1. Premessa. Il nuovo comma 1-bis dell’art. 4 d.lgs n. 142/2015
L’ordinanza ex art. 700 cpc del Tribunale di Firenze del 18 marzo 2019 prende posizione in ordine ad una delle tante problematiche scaturite dal cd. decreto sicurezza dl. n. 113/2018, convertito con modificazioni nella legge n. 132/2018 e, segnatamente, in ordine al diritto del richiedente il riconoscimento della protezione internazionale ad ottenere l’iscrizione nel registro anagrafico della popolazione residente.
Senza potersi dilungare in ordine all’istituto in esame, i.e. quello dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, è sufficiente ricordare che l’art. 1 del all’art.1 del dPR 30 maggio 1989, n. 223 lo definisce come «la raccolta sistematica dell'insieme delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze che hanno fissato nel comune la residenza, nonché delle posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio».
Ora, l’art. 13 del dl n. 113/2018 ha aggiunto, all’art. 4 del d.lgs n. 142/2015, il comma 1-bis secondo cui il permesso di soggiorno per richiesta di asilo «»non costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell'articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».
In applicazione di tale disposizione, venendo al caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice fiorentino, il comune di Scandicci aveva opposto il diniego all’iscrizione nei registri anagrafici ad un soggetto di nazionalità somala, il quale era regolarmente soggiornante in Italia, avendo richiesto il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale e/o umanitaria, argomentando altresì, in sede processuale, in relazione al contenuto di due recenti circolari del Ministero dell’interno n. 15 del 18 ottobre 2018 e n. 83744 del 18 dicembre 2018 [1].
È avverso tale diniego che il richiedente asilo ha richiesto l’adozione di un provvedimento giurisdizionale d’urgenza perché venisse ordinato al comune l’iscrizione all’anagrafe, ritenendo in particolare che il requisito del regolare soggiorno nel territorio dello Stato potesse essere accertato mediante documenti alternativi al permesso di soggiorno rilasciato ai soggetti che hanno presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale, quali, ad esempio, il modello C3 di richiesta asilo presentato in questura, la ricevuta rilasciata da quest’ultima per attestare il deposito della richiesta di soggiorno o la scheda di identificazione redatta dalla questura.
Così inquadrata la problematica, è di interesse sottolineare sin da subito come il comune resistente abbia rappresentato la necessità che nel procedimento venisse sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale in relazione all’art.13 del cd. decreto sicurezza, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 16, 77, 97, 117 e 118 Cost.
Il Tribunale di Firenze ha, in senso contrario, ritenuto di poter accogliere il ricorso senza dover sollevare la segnalata questione di legittimità costituzionale, esprimendosi, come si vedrà, nel senso della possibilità di offrire una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in parola.
2. L’ordinanza del Tribunale di Firenze in causa RG N. 361/2019 del 18 marzo 2019
In tal senso, per quanto qui rileva, l’articolato provvedimento del giudice toscano muove dal superamento di quanto emerge dalla relazione introduttiva al disegno di legge di conversione del predetto dl per cui «l’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente».
In tal senso, il Tribunale ha fatto proprie le considerazioni dottrinali e giurisprudenziali per cui, ai sensi dell’art. 12 delle Preleggi, il riferimento ivi contenuto all’«intenzione del legislatore» tra i criteri ermeneutici, non possa essere ricostruito come «“volontà politica” di cui la norma è, storicamente, un prodotto», bensì come «testo legislativo inserito nell'insieme dell'ordinamento giuridico» [2].
Ritenuto perciò irrilevante l’argomento interpretativo dei lavori preparatori, il Tribunale, analizzando il contenuto letterale del nuovo comma 1-bis citato, sottolinea come esso si riferisca al permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale quale titolo per l’iscrizione anagrafica e che, tuttavia, il sistema normativo di riferimento dalla stessa disposizione richiamato (i.e. il dPR n. 223 del 1989 e l’art. 6, comma 7 del T.U.I.), non richieda alcun “titolo” per l’iscrizione anagrafica, ma solo una determinata condizione soggettiva, i.e. quella di essere regolarmente soggiornante nello Stato.
Di tal che, riconoscendo che l’iscrizione anagrafica ha natura di attività amministrativa a carattere vincolato, in relazione alla quale il privato ha una posizione di diritto soggettivo, evidenzia come «l'iscrizione anagrafica registra la volontà delle persone che, avendo una dimora, hanno fissato in un determinato comune la residenza oppure, non avendo una dimora, hanno stabilito nello stesso comune il proprio domicilio», sulla base non di titoli, ma delle dichiarazioni egli interessati o degli accertamenti ai sensi degli artt. 13, 15, 18-bis e 19 del citato dPR n. 223/1989.
Nello stesso senso argomenta con riferimento all’art. 6, 7 comma del T.U.I., che non è stato in alcuna misura modificato dal dl 113, sulla base del quale «le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione. In ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza».
Così, la pronuncia in esame ha ritenuto perciò che il nuovo comma 1-bis dell’art. 4 d.lgs n. 142/2015 non possa essere interpretato nel senso di aver introdotto un divieto, neppure implicito, di iscrizione anagrafica per i soggetti che abbiano presentato richiesta di protezione internazionale, poiché, per far ciò, il legislatore avrebbe dovuto modificare il citato art. 6, comma 7 T.U.I., anche nella parte in cui considera dimora abituale di uno straniero il centro di accoglienza ove sia ospitato da più di tre mesi [3].
In adesione alla ricostruzione fatta della natura dell’attività amministrativa e della situazione giuridica soggettiva del richiedente, il Tribunale, chiarisce ulteriormente come il concetto di “titolo” rilevante ai fini del riconoscimento della situazione giuridica soggettiva è «il fatto o l'atto giuridico dal quale deriva l'acquisto della stessa da parte del soggetto giuridico», non già il documento che comprova tale atto o fatto.
Di tal che, posto che ai sensi dell’art. 7 del d.lgs n. 25/2008 il richiedente asilo è regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, deve ritenersi che la presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale determini la sussistenza del “titolo” per l’iscrizione anagrafica in capo al richiedente, il quale, può, allora, essere comprovato con gli atti inerenti l’avvio del procedimento di riconoscimento della protezione.
In ultimo, il Tribunale si fa carico altresì dell’obiezione che si fonderebbe sulla sostanziale interpretatio abrogans del nuovo comma 1-bis in esame, che rimarrebbe privo di significato.
Il senso della disposizione viene ricavato dal combinato disposto di essa con l’art. 13 lett. c) del dl 113, che ha abrogato la previsione dell'utilizzo per i richiedenti asilo dell'istituto della convivenza anagrafica contenuta nell'art. 5-bis dello stesso d.lgs 142/2015, introdotto dalla legge 13 aprile 2017, n. 46 che ha convertito il decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13.
In forza di tale disciplina invero, il richiedente asilo ospitato nei centri di accoglienza era iscritto all’anagrafe sulla base della sola comunicazione del responsabile della convivenza, che determinava perciò una procedura semplificata e accelerata per il titolare di permesso di soggiorno richiedente la protezione.
Tale procedura perciò prescindeva tanto dal requisito della permanenza dei tre mesi nel centro, quanto da quello della dichiarazione dell’interessato o degli accertamenti dell’amministrazione.
Conclude perciò il Tribunale che l’art. 13 del cd. decreto sicurezza «sancisce l'abrogazione, non della possibilità di iscriversi al registro della popolazione residente dei titolari di un permesso per richiesta asilo, ma solo della procedura semplificata prevista nel 2017 che introduceva l'istituto della convivenza anagrafica, svincolando l'iscrizione dai controlli previsti per gli altri stranieri regolarmente residenti e per i cittadini italiani».
In una sorta di moto circolare, si può infine tornare al punto di partenza dell’analisi condotta sulla assai articolata decisione, i.e. quello della compatibilità costituzionale e della sollevata questione da sottoporre alla Corte da parte del comune resistente.
Il Tribunale evidenzia come l’interpretazione proposta consenta di leggere la disposizione in armonia con le norme di rango costituzionale che regolano la presente fattispecie e, segnatamente, con riferimento all’art. 16 Cost., agli artt. 2, 3 4 e 38 Cost., alla luce in particolare dei diritti che sono connessi all’iscrizione nel registro della popolazione residente, nonché del principio di uguaglianza tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti, anche ai sensi dell’art. 14 Cedu, rilevante quale norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.
Ricorda infatti il Tribunale come «interpretare nel segno della Costituzione non è compito esclusivo della Corte Costituzionale ma obbligo che s’impone a diversi livelli, ed in particolare nei confronti del giudice (oltre che dell’amministrazione e, prima ancora, del legislatore, nella sua opera di svolgimento e attuazione della Costituzione), con l’unico limite rappresentato dal divieto di disapplicazione».
3. Osservazioni sparse in tema di criteri interpretativi della legge e diritto d’asilo
Il provvedimento esaminato offre numerosi spunti di interesse, tanto a livello generale, quanto di carattere strettamente inerente la problematica trattata.
Seguendo la tassonomia sopra esaminata, il Tribunale ha correttamente, ad avviso di chi scrive, fatto applicazione dei consolidati approdi in ordine alla rilevanza del criterio interpretativo dell’intentio del legislatore.
Sul punto, la più autorevole dottrina, ha da tempo fatto rilevare come l’interprete, anche laddove sia realmente possibile ricostruire l’intenzione del legislatore, non può e non deve ritenersi vincolato ad attenersi ad essa, bensì «i risultati di questo genere di attività interpretativa devono essere contemperati con quelli dell’interpretazione sistematica tendente a dare coerenza all’ordinamento giuridico considerato nel suo complesso» [4], nonché in relazione alle norme ed ai principi costituzionali [5].
Ma, a ben vedere, nel caso che occupa, potrebbe addirittura considerarsi sufficiente a considerare irrilevante quanto riportato nella relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del dl 113 anche la più restrittiva e risalente tesi proposta da Vezio Crisafulli, il quale, nel ritenere che «la motivazione degli atti legislativi ha precisamente per effetto di rivelare autenticamente, e perciò inoppugnabilmente, la vera intenzione del legislatore ed in conseguenza di rendere molto più rigido di quel che di regola non sia negli altri casi l’obbligo dell’interprete, conferendo all’opera di esso un particolare carattere che bene potrebbe dirsi, in un certo senso, quasi meccanico» [6], tuttavia si riferiva, come lui stesso evidenziava, alla motivazione in senso proprio della legge, chiarendo che i lavori preparatori delle leggi, e in particolare quelle che Crisafulli chiama le «relazioni ministeriali», possono costituire unicamente «motivazione in senso improprio e non tecnico», in quanto non provengono dallo stesso soggetto dal quale proviene l’atto motivato, quest’ultimo essendo imputabile alle camere, mentre le relazioni sono opera del ministro proponente [7].
Ora, con riferimento al caso in esame, una parte della dottrina sembra aver ritenuto, ancorché in chiave aspramente critica, di non poter superare una chiara ratio legis volta alla esclusione della possibilità per i richiedenti asilo di ottenere l’iscrizione anagrafica [8].
Tuttavia, ed è la direzione prescelta anche dal Tribunale di Firenze, altra dottrina aveva già adombrato, nel rilevare l’assenza di un esplicito divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo nella norma in parola, la necessità di prescindere dalle intenzioni del legislatore “storico” nell’attività di interpretazione della predetta disposizione [9], il che è stato ancor più chiaramente sostenuto da chi ha richiamato, al fine di negare rilevanza alla volontà ministeriale e alle circolari, l’art. 101, comma 2 Cost. [10].
Dal condivisibile superamento del criterio della ratio legis (rectius: della supposta volontà politica del ministro proponente), irrilevante sul piano della interpretazione della norma, appare nuovamente del tutto condivisibile l’interpretazione letterale e, soprattutto, sistematica, condotta dal Tribunale di Firenze, in linea, anche sotto questo profilo, con quanto prospettato dalla prima dottrina sul punto.
In tal senso infatti, coglie nel segno l’opzione prospettata di una lettura della nuova disposizione che sia coerente con l’intero apparato normativo nella quale è inserita e, in particolare, la lettura in combinato disposto tanto con le norme di settore (il dPR n. 223 del 1989 e l’art. 6, comma 7 del T.U.I.), quanto con quelle di carattere generale (l’art. 43 cc), valorizzando il criterio interpretativo sistematico, che già la più attenta dottrina, nel rilevare come tale criterio sia tra i più utilizzati, ha evidenziato come sia idoneo «a preservare sia la coerenza logica, sia la congruenza (l’armonia) assiologica dell’ordinamento» [11].
In aggiunta, si può evidenziare come la decisione citata appaia altresì coerente, pur non facendone esplicita menzione, con la ricostruzione della situazione giuridica soggettiva dei soggetti che abbiano inoltrato richiesta di protezione internazionale e/o umanitaria fatta propria dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 4890/2019, la quale, come noto, ha escluso che il dl 113/2018 possa applicarsi ai procedimenti amministrativi già iniziati davanti alle Commissioni territoriali o ai giudizi in corso avverso i provvedimenti di accertamento o diniego del diritto.
Nel far ciò invero, la Corte aveva valorizzato «la qualificazione giuridica di diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale» del diritto d’asilo e la conseguente «natura meramente ricognitiva dell’accertamento da svolgere in sede di verifica delle condizioni previste dalla legge» concludendo perciò che «il diritto soggettivo, nella specie, è preesistente alla verifica delle condizioni cui la legge lo sottopone» [12].
Di tal che, è in piena coerenza logico-giuridica, con tale ricostruzione, ancorché non esplicitata, che il Tribunale di Firenze ha evidenziato come siano le situazioni giuridiche soggettive facenti capo ai soggetti a determinare le conseguenze giuridiche che la legge riconnette loro e non già il possesso o meno dell’uno o dell’altro documento. In tal senso, anche l’attività amministrativa volta ad iscrivere una persona nelle liste anagrafiche è perciò da qualificarsi come attività meramente ricognitiva, per usare le parole della Cassazione, dovendo unicamente la P.A. verificare che il soggetto possegga i requisiti richiesti dalla legge.
Con tale decisione, si arricchisce perciò il panorama giurisprudenziale che definisce le questioni inerenti i rapporti tra la normativa amministrativa, che potremmo definire “di attuazione”, e il diritto d’asilo sulla base della natura giuridica del diritto facente capo a chi richiede il riconoscimento del diritto d’asilo nelle sue diverse forme previste dalla legge, muovendo dalla sua natura di diritto fondamentale e costituzionalmente garantito, di fronte al quale la pubblica amministrazione non è titolare di potere discrezionale, bensì, secondo lo schema tradizionale norma-fatto, deve limitarsi a verificare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto e delle conseguenze previste dalla legge [13].
Oltre alla già citata decisione della Corte di cassazione, ci si riferisce in particolare all’orientamento della giurisprudenza di merito che ha ritenuto illegittimo il diniego del questore di rilascio del permesso di soggiorno per mancata esibizione del passaporto in seguito al riconoscimento del diritto d’asilo, poiché, una volta accertato il diritto in sede amministrativa o giurisdizionale, in capo al questore non residua alcun margine di apprezzamento circa la posizione giuridica soggettiva del richiedente [14].
Ad avviso di chi scrive perciò, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza di merito e di legittimità, stanno contribuendo a fornire un criterio guida atto a far luce sui, numerosi, profili oscuri che possono sorgere in ordine all’applicazione della legislazione in tema di protezione internazionale, rispetto ai quali non si può prescindere dal riconoscimento della natura di diritto fondamentale all’asilo in capo a chi si venga a trovare in una delle situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 10, 3 comma Cost. e, rispetto alle quali, l’attività amministrativa prima e giurisdizionale poi, si pongono in termini di mero accertamento di essa.
4. Conclusioni in tema di interpretazione costituzionalmente orientata
Quanto alla compatibilità costituzionale dell’art. 13 del dl n. 113/2018, una parte della dottrina che si era interrogata sul tema, aveva evidenziato una soluzione alternativa, in particolare con riferimento ai diritti e alle prestazioni a cui è riconosciuto l’accesso ai soggetti iscritti all’anagrafe dei residenti:
1) ritenere che ogni norma che contempli il requisito della «residenza anagrafica» vada letta, nei riguardi del richiedente asilo, nel senso di «domicilio», valorizzando il disposto dell’art. 5, 3 comma del d.lgs n. 142/2015 a mente del quale «l’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio»;
2) ritenere incostituzionale l’esclusione del richiedente asilo dalla residenza anagrafica, perché lo priverebbe di diritti che la legge, anche a livello europeo, riconosce ai soggetti regolarmente soggiornanti, dimostrando peraltro di preferire la prima ipotesi perché idonea a valorizzare il contenuto del citato art. 5, 3 comma d.lgs n. 142/2015 in chiave costituzionalmente orientata [15].
La soluzione alternativa offerta dalla citata dottrina, come peraltro anticipato sopra, è necessitata dal postulato per cui non sarebbe stato possibile interpretare la novella nel senso di consentire comunque l’iscrizione anagrafica al richiedente asilo, poiché espressamente escluso dalla legge, derivandone perciò la necessità di offrire soluzioni diverse al problema dell’accesso ai diritti connessi all’iscrizione nel registro anagrafico dei residenti.
Altra dottrina, in senso solo parzialmente conforme, pur ritenendo possibile offrire una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 13 cit., nel senso di considerare comunque possibile l’iscrizione del richiedente asilo all’anagrafe, per le motivazioni già sopra illustrate, aveva comunque valorizzato, in via potremmo dire subordinata, anch’essa il disposto dell’art. 5, 3 comma d.lgs n. 142/2015, argomentando che, laddove si fosse ritenuta la norma ostativa all’iscrizione all’anagrafe del richiedente asilo, nondimeno allo stesso sarebbero dovuti essere garantiti tutti i diritti connessi a tale situazione, per effetto della formulazione appunto dell’art. 5, 3 comma cit. [16].
Come detto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto di poter fornire una interpretazione della disciplina novellata che non esclude il diritto del richiedente asilo ad essere iscritto nel registro dell’anagrafe, ritenendo in particolare che, in caso contrario, la disciplina si sarebbe posta in contrasto con l’art. 16 Cost. e, con riferimento ai profili esposti dalla citata dottrina, con gli artt. 2, 3, 4 e 38 Cost.
In tal senso, come peraltro già paventato dal sopra citato lavoro scientifico [17], il giudice fiorentino ha ritenuto la formulazione dell’art. 5, comma 3 cit. eccessivamente generica ed indeterminata, come tale inidonea a superare le disposizioni che prescrivono il requisito della residenza anagrafica per l’accesso ai benefici previsti.
L’interpretazione dell’art. 13 allora, ottenuta mediante l’applicazione (o l’esclusione) dei criteri ermeneutici sopra richiamati, si impone ancor di più alla luce del dovere di interpretazione della legge in senso costituzionalmente orientato.
Sul punto, sin dalla capostipite sentenza della Corte costituzionale, 22 ottobre 1996, n. 356, è consolidato il principio per cui «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice decida di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» [18].
D’altronde, anche la più recente dottrina ha ben ricordato che «interpretare, nel segno della Costituzione, non è, infatti, compito esclusivo della Corte costituzionale, ma obbligo che s’impone a diversi livelli, specialmente nei confronti del giudice (ma anche dell’amministrazione e, prima ancora, del legislatore nella sua opera di svolgimento e attuazione della Costituzione)» [19].
Nondimeno, si deve ritenere pienamente condivisibile il richiamo fatto dal Tribunale di Firenze ad un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale cui sarebbe esposta la norma se non si procedesse nel senso interpretativo proposto, i.e. la violazione dell’art. 14 Cedu, il quale si pone come norma di costituzionalità interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.
Tale norme vieta qualsiasi discriminazione, anche quella inerente l’origine nazionale, nell’accesso ai diritti e che, nell’interpretazione datane dalla Corte Edu, pur nel sottolinearne il carattere relazionale e non autonomo del principio, va interpretata nel senso di ritenere necessarie «considerazioni molto forti potranno indurre a far ritenere compatibile con la Convenzione una differenza di trattamento fondata esclusivamente sulla nazionalità» [20].
Un ulteriore elemento può infine essere evidenziato, non utilizzato dall’ordinanza del Tribunale di Firenze, in ordine ai diversi referenti normativi che possono venire in rilievo nel caso di specie e che, certamente, pone questioni di rapporto tra le fonti attualmente assai dibattute.
Ci si intende riferire al disposto dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cd. Carta di Nizza, che, specularmente all’art 14 Cedu, prevede che «è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. Nell'ambito d'applicazione del Trattato che istituisce la Comunità europea e del Trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi».
Non vi è modo di dilungarsi sulla problematica scaturita da alcune recenti pronunce della Corte costituzionale in ordine al rapporto tra l’incidente di costituzionalità e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia o disapplicazione della legge interna laddove emerga il possibile contrasto tra la norma legislativa e, da un lato, norme costituzionali, dall’altro, norme di cui alla Carta di Nizza [21].
Sul punto, tuttavia, non può non farsi menzione della suggestione per cui potrebbe farsi diretta applicazione dell’art. 21 Carta di Nizza in subiecta materia, avendo oggi le disposizioni della CDFUE, ai sensi dell’art. 6, par. 1 del TUE, lo stesso valore giuridico dei Trattati e rispetto alla quale in dottrina si è già valorizzata la «sua connessa idoneità a produrre effetto diretto nell’ordinamento degli stati membri, anche a costo di determinare la disapplicazione di eventuali norme di diritto interno contrastante, senza che il giudice nazionale debba, né possa, attendere la rimozione di queste ultime da parte della propria Corte costituzionale» [22].
In questa direzione, la Corte di giustizia ha anche recentemente avuto modo di affermare come l’art. 21 della Carta − ed il principio di non discriminazione − da esso portato abbia carattere imperativo in quanto principio generale dell’Unione e, perciò, il giudice nazionale è tenuto a garantire ai singoli la tutela giuridica promanante da tale disposizione, anche disapplicando all’occorrenza la normativa nazionale contraria [23].
Tali considerazioni, ancorché con riferimento all’art. 50 CDFUE, sono peraltro state fatte proprie in giurisprudenza dalla Corte di cassazione penale, che ha esplicitamente statuito che «il suo inserimento nella Carta di Nizza, tra i diritti fondamentali dell’Unione europea, può assicurargli valore di principio generale nell’ambito del diritto europeo dell’Unione, ponendosi per i giudici nazionali come norma vincolante e funzionale alla realizzazione di uno spazio giudiziario europeo in cui venga ridotto il rischio di conflitti di competenza» [24].
E allora, in conclusione, forse proprio nella materia della protezione internazionale e del diritto d’asilo, potrebbe ben esplicarsi il ruolo del giudice comune quale giudice europeo, chiamato, anche alla luce dei valori su cui si fonda l’Unione ex art. 2 TUE, «al riconoscimento di diritti universali, come tali rivendicabili (anche) nei confronti degli Stati da chi non sia cittadino europeo» [25].
[1] Per quanto qui interessa, la Circolare del Ministero dell’interno n. 15/2018, afferma che «dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni il permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale di cui all’art. 4, comma 1 del citato d.lgs n. 142/2015, non potrà consentire l’iscrizione anagrafica», nonché la Circolare del Ministero dell’interno n. 83744/2018, nella parte in cui prevede che «ai richiedenti asilo – che peraltro non saranno più iscritti nell’anagrafe dei residenti (art. 13) – vengono dedicate le strutture di prima accoglienza (CARA E CAS)».
[2] Sul punto l’ordinanza richiama il consolidato orientamento della Corte di cassazione per cui «ai lavori preparatori può riconoscersi valore unicamente sussidiario nell'interpretazione di una legge, trovando un limite nel fatto che la volontà da essi emergente non può sovrapporsi alla volontà obiettiva della legge quale risulta dal dato letterale e dalla intenzione del legislatore intesa come volontà oggettiva della norma (voluntas legis), da tenersi distinta dalla volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa» (vds. Cass. n. 3550/1988, nonché Cass. n. 2454/1983 e Cass. n. 3276/1979).
[3] Ciò poiché, evidenzia il Tribunale, posto l'art. 43, comma 2 cc, per cui «la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale», e l’art. 3, comma 1 dPR n. 223/1989, a mente del quale «per persone residenti nel comune s'intendono quelle aventi la propria dimora abituale nel comune», «ne consegue che, se dopo tre mesi un centro di accoglienza deve essere considerato, per legge, dimora abituale, dopo lo stesso lasso di tempo il richiedente asilo accolto nel centro ha diritto all'iscrizione anagrafica in quanto persona residente».
[4] Così A. Pizzorusso, Le fonti a produzione nazionale, in A. Pizzorusso e S. Ferreri, Le fonti del diritto italiano. 1. Le fonti scritte, Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 1998, pp. 118 ss.
[5] Cfr. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale. I. Il sistema delle fonti del diritto, Torino, 1990, pp. 72 ss.
[6] V. Crisafulli, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., 1937, I, pp. 436 ss.
[7] Per tale sintesi del pensiero crisafulliano vds. N. Lupo, Alla ricerca della motivazione delle leggi: le relazioni ai progetti di legge in parlamento, in Osservatorio sulle fonti 2000, a cura di U. De Siervo, Torino, 2001, pp. 67 ss.
[8] Cfr. P. Morozzo della Rocca, Vecchi e nuovi problemi riguardanti la residenza anagrafica nel diritto dell’immigrazione e dell’asilo, in questa Rivista on-line, 16 gennaio 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/vecchi-e-nuovi-problemi-riguardanti-la-residenza-anagrafica-nel-diritto-dell-immigrazione-e-dell-asilo_16-01-2019.php. L’autore afferma chiaramente che «la scelta del legislatore – pur discutibile – è tuttavia chiara, sebbene tecnicamente abborracciata e priva dell’affermazione letterale secondo cui i richiedenti asilo non possono iscriversi all’anagrafe. D’altra parte non v’è dubbio che presso i consiglieri del Principe il possesso del permesso di soggiorno e la condizione giuridica di regolarità del soggiorno sono considerati interamente equivalenti, sicché per il legislatore storico il nuovo art. 4 d.lgs 142/2015 costituisce un’eccezione esplicita all’art. 6, comma 7, d.lgs 286/1998. (…) Poiché il legislatore nel caso che ci occupa fa di mestiere il Ministro degli interni, è abbastanza plausibile che la rappresentazione della realtà ora brevemente riportata (pur se inesatta sino ad oggi) costituisca anche una profezia pronunciata da chi ha, almeno in parte, il potere di realizzarla (le commissioni per il riconoscimento dello status di protezione internazionale sono infatti composte, prevalentemente, da funzionari del Ministero dell’interno, certamente preparati ma non del tutto indipendenti rispetto alle sue direttive)».
[9] Cfr. D. Consoli e N. Zorzella, L’iscrizione anagrafica e l'accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo, in questa Rivista on-line, 8 gennaio 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/l-iscrizione-anagrafica-e-l-accesso-ai-servizi-territoriali-dei-richiedenti-asilo-ai-tempi-del-salvinismo_08-01-2019.php.
[10] Cfr. E. Santoro, In direzione ostinata e contraria. Parere sull'iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo alla luce del Decreto Salvini, in L’altro diritto, gennaio 2019, che afferma chiaramente che «è evidente che l'abolizione del diritto dei richiedenti asilo di iscriversi all'anagrafe della popolazione residente rappresenti la volontà del Ministero dell'Interno, del Ministro Salvini, proponente del decreto. Ma nel nostro sistema costituzionale questa volontà non ha un peso decisivo, essa deve fare i conti l'art. 101 comma 2 della Costituzione secondo cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Il “soltanto” inserito in questa frase sta a ricordarci che il giudice, per il principio della separazione dei poteri, è soggetto alla legge, non a un qualche potere, e sicuramente non a quello esecutivo. Ciò che deve guidare (anche i funzionari pubblici, per evitare inutili ricorsi e processi sulle loro decisioni) nella lettura dei testi normativi è in primo luogo il contesto costituzionale e il sistema di tutela multilivello dei diritti e poi il quadro sistematico rappresentato dall'ordinamento giuridico. Le interpretazioni fornite dalle circolari ministeriali sono rilevanti solo quando sono compatibili con questo quadro».
[11] Cfr. R. Guastini, Interpretare, costruire, argomentare, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2015, p. 14. Più compiutamente vds. ID. L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, pp. 144 ss.; sul tema dell’interpretazione vds., ex multis, F. Modugno, Interpretazione giuridica, Padova, 2009; E. Betti, Teoria generale della interpretazione, Milano, 1990.
[12] Cass. Civ., Sez. I, 19 febbraio 2019, n. 4890, in questa Rivista on-line, 24 febbraio 2019, http://questionegiustizia.it/doc/cass_4890_2019.pdf.pdf.
[13] La distinzione con lo schema norma-potere-effetto si deve a E. Capaccioli, Disciplina del commercio e problemi del processo amministrativo, in ID., Diritto e processo, Padova, 1978, p. 310.
[14] Sia consentito il rinvio a G. Serra, La Corte di cassazione e l’irretroattività del dl 113/2018: tra una decisione annunciata e spunti interpretativi futuri sul permesso di soggiorno per motivi umanitari, in questa Rivista on-line, 24 febbraio 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/la-corte-di-cassazione-e-l-irretroattivita-del-dl-_24-02-2019.php.
[15] Cfr. P. Morozzo della Rocca, Vecchi e nuovi problemi riguardanti la residenza anagrafica nel diritto dell’immigrazione e dell’asilo, cit. che ritiene che «quest’ultima disposizione non andrebbe sminuita – come di certo ad alcuni piacerebbe − ma sottoposta ad un’interpretazione costituzionalmente orientata che, tra l’altro, comprenda nel termine «servizi» la più ampia sfera possibile dei diritti sociali di cui sono debitori e garanti sia gli enti locali che le diverse amministrazioni dello Stato, nella loro disseminazione territoriale».
[16] Cfr. D. Consoli e N. Zorzella, L’iscrizione anagrafica e l'accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo , cit. che sostengono che «questo significa che il/la richiedente asilo ha diritto a tutte le prestazioni erogate sul territorio comunale, evidenziando che la disposizione non parla solo di servizi erogati dalla pubblica amministrazione e pertanto vanno compresi anche quelli di pertinenza di soggetti privati, quali le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari, etc. A titolo esemplificativo, dunque, si possono ricomprendere i servizi afferenti all’istruzione (scuola, nidi d’infanzia) e alla formazione, anche professionale, ai tirocini formativi, alle misure di welfare locale (comunale e regionale), all’iscrizione ai Centri per l’impiego, all’apertura di conti correnti presso le banche o le Poste italiane, etc.».
[17] Cfr. P. Morozzo della Rocca, op. cit.
[18] Vds. in Giur. cost. 1996, 3096. In dottrina vds., ex multis, G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale nel 2003, in Giur. Cost. 2004; G. Serges, L’interpretazione conforme a Costituzione tra tecniche processuali e collaborazione dei giudici, in Scritti in onore di Franco Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011.
[19] Così M. Ruotolo, Quando il giudice deve “fare da sé”, in questa Rivista on line, 22 ottobre 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/quando-il-giudice-deve-fare-da-se-_22-10-2018.php.
[20] Corte Edu, Sentenza 29 ottobre 2009, Si Amer c. Francia. In tema cfr. M.G. Putaturo Donati, Il principio di non discriminazione ai sensi dell’art. 14 Cedu: risvolti sul piano del diritto internazionale e del diritto interno, in www.europeanrights.eu, che ricorda ad esempio come «la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in varie occasioni, avuto modo di sottolineare come la Convenzione non sancisca un obbligo per gli Stati membri di realizzare un sistema di protezione sociale o di assicurare un determinato livello delle prestazioni assistenziali; tuttavia, una volta che tali prestazioni siano state istituite e concesse, la relativa disciplina non può sottrarsi al giudizio di compatibilità con le norme della Convenzione e, in particolare, con l’art. 14 che vieta la previsione di trattamenti discriminatori».
[21] Su tale problematica vds. recentemente G. Bronzini, La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale italiana verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia?, in questa Rivista on line, 4 marzo 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/la-sentenza-n-202019-della-corte-costituzionale-it_04-03-2019.php.
[22] F. Viganò, L’impatto della Cedu e dei suoi protocolli sul sistema penale italiano, in G. Ubertis e F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, pp. 32 ss.
[23] Cfr. Corte di giustizia, Grande Sezione, C-414/16, 17 aprile 2018, Egenberger, in questa Rivista on-line, 29 giugno 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/diritto-dell-ue-e-soggiorno-del-richiedente-protez_29-06-2018.php. Nello stesso senso cfr. Corte di giustizia, C-176/12, 15 gennaio 2014, Association de mèdiation sociale (AMS), in www.osservatoriosullefonti.it, con breve nota di N. Lazzerini, Corte di Giustizia, sent. 15 gennaio 2014, causa C-176/12 Association de Médiation sociale (1/2014), nella quale la Corte ricorda che «a questo proposito, occorre notare come le circostanze del procedimento principale si differenzino da quelle all’origine della (…) sentenza Kücükdeveci, nella misura in cui il principio di non discriminazione in base all’età, in esame in quella causa, sancito dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, è di per sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale».
[24] Cass. Pen., Sez. VI, 15 novembre 2016, n. 54467, in Dir. Pen. Cont., fasc. 4/2017, p. 280 con nota di I. Gittardi, La miccia è accesa: la Corte di Cassazione fa diretta applicazione dei principi della Carta di Nizza in materia di ne bis in idem.
[25] Così C. Salazar, A Lisbon story: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da un tormentato passato… a un incerto presente?, in www.gruppodipisa.it.