1. La colonna geologica
Solo dopo esserci caduto dentro, quando ormai era troppo tardi, mi sono reso conto della trappola che questa relazione rappresenta.
Una riflessione sul “problema della divulgazione delle notizie giudiziarie” attraversa, infatti, multipli significati, simili «alle faglie di una colonna geologica: ciascuna diversamente colorata e abitata, ciascuna riservata al grado di attenzione di chi la dovrà accogliere e decifrare» [1].
Così, una prima faglia, che identifica un primo universo di discorso, potrebbe essere quella giuridica in senso stretto: il sistema normativo positivo, cioè, che disciplina limiti e modi della divulgazione e che propone bilanciamenti tra diritti fondamentali e valori che, contrapposti, si fronteggiano.
Diversamente colorata, ed altrettanto intensamente abitata, sarebbe però anche la faglia che rivela l’empirìa: e cioè, del come avviene effettivamente oggi in Italia tale divulgazione e del “giro della morte” − come lo ha etichettato Luigi Ferrarella [2] − del giornalismo giudiziario nella prassi italiana.
E non potrebbe, poi, negarsi fervente attenzione alla faglia che rimanda alle tracce della sociologia politica, ove il tema è collocabile con complessità crescente: precisamente, quale problema del passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft, dalla comunità essenziale alla società complessa; quindi, dalla originaria notizia scarna ed episodica − sufficiente per la comunità − al capillare reticolo informativo globalist, pure perennemente percepito come insufficiente dagli etilisti della società liquida.
Ci sarebbe molto altro ancora da osservare e descrivere: ad esempio, una faglia degnissima di attenzione – forse la più intrigante, almeno per me − sarebbe quella che collega il problema della divulgazione delle notizie giudiziarie ad una prospettiva filosofica; non solo e non tanto nel tradizionale rapporto tra autorità ed individuo, quanto del senso filosofico odierno della comunicazione-evento e delle sue implicazioni antropologiche: penso ad esempio – solo per citarne alcuni, a me cari, tra i molti possibili – a contributi come quelli di Mario Perniola [3] o di Pierangelo Sequeri [4] in tale prospettiva.
Ciascuna di queste prospettive, se davvero scandagliata, occuperebbe, al minimo, lo spazio di un convegno di più giorni: solo che io, in poco tempo, dovrei attraversare un po’ tutta la colonna geologica.
2. La faglia del giuridico: le origini
Poiché il tempo è davvero esiguo, inizio subito con qualche domanda diretta ed apicale, proprio nell’àmbito mio proprio. Mi chiedo innanzitutto se il problema della divulgazione delle notizie giudiziarie sia davvero un problema normativo. Se cioè esso è collocabile – e dunque risolvibile – esclusivamente in un universo di discorso giuridico. Detto altrimenti: è possibile davvero pensare (sperare, auspicare) che un’attenta, meticolosa e calibrata disciplina legislativa risolva il problema o, comunque, attenui fortemente l’inverno del nostro scontento sulla odierna divulgazione giudiziaria? Raddrizzi, cioè, storture e lenisca lacerazioni, tutelando, in un perfetto bilanciamento, interesse sociale alla conoscenza e diritto individuale alla riservatezza o all’oblio?
La domanda è assai impegnativa: essa riguarda, più in generale, l’affidamento sull’onnipotenza del giuridico che – nella modernità – siamo culturalmente assai inclini ad affermare ed i limiti e le malformazioni che, in questa accreditata onnipotenza, non riusciamo ad intravedere. Ma su questo farò qualche riflessione al momento di concludere, trattandosi del problema apicale: ciò che può fare il diritto e ciò che non gli si può chiedere di fare.
Per ora, preme consolidare alcuni punti, che potrebbero essere un buon abbrivio della riflessione. Innanzitutto, che il problema della divulgazione delle notizie giudiziarie ha sicuramente dimensione giuridica ed origini antiche; poi, che l’approssimazione e la precarietà tecnica della disciplina, se non è certo l’eziologia unica ed assorbente di disagi e storture, ne fornisce tuttavia un contributo causale considerevole.
Il problema della divulgazione delle notizie relative all’attività del giudice è, in realtà, abbastanza risalente: esso, storicamente, coincide con il problema stesso della motivazione della sentenza penale.
Se, ad ogni costo, volessimo segnarne una data di nascita, potrebbe essere quella della famosa Prammatica della procedura penale del Regno delle due Sicilie di Ferdinando IV, del 27 settembre 1774, che introduce – primo atto normativo in tutti i vari regnicoli e ducati dell’Italia dell’epoca − l’obbligo di motivazione della sentenza [5]. Fu – paradossi della Storia – per primo un borbone a scrivere, in un documento normativo (recte: in quella che noi oggi chiameremmo la Relazione di accompagnamento ad un testo di legge) che «per togliere malignità, o alla frode qualunque pretesto; ed assicurare nella opinione del pubblico la esattezza e la religiosità dè magistrati, vuole la Maestà (…) che in qualunque decisione che riguardi o la causa principale, o gl’incidenti, fatta da qualunque tribunale di Napoli, o collegio, o giunta, o altro giudice della stessa capitale che abbia la facoltà di decidere, si spieghi la ragione di decidere, o sieno li motivi sù quali la decisione è appoggiata: incaricando Sua Maestà, per rimuovere quanto più si possa dà giudizii lo arbitrio, ed allontanare dà giudici ogni sospetto di parzialità, che le decisioni si fondino non già sulle nude autorità dè dottori, che han pur troppo colle loro opinioni o alterato o reso incerto ed arbitrario il diritto, ma sulle leggi espresse del regno o comuni(…)».
Se, prima della Prammatica, le sentenze – come annotava Niccola Nicolini [6] − «non constavano che di due brevissime parti; cioè del titolo del processo e della dispositiva: non vi era fatto stabilito di reità, né ragione dell’applicazione della pena», dopo l’illuminata riforma borbonica la «motivazione rendeva conto ai litiganti al pubblico ed al governo della verità e della fede che presedeva a’ giudizii: tal che i popoli, pur troppo portati a sospettare e maledire quello che non intendono, potevano per sè stessi conoscere la giustizia delle decisioni: questo è il vero decoro dei megistrati, e non quello stile d’oracoli che alcuni avrebbero voluto surrogarvi».
Dunque, la “divulgazione” delle notizie giudiziarie (e la prima e più importante di esse, vale a dire la motivazione delle sentenze) è innanzitutto il “vero decoro dei magistrati”: ciò che consente di capire e controllare e che vale a frenare l’arbitrio, poiché “si sospetta e si maledice ciò che non si intende”.
Certo – si dirà – da questo sprazzo illuminista moltissima acqua è passata e la divulgazione è cosa assai diversa dalla necessaria (ed oggi ovvia) motivazione delle decisioni. Ma, se si adotta una prospettiva propria della “dialettica dell’illuminismo” (nel senso di “pensiero in continuo progresso”), il problema non è poi così diverso. L’arbitrio sospettato in capo ai giudici che solo imputavano e condannavano senza motivazione ha la medesima essenza del “sospetto” collettivo che oggi riguarda segmenti processuali a monte della sentenza: ad esempio, i materiali investigativi che portano ad una cautela personale; la congruità di una chiamata in reità nella fase di indagine; la legittimità di una attività di captazione telefonica ed i contenuti giustificativi in forza dei quali è svolta; la conoscenza e verifica dei tempi dell’indagine e della sua qualità, e così via.
Insomma, l’humus è il medesimo: il “vero decoro” dei magistrati inquirenti è nel poter conoscere la “giustizia” delle loro “decisioni” anche della fase di indagine ed il problema, ora come allora, è sempre quello indicato da Nicolini: «I popoli, pur troppo [sono] portati a sospettare e maledire quello che non intendono».
3. segue: uno sguardo dall’alto alla disciplina attuale: il cd. segreto interno
La constatazione di trovarci lungo l’evoluzione di un problema antico consola, tuttavia, solo in parte, perché obbliga, comunque, ad interrogarsi sulla qualità della nostra disciplina: che è poi il secondo punto che sopra enunciavo.
In breve, occorre chiedersi se del “giro della morte” in cui si risolve l’informazione giudiziaria oggi in Italia sia responsabile – in tutto, in parte – il legislatore nazionale con la disciplina dettata in materia di tutela del segreto nel processo penale; ancora: domandarsi se, quella vigente, sia disciplina ancora attuale, funzionale, idonea al contesto sociale e storico in cui si colloca.
Domande anch’esse assai impegnative, che esigono un’esposizione minima ed essenziale della disciplina stessa. Considerato il tempo disponibile, ne posso fare solo una inquadratura dolly: quella, per intenderci, che – nella tecnica cinematografica − monta la macchina da presa su di una gru, alza l’obiettivo allargando il campo e “dà respiro” all’inquadratura, dispiegando il mondo di fronte agli occhi degli spettatori, ma omettendo anche particolari importanti.
In questa inquadratura dall’alto è possibile distinguere, innanzitutto, due settori normativi, con funzioni assai diverse.
Il primo riguarda la tutela del cd. segreto interno dell’indagine ed è finalizzato esclusivamente al “buon esito” di essa: non la dignità dell’imputato o la riservatezza dei terzi, ma la funzionalità dell’indagine segreta.
Qui registriamo una regola fondamentale (art. 329, comma 1, cpp): gli atti investigativi della polizia e del pubblico ministero non sono accessibili ad altre persone, finché l’imputato e/o il suo difensore non li possano conoscere (cosa che può accadere anche prima della chiusura dell’indagine, per gli atti cosiddetti garantiti, vale a dire, quelli che ammettono la presenza difensiva e il deposito del relativo verbale: art. 364-366 cpp).
Tale segreto viene qualificato come “interno” in quanto intrinseco all’indagine ed opponibile, di regola, a tutti: alle altre parti del medesimo procedimento nel quale l’atto è compiuto, ma anche a tutti gli altri soggetti pubblici (polizia, magistrati, pubblici ministeri, funzionari pubblici, etc.) eventualmente impegnati in altri procedimenti (penali o extra-penali), salvo precise ragioni derivanti dall’esigenza di coordinamento investigativo fra uffici del pubblico ministero.
Soprattutto, esso vincola le persone stesse che compiono l’atto investigativo: anzi, costoro ne sono i primi destinatari d’elezione. Ovvia la presenza di qualche eccezione e sempre in ragione della funzionalità dell’indagine, bene giuridico protetto da tale segreto: così, per esigenze investigative, il pubblico ministero potrà desecretare l’atto (art. 329, comma 2, cpp: si pensi, ad esempio, alla diffusione dei fotogrammi di una videoripresa o di un identikit) o potrà – «in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini» (art. 329, comma 3, cpp) − estendere la secretazione ad atti non più coperti, in quel momento, dal segreto, con il consenso dell’imputato o quando, a prescindere da esso, «la conoscenza dell’atto può ostacolare le indagini riguardanti altre persone».
Ora, volendo esprimere una primissima valutazione su questo primo settore normativo, se ne può certamente attestare la piena ragionevolezza.
Scontato che qualunque indagine, in qualsivoglia sistema processuale, ha necessità di una tutela di segretezza, qui il criterio di limite temporale (principio di conoscenza in capo all’imputato) ed i manometri di eventuale anticipata o posticipata divulgazione (vale a dire, imputato e soprattutto pubblico ministero) sono gli unici immaginabili. Non sarebbe ipotizzabile, ad esempio, l’intervento di un giudice, con forme più sofisticate e garantite di intervento, per secretare e desecretare atti dell’indagine preliminare: risulterebbe ancor più complesso il meccanismo, incompatibile con i tempi rapidi dell’investigazione e, persino, incrementato il rischio di divulgazione indebita. Il sistema si affida, opportunamente, al pubblico ministero: ed è scelta assolutamente ragionevole, che ha scarse alternative. Diversa è l’analisi di alcune patologie della prassi: ma di questo dirò tra un momento.
4. segue: il gioco combinatorio del divieto di pubblicazione
Il punto critico è tuttavia un altro e riguarda il secondo settore normativo che distinguiamo dall’alto: precisamente, l’art. 114 cpp, che sancisce il divieto di pubblicazione di atti ed immagini.
Si tratta di una disposizione-contenitore, che reca permessi e divieti e che – di là dalla valutazione di opportunità dei suoi contenuti − obbliga ad impegnativi percorsi ermeneutici: insomma, non esattamente un modello di apprezzabile tecnica normativa, se è vero che la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 59 del 1995), con una caducazione parziale, ne ha rilevato l’esorbitanza dai principi della legge di delega.
L’esordio precettivo (comma 1) è infatti piano ed agevole, sancendo una regola generale abbastanza ovvia, quasi inutile da ribadire: è vietato pubblicare, parzialmente o anche per riassunto e con qualsiasi mezzo di diffusione, gli atti − o il contenuto di essi – ancora coperti dal segreto interno.
Ineluttabile, insomma, che gli atti (o il loro contenuto) non conoscibili dalle altre parti del processo, da investigatori o magistrati ecc., non siano suscettibili di pubblica ostensione. È un divieto di “chiusura”, insomma, che completa il già chiaro disposto dell’art. 329 cpp.
Le asperità iniziano invece con riferimento a quegli atti processuali per i quali è già caduto il segreto interno e che dunque, in teoria, potrebbero essere divulgati.
Per essi, tuttavia, subentrano i divieti di pubblicazione dell’art. 114 cpp. È per tale ragione che comunemente si afferma che i precetti di tale disposizione configurano il cd. segreto esterno degli atti processuali: la condotta vietata è la loro ostensione generalizzata, la loro divulgazione omnibus, anche se non si tratta più di atti segreti. Come è intuibile, la ragione tutelante del divieto non è più la funzionalità ed efficacia dell’indagine, ma altro: precisamente, la riservatezza dell’imputato e delle altre parti del processo, nonché (direi, soprattutto) dei soggetti terzi che, pur non essendo parti, siano rimasti “coinvolti” a qualunque titolo nell’indagine stessa e vi compaiono.
Il gioco combinatorio complesso, nella disposizione dell’art. 114 cpp, è espresso da tre norme − incastonate nei commi 2, 3 e 7 – di difficile ermeneutica, per apparente contrasto interno e per un susseguirsi del rapporto regola/eccezione.
La regola generale è anche qui un divieto (comma 2): non sono pubblicabili gli atti compiuti nella fase preliminare, per i quali sia caduto il segreto interno, benché – ed è questo il punto − essi siano noti e accessibili alle parti. Di più: tali atti – una volta caduta la loro segretezza interna, «durante il procedimento e dopo la sua definizione» − sono persino acquisibili da parte di «chiunque vi abbia interesse», come stabilisce espressamente l’art. 116 cpp. E poiché, pacificamente, non deve trattarsi di un interesse giuridicamente radicato nel procedimento de quo, anche il giornalista può chiedere ed ottenere l’accesso ad atti non più coperti da segreto interno.
Sono, dunque, atti accessibili quelli non più segreti: possono essere consultati, copiati in parte nei contenuti, etc.: ma non possono essere pubblicati. Insomma, caduto il segreto interno, è come se parte dei suoi effetti perdurassero.
Peraltro − eccezione alla regola − il comma 3 limita tale divieto di pubblicazione, una volta conclusa la fase preliminare del processo, ai soli atti collocati nel fascicolo del pubblico ministero: così sancendo la pubblicabilità di quelli invece destinati al fascicolo del dibattimento.
La ragione normativa di tale divieto “ritagliato” è di tipo processuale: precisamente, quella di preservare la verginità cognitiva del giudice del dibattimento. Come argomentato nella citata sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 1995, il divieto di pubblicazione del fascicolo del pubblico ministero (i.e., degli atti in esso contenuti) anche oltre il termine delle indagini «è funzionale ad evitare una distorsione delle regole dibattimentali, ove il giudice formasse il suo convincimento sulla base di atti che dovrebbero essergli ignoti, ma che, in mancanza del suddetto divieto, potrebbe conoscere completamente per via extraprocessuale attraverso i mezzi d'informazione».
A rendere il quadro normativo singolare e complesso, quasi come un puzzle, è tuttavia il comma 7 dell’art. 114 cpp, a tenore del quale «è sempre consentita la pubblicazione di atti non coperti da segreto».
L’eccezione, di primo acchito, sembra ribaltare tutte le regole del secondo e terzo comma, con un contrasto logico incredibile: sembrerebbe essere di fronte ad un legislatore schizofrenico, il quale dapprima vieta la pubblicazione degli atti del procedimento non più secretati (sia pure limitatamente a quelli del pubblico ministero) e poi – in cauda venenum, nella parte finale – statuisce la loro pubblicabilità.
Senonché, il sistema è riportato a ragionevolezza – superando la forte ambiguità letterale del testo normativo – considerando che il comma 7 è da intendersi come temperamento dei divieti imposti dai citati commi 2 e 3, nel senso che, mentre il divieto del quale parlano detti commi inerisce ai verbali degli atti non pubblicabili (cioè agli atti processuali materialmente intesi), il comma 7 riguarda il contenuto di essi, il loro eventuale riassunto, la loro eventuale parafrasi contenutistica.
In altre parole – come evidenziato nella corrente interpretazione dottrinale e giurisprudenziale – «l’insieme dei tre commi qui considerati va inteso alla luce della distinzione fra “atto” (così come riprodotto nel relativo verbale) e “contenuto dell’atto”, così come raccontato, riassunto, parafrasato dall’autore della pubblicazione» [7]. L’atto di indagine, nella sua materialità di verbale, rimane non pubblicabile; è invece pubblicabile il suo contenuto.
5. Breve rosario delle critiche
È soddisfacente sotto il profilo epistemico una tale distinzione e, soprattutto, è congrua agli scopi di una corretta divulgazione?
Terminata la brevissima inquadratura normativa, provo a farne un esame critico di diverso livello. Il risultato – lo anticipo – è negativo: per la precaria qualità semantica dei testi normativi; per la forte opinabilità delle scelte sistematiche; per gli effetti perversi determinati dal portato normativo nel suo complesso, che sicuramente favorisce le distorsioni della prassi.
Innanzitutto, la vaghezza semantica, fino all’ambiguità, riguarda la platea dei soggetti che, a norma dell’art. 116 cpp, hanno diritto «durante il procedimento e dopo la sua definizione» ad ottenere a proprie spese il rilascio di copia estratti, ecc. di singoli atti.
La disposizione parla di legittimazione di «chiunque vi abbia interesse» ed è abbastanza incontroverso l’assunto che non si debba trattare di un interesse legato al procedimento: di un interesse, cioè, legato all’esercizio di un diritto processuale.
Ma, proprio per questo, l‘ampiezza di tale previsione lascia amplissimi margini di discrezionalità autorizzatoria, di volta in volta, in capo al pm, al giudice, al presidente del collegio (vale a dire, dei soggetti della giurisdizione legittimati, in relazione alla fase processuale, ad autorizzare il rilascio) e, per giunta, con una decisione definitiva non suscettibile di reclamo. La realtà restituisce, infatti, prassi assai disomogenee nella concessione dell’autorizzazione, in relazione al tipo di vicenda giudiziaria, alle latitudini in cui essa si svolge, alla soggettiva “importanza” di chi chiede il rilascio di copia, al rapporto di amicizia o anche solo di fiducia che lega il giornalista al magistrato, e così via. Poco importa che la copia così rilasciata non faccia «venir meno il divieto di pubblicazione stabilito dall’art. 114 cpp» (art. 116, comma 3), poiché non è questo il problema: si tratta di una legittimazione a richiedere assai vaga, sicuramente non specifica in relazione ad una funzione professionale (il giornalista ha sempre interesse ad accedere agli atti di indagine? A tutti gli atti di indagine? A tutte le intercettazioni disposte ed eseguite?) e di criteri di autorizzazione ancor più evanescenti.
Ma il punto nodale è soprattutto quello del semplicismo e dell’anacronismo della distinzione fra atto (non pubblicabile) e contenuto dell’atto (pubblicabile), cui l’art. 114 cp affida le sorti del meccanismo di divulgazione delle notizie non più segrete.
Sono talmente numerose le negatività di tale scelta sistematica che vi è quasi difficoltà ad enunciarle, essendo impossibile, per ragioni di spazio, un’argomentazione articolata.
Sotto un profilo strettamente tecnico, infatti, si può notare che:
a) la distinzione pecca di semplicismo, se non di ingenuità culturale, allorquando postula, quale principio assoluto, che la verginità cognitiva del giudice del dibattimento sia fondamento assoluto della sua imparzialità;
b) di ulteriore semplicismo epistemico, perché è errato concettualmente pensare che il contenuto − riassunto, parafrasato, copiato per parti, modellato per le esigenze del marcato dell’informazione − di un atto processuale possa essere meno dirompente dell’atto stesso nella sua nudità ed integralità: che, cioè, siano più “innocui” una perifrasi od uno spezzatino di contenuti quanto a “presa” sulla pubblica opinione, a possibilità di creare ondate collettive di opinione, a convincimenti popolari erronei sulla vicenda (di colpevolezza o di innocenza) altrettanto incidenti sulla serenità/imparzialità del giudice;
c) di ulteriore ingenuità funzionale, perché non considera che gli atti la cui pubblicazione è vietata sono solo quelli di indagine compiuti dal pm, ma non gli atti diversi e pure ben più ricchi quanto a conoscenze di eventi, quali, ad esempio, i provvedimenti a contenuto decisorio adottati nel corso della fase preliminare: così, non sarà pubblicabile il testo di un’intercettazione telefonica, ma lo sarà, integralmente, l’ordinanza cautelare che ne riporta fedelmente il contenuto, assieme a molto altro ancora (dichiarazioni rese da persone informate sui fatti; esiti di indagini tecnici; sviluppi investigativi possibili, etc.).
6. Gli scambisti
Queste contraddizioni sono peraltro quelle ricavabili dal dettato normativo mantenendosi rigorosamente nel territorio del lecito/legittimo. Se, poi, ci si siede invece alla tavola delle patologie della prassi che tale sistema apparecchia, il senso della sua inadeguatezza diviene inquietudine. Detto altrimenti, se in questo sistema quantomeno ingenuo e semplicistico (o forse solo ipocrita), si innestano scorrettezze ed infedeltà dei protagonisti del processo o di quelli dell’informazione, si assiste all’implosione.
Nasce la logica dello scambio, nella quale gli intrecci possibili sono praticamente infiniti.
Partiamo dall’inizio. Il giornalista, cui il pm ha negato l’autorizzazione prevista dall’art. 116, comma 2, del codice di rito, «si trova costretto ad adoperarsi per ottenere in via indiretta quello che potrebbe ottenere per via diretta, chiedendo alle parti la possibilità di accedere ai documenti ufficiali che sono in loro possesso» [8]. Non solo alle parti, aggiungo io, perché spesso quel medesimo materiale è in possesso della polizia giudiziaria.
Ma il giornalista avrà anche un’altra strada: provare a trasformarsi da «cane di guardia» della società civile (come, con un po' di retorica d’antan, lo definisce più di una sentenza della Cedu) in «cane da salotto» (come lo definisce, più prosaicamente, Luigi Ferrarella) [9] al docile guinzaglio dello stesso magistrato che gli ha negato l’autorizzazione. In sintesi, una promessa di «servizievole subalternità» (l’espressione è di Bartoli) potrà cambiare il corso delle cose, in un sinallagma di reciproco vantaggio: per il magistrato inquirente, che potrà contare su di una divulgazione “amica” idonea a far filtrare sulla stampa il versante di luce dell’indagine; per il giornalista, che comunque abbandonerà il suo versante d’ombra, cioè non scrivere nulla.
In questo possibile reticolo di scambi (giornalista/avvocato; giornalista/poliziotto inquirente; giornalista/magistrato; etc) – che definire opaco appare eufemistico – vale quello che, più in generale, ha acutamente notato ancora Ferrarella a proposito del processo mediatico: vince comunque il più scorretto, a prescindere dal lavoro che fa. Vince il magistrato più ambizioso o più vanitoso che vuole usare i giornalisti; ma vince anche l’avvocato più aggressivo e scorretto; vince l’imputato «eccellente», vince il poliziotto-carabiniere-finanziere meglio introdotto nel circuito mediatico ai fini della sua progressione in carriera o della sua logica di cordata interna; ed, infine, vince il giornalista più spregiudicato [10].
Ma vanno considerati anche coloro che perdono. Che sono innanzitutto il magistrato riservato ed esistenzialmente autosufficiente, cui non necessita il rifornimento narcisistico o la collezione di medagliette; il giornalista più onesto e di fervente attenzione al suo dovere etico; l’avvocato coscienzioso, non proteso alla propria redditizia pubblicità, quanto trepidante per le sorti del suo assistito in quella vicenda; e così via.
E non sono solo questi idealtipi professionali a perdere. Perde, altresì, la qualità dell’informazione: perché una cosa è lavorare su materiali processuali mendicati ed ottruaiati, elargiti cioè nella logica dello scambio, altro è lavorare su tutti i documenti ufficiali di un procedimento ed accollarsi, quindi, la responsabilità di una corretta selezione e completa informazione: ciò che non lascia alibi al mestiere di chi informa.
Ma perde anche l’affidabilità e la trasparenza dell’indagine, il cui corretto e complessivo fondamento può spesso restare nell’ombra rispetto all’artata esaltazione di aspetti secondi, ancorché morbosamente appetibili sotto il profilo mediatico.
Perde infine, soprattutto, la maturità culturale della società civile. Sostituire l’informazione completa sul procedimento vero con una parziale e pompata vaudeville mediatica, nata dallo scambio, non impedisce solo di comprendere appieno quella specifica vicenda giudiziaria, ma induce ad una giustizia «percepita» e quasi onirica. Un racconto falsato, approssimativo, banalizzato del modello di processo, in cui il sapere tecnico è bandito, peggio, mal tollerato con diffidenza, “impopolare”: e su quello – come acutamente ha dimostrato Glauco Giostra [11] – la “società civile” sarà indotta poi a discutere improbabili riforme giudiziarie. Su di una realtà che non esiste.
7. I rimedi: la comunicazione istituzionale
A questo punto, dimostrato che la disciplina normativa sulla rivelazione/pubblicità delle notizie giudiziarie ha punte di manifesta irragionevolezza (che mai, tuttavia, il nostro Giudice delle leggi sarebbe disposto, ove mai, a dichiarare…), occorrerebbe ragionare de iure condendo, come si diceva una volta tra giuristi.
È possibile pensare a soluzioni “interne”, quasi di tipo ordinamentale?
È quanto ha provato a fare il procuratore di uno dei più grandi uffici di procura italiani, richiedendo, nella sostanza, al Csm o l’istituzione di un ufficio stampa presso il suo ufficio o il ritorno all’informazione diffusa. Ciò sul rilievo che anche l’attuale sistema − che, con l’art. 5 del d.lgs n. 106 del 2006, statuisce che «Il Procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione» (comma 1) e che «Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendo a in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento» (comma 2), per cui «è fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio» (comma 3) − non fornisce adeguata risposta al problema della completa e tempestiva informazione.
Ciò in quanto, secondo quel richiedente, «una sola fonte, sia essa il procuratore capo o un solo magistrato a ciò delegato, anche qualora fosse distolta da ogni altro incombente, non potrebbe far fronte con precisione e completezza ad una tale ampia richiesta (di tempestive notizie) nei tempi brucianti della comunicazione massmediatica».
Il Consiglio superiore della magistratura, con la delibera del 10 settembre 2008, ha ribadito (né poteva essere diversamente) che il sistema attuale, voluto dal legislatore della riforma dell’ordinamento giudiziario, ammette poche alternative.
Impossibile la soluzione, ad esempio, della procura di Parigi, dove un magistrato, esperto di comunicazione, è esonerato da ogni altra funzione e svolge solo quella di curare i rapporti con il mondo dell’informazione.
Impossibile – per le modifiche normative ed ordinamentali, ma soprattutto per le risorse inesistenti – pensare ad un addetto stampa “professionale”.
Ma, più in generale, non appare risolutiva una soluzione che, a prescindere dagli atti e dalla loro pubblicabilità, veicoli l’informazione solo attraverso ciò che la “istituzione” riferisce. La fonte ufficiale interna può aiutare a capire, spiegare, illustrare, ma non può essere l’unico veicolo informativo: ciò peraltro potrebbe avvenire solo nelle primissime fasi dell’indagine (ed è ciò che avviene anche oggi con le cd. conferenze illustrative, quasi sempre dopo l’esecuzione di misure cautelari), ma non può accompagnare l’indagine fino alla sua conclusione.
L’informazione non può rinunciare agli atti processuali.
8. segue: “liberalizzare” la divulgazione? Obiezioni e risposte
Vengo, così, al cuore del problema e pongo sul tappeto subito quella che chiamerei la “Grande Alternativa”, meglio nota come “proposta Ferrarella”, dal nome di chi l’ha fortemente caldeggiata e prospettata sistematicamente, da quasi tre lustri.
La proposta è quella di eliminare – con una sostanziale riscrittura degli artt. 114 e 116 cpp (oltre che delle sparse disposizioni che li richiamano) – ogni limite alla disponibilità e pubblicabilità degli atti di indagine una volta che viene meno il cd. “segreto interno”. Una discovery formalizzata, di cui si giova il giornalista in ragione della sua qualità professionale, per tale ragione assimilato alla parte processuale.
Scrive Ferrarella: «Una sorta di baratto: il giornalista rinunci alla pretesa del “tutto e subito” anche nell’area presidiata da un segreto interno che intanto venga però normativamente ristretto e precisato, in cambio del fatto che a determinate scadenze temporali e procedurali, molto ravvicinate rispetto allo svolgersi degli avvenimenti e alle singole tappe d’indagine portate a conoscenza degli interessati, egli venga equiparato alle parti coinvolte nel procedimento sotto l’unico profilo dell’essere ammesso a un accesso diretto e legittimo (non da accattone più o meno nobile e più o meno scrupoloso) agli atti del procedimento in tutte le fasi nelle quali sostanzialmente questa circolazione già di fatto esista, sebbene oggi in misura pericolosamente incompleta e imprecisa» [12].
Ovviamente, come in tutte le proposte di “liberalizzazione”, in cui si colloca anche questa “Grande Divisione”, l’opinione si spacca e le cose non sono semplici.
Provo allora a riassumere un immaginario, sintetico dibattito, ancorché monologante, con possibili obiezioni e contro-obiezioni.
La prima obiezione è che, immaginando la disponibilità e pubblicabilità a scadenze “ravvicinate” degli atti rispetto al loro compimento, il processo mediatico inizi ben prima (addirittura, anni prima) che il giudice conosca gli atti e che la prova si formi dinnanzi a lui. Sicura, insomma, sarebbe la sua previa conoscenza degli atti (compresi quelli del pm) ed assai intenso il rischio di un suo pre-giudizio, nel senso inteso dalla Corte costituzionale, e sopra accennato. Ad esempio, pubblicare per intero tutte le intercettazioni depositate con una richiesta cautelare (e poi gli interrogatori resi dagli indagati etc.), commentandole in dettaglio nel cd. salotto televisivo (con il bravo presentatore, l’immancabile e l’ineffabile criminologo, l’urlante avvocato: e così via), vorrebbe dire che, allorquando inizia il dibattimento, il giudice già conosce tutto, da tempo e nei dettagli.
Sed contra (contro-obiezione): già adesso, il filtraggio proprio degli atti sopra indicati avviene, seppure a beneficio di pochi (giornalisti), in maniera più o meno occulta e certamente in maniera incompleta, quindi incontrollabile. La platea completa e formalizzata degli atti vorrebbe dire informazione completa, non distorta persino rispetto al giudice. Il problema non è quello di una illusoria verginità cognitiva del giudice al momento del giudizio (praticamente impossibile nelle vicende di grande risonanza giornalistica), ma di una completa ed oggettiva informazione (per certi aspetti anche del giudice).
Tuttavia, non è tanto un problema di influenza sul giudice, quanto di un processo che, nella fase ancora di indagine o cautelare, è innanzitutto celebrato sui media. Prima ancora della raccolta delle prove (dibattimento) e sulla base di un’interpretazione giornalistica prima e collettiva poi dei gravi indizi di colpevolezza.
In breve: dobbiamo rassegnarci, malgré tout, al doppio binario, al processo prima mediatico e poi reale? Penso di sì. Penso che, anche a prescindere dalla legislazione, questo sia, in qualche modo, l’orizzonte. Ci si può rammaricare molto, ma è difficile (impossibile?) contrastare, per un verso, la morbosità sociale su certi eventi criminosi, ma soprattutto, per altro verso, la circostanza che «la comunicazione-evento condensata nella forma dell’odierno fatto mediatico è assai più vicina alla forma liturgico-sacramentale della performance rituale, che non alla trasmissione verbale dei significati» [13]: in breve, si può comunicare «anche senza sapere niente (e) anche senza avere niente da dire» [14]. Allora, dovendo comunque subire queste liturgie, tanto vale riaffermare la sovranità dei contenuti: avere, cioè, la possibilità di contrastare almeno un po’ la manipolabilità dei contenuti dibattendo prima in Tv, ma con le carte processuali.
Ulteriore obiezione: la liberalizzazione porterebbe a deprimere la garanzia della presunzione di innocenza dell’imputato. La “pancia” della società civile (recte: della società televisiva e mediatica) è sempre colpevolista (“manettara”, direbbe un mio amico) e radica aspettative decisorie in tal senso: ed in tal senso condizionerebbe il giudice, specie se integrato con giuria popolare.
Sed contra: è ben radicata la credenza che la pubblica opinione sia, istintivamente, colpevolista. Lo sostengono, con convinzione, anche intellettuali di rango, come, ad esempio, Ennio Amodio [15]. Ma è sorprendente allora che da una lettura ragionata ed attenta di una fonte insospettabile – quale l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle camere penali italiane – emerga, secondo l’analisi di un osservatore serio quale è Edmondo Bruti Liberati, una conclusione del tutto opposta [16]. Non mi interessa entrare nella diatriba statistica. Dico solo che è quantomeno controvertibile ed incerto questo dato sociologico, soggetto a molte variabili. In ogni caso, l’obiezione si presta alle medesime confutazioni.
La vera obiezione alla liberalizzazione – quella che più mi prende cuore ed intelletto – è tuttavia la tutela, giornalisticamente parlando, dei terzi: di quella schiera di anonimi che, “sfiorati” dall’indagine (cioè, non imputati e neppure mai indagati, e neppure potenziali parti offese: insomma estranei), con la liberalizzazione immediata degli atti – dunque, anche ben prima della conclusione dell’indagine, ben possono “finire sui giornali” senza mai entrare nell’indagine.
Il problema è proprio questo: il giudice togato che celebrerà il processo si “tutela” dai movimenti di opinione con la sua cultura professionale [17] (o “cultura della giurisdizione” per i nostalgici di tale semantica d’antan); l’imputato, le parti offese, persino i testimoni hanno lo scudo del loro ruolo processuale e, comunque, il rilievo mediatico di essi è comunque legato a fil doppio con la vicenda processuale ed il loro “rilievo” mediatico in qualche modo va a coincidere, in tutto o in parte, con il perimetro penale della vicenda.
Non così per il terzo estraneo. Costui, per una telefonata intercettata e trascritta, ancorché sostanzialmente inutile per l’indagine; per un incontro estemporaneo videoripreso, che pesa come una piuma sull’ipotesi accusatoria; per un appunto trovato in possesso dell’imputato più o meno eccellente si trova in una scena in cui non sarebbe mai nel “processo reale”, dove la marginalità dell’evento che lo riguarda non sarebbe degna neppure di una sua citazione quale teste.
Questo è uno dei punti critici: e, secondo me, irrisolvibili normativamente.
Perché si può ben predicare che le telefonate intercettate di nessun rilievo investigativo non debbano stare negli atti processuali: ma poi, quando si tenta di realizzare una riforma (una buona, anche se assai migliorabile, riforma, secondo il mio avviso) delle intercettazioni, sappiamo come va a finire.
Inoltre, se liberalizzazione deve essere (come idea, come approccio culturale) non si possono proporre rimedi che, alla fine, costituiscono mortificazione del principio: come, ad esempio, quella avanzata da Roberto Bartoli quale “correttivo” alla liberalizzazione stessa. Vale a dire, la necessità che sia posto una sorta di “filtro” alla discovery, nel senso che il pubblico ministero potrebbe rendere accessibili gli atti dopo aver distinto tra quelli conoscibili e quelli non conoscibili e aver stralciato questi ultimi. Si tratterebbe poi di individuare il criterio sulla base del quale compiere la selezione e lo stralcio: notizie relative a persone estranee alle indagini, notizie che non assumono rilevanza ai fini delle indagini, notizie che non assumono rilevanza penale [18]. Non entusiasma l’idea che il pubblico ministero faccia anche il vigile urbano dell’informazione: più di quanto già oggi, indirettamente, avvenga.
9. Un dubbio per commiato
L’attraversamento del problema della tutela dei terzi è, in realtà, come il binario 9 ¾ di King’s Cross: porta in territori lontani, non facilmente immaginabili, ma, in questo caso, neanche del tutto magici.
Precisamente, porta a separare il diritto di cronaca e di informazione dalla rilevanza penale ed a costruire un diritto/dovere all’informazione in capo al giornalista secondo i canoni “tradizionali”. L’indagine è solo l’occasio per la notizia sul terzo, che non viene fornita per “informazione giudiziaria”, ma quale notizia avente rilievo in sé.
Ora, è normale ed opportuno che il perimetro della rilevanza dell’informazione non coincida con quello della rilevanza penale: che, cioè, la valutazione sulla rilevanza giornalistica abbia autonomia rispetto alla storia ed alla sorte del processo.
Mi chiedo, però, se sarà davvero così.
Voglio dire: caduto il filtro della rilevanza penale, si è davvero certi che il giornalista che pubblica voglia e sappia scindere l’autonomia della notizia e non invece che l’“occasione” dell’indagine sia essa stessa la notizia? Che insomma, a prescindere dal risvolto della vicenda processuale, il terzo rappresenti un autonomo interesse pubblico in sé e non, ad esempio, perché magari abbia parlato di sesso con l’imputato o abbia espresso ad un altro loquente della vicenda processuale un proprio giudizio politico, una posizione ideologica o, banalmente, perché non fosse fedele al proprio marito o alla propria moglie?
Evidente l’approdo del discorso e, con esso, il dubbio che esso si porta dietro.
Liberalizzando, la responsabilità della scelta di cosa pubblicare e di cosa non pubblicare passa interamente nelle mani del giornalista. Il che ovviamente, in astratto, è cosa buona e giusta. È chi svolge un mestiere che si accolla la responsabilità piena di rispettarne le regole deontologiche; di svolgerlo in maniera consona agli scopi; di evitare la spazzatura, a costo di non pubblicare o di pubblicare senza appeal; di sfuggire il pettegolezzo, anche se costa audience. Ma, realisticamente, non va dimenticato che il processo, ogni processo, è un enorme contenitore: un pozzo quasi inesauribile da cui si può attingere di tutto. A differenza di altri contesti, nel serbatoio del processo, volendo, si può trovare e confezionare di tutto: ed è una differenza di non poco momento rispetto alla normale ricerca di una inchiesta giornalistica; si offre, insomma, una potenzialità incredibile.
Non senza considerare che la bulimia mediatica trova, oggi, forme di soddisfazione assai più intense del giornalismo tradizionalmente inteso. Detto altrimenti: di fronte a siti web dalle parvenze più o meno anonime e dalle potenzialità di spazio sostanzialmente illimitate, ha ancora senso evocare l’immagine classica dell’articolo a stampa di buona inchiesta giornalistica, con una “civetta” sincera in prima, e poi, in sesta, un lead pulito e fedele, un rigoroso vangelo delle “cinque W”, e, soprattutto, la firma di un serio professionista che vi mette la faccia? In breve: c’è il rischio che ad un mito professionale – quello del pm o dell’investigatore o dell’avvocato integerrimi, che mai spifferano ai giornalisti prediletti, ma solo informano, tutti e con la giusta distanza – andiamo a sostituire un mito culturale, altrettanto improbabile, e cioè che l’Informazione − quale entità astratta, impalpabile ed anonima – sia comunque preferibile nella veicolazione e nella gestione di tutto quanto provenga dal giudiziario.
Tutto vero, quindi, in premessa: che, cioè, la liberalizzazione spezza ogni rapporto incestuoso tra magistrato e giornalista, spazza ogni scambio e redime la condizione di questuante del giornalista; che essa rende trasparente l’accesso di tutti (i giornalisti) a tutto (il processo), eliminando gli “inventori2 e producendo un’ecologia professionale nel mondo dell’informazione; che, infine, essa elimina le notizie strumentali costruite per valutazioni strumentali dell’indagine, consentendo un giudizio “oggettivo” sull’indagine stessa.
Tutto vero.
Salvo capire se questa metabasi del se e del come della rivelazione della notizia giudiziaria dai magistrati ai giornalisti troverà questi ultimi − tutti questi ultimi, perché il sistema dell’informazione, ovviamente, non si tara sui Ferrarella o su similari eccellenze professionali − attrezzati professionalmente fino in fondo e davvero devoti deontologicamente.
Il dubbio esiste ed il prezzo è assai alto. In gioco è infatti la dignità di molti cittadini.
*Il testo riproduce, con l’aggiunta di qualche essenziale riferimento in nota, la relazione tenuta, il 14 settembre 2018, al Convegno conclusivo del Master di II livello Diritto penitenziario e Costituzione organizzato dall’Università Roma Tre, i cui atti sono in corso di pubblicazione. L'articolo, inoltre, contribuisce all'approfondimento sul tema della comunicazione, a cui è stato dedicato un obiettivo nel n. 4/2018 di Questione Giustizia trimestrale.
[1] C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, ed. digitale 2014, p. 330.
[2] L. Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Dir. pen. contem., Riv. Trim., 2017, 3, p. 4.
[3] M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004.
[4] P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino, 2011, spec. pp. 91-106; Id. La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé, Vita e Pensiero, Milano, 2017, spec. pp. 99 ss.
[5] Traggo questi spunti storici dal lavoro di Alberto Macchia, Spunti in tema di motivazione e principi costituzionali, spec. pag. 1, nt. 2 e 3 del manoscritto, edito poi nella Raccolta di scritti in memoria di Loris D’Ambrosio, in Quaderno di intelligence, 3, Gnosis, 2013.
[6] N. Nicolini, Della procedura penale nel Regno delle due Sicilie, Parte prima, Vol. I, Stamperia di M. Criscuolo, Napoli, 1828, p. 254 ss.
[7] Così R. Orlandi, La giustizia penale nel gioco di specchi dell’informazione in Dir. pen. contem., Riv. Trim., 2017, 3, p. 55
[8] R. Bartoli, Tutela penale del segreto processuale e informazione: per un controllo democratico sul potere giudiziario, in Dir. pen. contem., Riv. Trim., 2017, 3, p. 69.
[9] L. Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, cit., p.11.
[10] L. Ferrarella, loc. ult. cit., ma già Id. Più trasparenza alle notizie per difendere sul serio i segreti, in Deontologia giudiziaria. Il codice etico alla prova dei primi dieci anni, Jovene, Napoli, 2006, passim.
[11] Sul punto, si v. il fondamentale ed insuperato contributo di G. Giostra, Processo penale e informazione, Milano, Giuffré, 1989 (2a ed.); più di recente, vds. E. Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction, Milano, Giuffré, 2016.
[12] L. Ferrarella, Il “giro della morte”, cit. p. 9.
[13] P. Siqueri, La cruna dell’ego, cit., p. 99.
[14] P. Siqueri, Contro gli idoli postmoderni, cit., p. 93.
[15] E. Amodio, Estetica della giustizia penale, cit., p. 134.
[16] L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione camere penali italiane ha curato il volume L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, Pacini Giuridica, 2016. Le osservazioni di E. Bruti Liberati sono nello scritto Prassi, disciplina e prospettive dell’informazione giudiziaria, in Dir. pen. contemp., 12 gennaio 2018, spec. pp. 15 ss.
[17] Scrive in proposito Francesco Palazzo, Note sintetiche sul rapporto tra giustizia penale e informazione giudiziaria, in Dir. pen. contem., Riv. Trim., 2017, 3, p. 143: «(…) la professionalità dovrebbe garantire la assoluta impermeabilità del giudice, come dice spesso la Corte di cassazione, e dunque consentire un’indiscriminata pubblicabilità degli atti processuali; per contro, una rigorosa fedeltà ai principi del modello accusatorio dovrebbe comportare il divieto assoluto della loro pubblicazione sia nella forma testuale che nel loro contenuto. In secondo luogo, si dà una contraddizione nascente dalla stessa attuale nostra disciplina ispirata al modello accusatorio. Se, infatti, da un lato l’abbandono della logica inquisitoria ha rotto la compattezza della segretezza “interna”, dall’altro i principi accusatorî imporrebbero l’astinenza completa del giudice dalla conoscenza degli atti processuali».
[18] R. Bartoli, op. ult. cit., p. 70.