Le riflessioni che Vittorio Manes affida a Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo si avvalgono di due ambiti di conoscenza suscettibili di renderle una guida essenziale nell’ambito che vorremmo definire della “infosfera giudiziaria”.
In primo luogo, l’Autore, non rinunciando al rigore scientifico dei postulati penali sostanziali e processuali che le argomentazioni richiedono, utilizza precisi e consequenziali riferimenti a decine di esempi concreti riguardanti vicende processuali principalmente italiane ma anche europee e statunitensi, che riconducono costantemente il lettore alla concretezza degli «effetti perversi»[1] di cui si discute.
Per altro verso le pertinenti e ampie citazioni bibliografiche costituiscono una vera e propria guida all’approfondimento della materia.
Su questo punto sia consentito ritenere citazione-cardine quella dell’insuperato Bien juger, di Antoine Garapon, che consente di rivendicare, come fa Vittorio Manes, il valore del processo penale come itinerario della ragione che si attua «in una sede separata e protetta e in un ecosistema chiuso – il "sacro cerchio" dell’aula giudiziaria – secondo modalità predefinite nei luoghi, nei tempi e negli effetti, e secondo precise regole».
A fronte di questa collocazione necessaria perché il processo (meglio: il procedimento, in tutte le sue fasi) penale continui a essere governato dai principi costituzionali avanza l’onda delle criminal breaking news, dei talk-show di cronaca, in cui si costruisce una narrazione processuale parallela (mediatica) qualificata dall’Autore – in contrapposizione ai tempi, luoghi e forme del procedimento penale - come a-topica, a-cronica, a-nomica.
Vittorio Manes, peraltro, non rastrema il suo argomentare nella pur legittima recriminazione verso lo stato delle cose: ma di questo stato delle cose indaga la fenomenologia e individua gli effetti.
In certo modo l’analisi degli attori del processo, prima, e delle distorsioni sul piano sostanziale e processuale, poi, mostra segmenti del processo mediatico qualificabili come contrari negativi del sistema penale regolato da complessi normativi (e, auspicabilmente, applicativi) conformi a Costituzione.
Il problema che si pone, detto in estrema sintesi, è l’intreccio tra i due piani, tale da produrre, in significativi casi, una sorta di indiscernibile grafica di Escher.
E semmai, nell’immaginario di massa, prevale la percezione derivante dal processo parallelo «dis-locato sui media» non più conformato, secondo il modello della nostra cultura, dal razionalismo critico, bensì regredito a «un paradigma essenzialmente indiziario o divinatorio».
Sicché la funzione del processo mediatico non è quella “cognitiva” ma quella “monitoria”, in cui le persone che malauguratamente ne divengono oggetto sono vittime di pressoché perpetua denuncia «o di autentica scomunica».
I danni che questo approccio provoca non si limitano a quelli causati all’integrità dei singoli individui, ma operano in ulteriori e più generali direzioni.
La parte centrale del libro di Vittorio Manes, dedicata all’analisi delle distorsioni sul piano sostanziale e sul piano processuale che la mediatizzazione della vicenda processuale «innesca sul processo reale», trova una sua sintesi - che non può non muovere a una preoccupata riflessione i giuristi pratici - nel capitolo dedicato agli effetti sugli equilibri della giurisdizione e sulla fiducia nella giustizia istituzionale.
La rappresentazione o autorappresentazione dei protagonisti dell’infosfera (spesso neppure assistiti dalla professionalità giornalistica) come rapidi ed efficaci solutori di “casi” rischia di espropriare la giurisdizione e i suoi luoghi di paziente razionalità.
Nota, efficacemente, l’Autore: «di fronte alla distanza temporale tra il processo anticipato in modo fast and frugal dai media e il processo reale, e al cospetto dell’eventuale esito divergente a cui i due "sistemi di verifica" possono condurre, è quasi scontata la tentazione di ritenere il secondo un’accozzaglia di orpelli formali, di lungaggini e cavilli da rimuovere per migliorarne le prestazioni in termini efficientistici, o persino di ritenere il primo strumento più efficace e tempestivo della giustizia istituzionale».
Una notazione particolare merita il ragionamento dell’Autore sull’influenza che la mediatizzazione del procedimento penale produce o può produrre sui giudicanti, nell’esercizio delle loro funzioni.
E’ evidente che nessun postulato di “intangibilità” i giudici possono utilizzare per affermare che l’immersione nell’infosfera giudiziaria non produca alcun effetto; ma se, come si legge nel libro, «sembra alquanto ingenuo pensare che il corredo professionale immunizzi tout court il giudice» non è azzardato rivendicare alla magistratura italiana una qualità professionale adeguata anche alla temperie dell’informazione contemporanea.
Con due chiose: in positivo, la necessità di formazione specifica e di qualità sulla comunicazione è più che mai necessaria; in negativo, la presenza di magistrati-stella (giudicanti o più spesso requirenti) che non si distinguono – costituzionalmente - per diversità di funzioni ma per diversità di apparizioni (sui media) amplifica i rischi che Vittorio Manes acutamente individua.
Giustizia mediatica appare nella parte finale, lo si è accennato, come un laboratorio a partire dal quale confrontarsi sul “che fare”.
E se è evidente che il procedimento penale, in primo luogo attraverso la consapevolezza dei suoi attori, è chiamato a mantenere la propria essenza, costituzionalmente fondata, pur immerso in un’ampia e pervasiva infosfera giudiziaria, ci dobbiamo porre il problema del valore, presente e futuro, dell’idea di giusto processo: sapendo che a una base normativa[2], giurisprudenziale e dottrinale riconoscibile, non ha corrisposto il formarsi di una cultura diffusa, e che questo deficit lascia spazio ai fenomeni che da quella idea allontanano - in un concatenarsi di cause ed effetti - il processo narrato e il processo reale.
[1] La scelta di questo termine può di per sé costituire un elemento di sviluppo della discussione aperta dal libro di Vittorio Manes: se riconduciamo gli equivalenti latini del termine alle intenzioni dell’Autore dobbiamo pensare di trovarci nell”area” di perversus, come participio di perverto, e dunque nel significato di “rovesciato” o meglio “stravolto”; ma ci si potrebbe rifare a scelestus, nel senso di “scellerato” ed “empio”; o a pravus come “deformato” o “erroneo” (Cicerone nel Bruto , 258, parla di pravissima regula, per definire gli effetti negativi di regole indotte dalla consuetudine).
[2] Da ultimo con il D.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, che attua la Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, a cui Vittorio Manes dedica significative riflessioni.