancora Paolo Tonini, pag. 178: “… nella concezione tradizionale si attribuiva al giudice la finalità di raggiungere la certezza su come si era svolto il fatto storico basandosi senz’altro sulle prove, ma non disdegnando ricostruzioni personali degli avvenimenti. Compito del giudice era quello di accertare la verità e di ricostruire l’accadimento delittuoso a prescindere dall’individuazione della parte sulla quale ricadeva l’onere della prova.
Nel nuovo processo accusatorio il giudice non ha il compito sovrumano di accertare la verità del fatto storico. A lui spetta soltanto di valutare se, rispetto a ciascun elemento del reato, l’accusa ha adempiuto all’onere della prova al di là di ogni ragionevole dubbio”.
[6] Cfr. C. Conti, pp. 7-9. Ancora a pag. 10: “È noto, infatti, che il processo mediatico non conosce l’inutilizzabilità degli atti processuali, né rispetta il principio del contraddittorio”.
[7] Così F. M. Iacoviello, Conclusioni. Il processo senza verità, p. 220.
[8] Ancora C. Conti, pagine 10 e 11.
[9] Così F. M. Iacoviello, pag. 221.
[10] Afferma P. Tonini a pag.151: “Fino a che il giudice italiano conserverà tra gli “arnesi del mestiere” questi vecchi idoli probatori – quali il principio del giudice peritus peritorum, la non osservanza del protocolli sulla prova genetica, l’indifferenza verso la catena di custodia, o la teoria della convergenza del molteplice –, fino a che la giurisprudenza della cassazione manterrà questi obsoleti relitti del sistema inquisitorio e della vecchia scienza, fino ad allora resterà in agguato il rischio di incorrere in un errore giudiziario ed i processi avranno, come nel caso di Perugia, una durata non ragionevole. La sentenza dello scorso settembre, se letta con attenzione, è idonea a provocare una svolta salutare, un vero e proprio “crepuscolo degli idoli”.
[11] Sui possibili effetti del processo mediatico cfr. F. M. Iacoviello, Conclusioni. Il processo senza verità, p. 220.