1. Le generali critiche al nostro modo di insegnare il diritto nelle Università, che da decenni si ripetono con piccole variazioni, non hanno prodotto risultati duraturi. Neanche il periodo d’oro della contestazione (chi scrive queste note cominciò a insegnare proprio in quegli anni) riuscì a penetrare sotto la superficie: i soli esiti che ancora si vedono sono le attività seminariali a fianco delle lezioni cattedratiche, le rare cliniche legali e una (ma solo apparente, come dirò subito) attenzione al dato giurisprudenziale che trova qualche riscontro nella manualistica.
Negli ultimi settanta anni – un’era geologica per il diritto contemporaneo – il curriculum del corso di laurea, pur portato da 4 a 5 anni, è rimasto sostanzialmente invariato; a parte qualche minima aggiunta fra gli insegnamenti complementari, gli insegnamenti sono gli stessi di settanta anni fa e il medesimo o quasi è il rispettivo peso nel piano didattico: bastino questi rilievi per darci la misura dell’immobilismo universitario.
2. Il giovane magistrato, che da poco ha lasciato i banchi universitari, si sente a disagio nella sua nuova professione per una ineliminabile ragione: egli si trova alle prese con problemi che nascono dalla vita. Questa osservazione non è così ovvia come potrebbe apparire, perché non corrisponde alla frequente contestazione dell’insegnamento teorico. Il punto, infatti, non è quello: l’insegnamento teorico ci vuole, ha una propria funzione, caratterizza il nostro giurista e spesso lo fa emergere in sedi straniere o internazionali: la sua indispensabile missione va ribadita perché non si può puntare a una comunità di praticoni.
Per individuare quale sia il problema reale occorre guardare agli ordinamenti che oggi dettano la linea al mondo intero e sono gli ordinamenti di common law. I nostri studenti che hanno l’occasione di fare esperienza in Inghilterra o negli Stati Uniti (non molti, purtroppo) ritornano riferendo che in quei paesi l’insegnamento teorico è carente; eppure, essi, come tanti loro coetanei di altri paesi, proprio in common law vanno perché ivi apprendono il diritto dell’oggi e lo apprendono discutendo i problemi della vita - e così torniamo al disagio del giovane magistrato dinanzi ai problemi che nascono dalla vita, dal quale siamo partiti.
3. È stato osservato nei dibattiti sulla preparazione all’esame in magistratura che i relativi corsi di preparazione dedicano molta attenzione alle più recenti pronunce della Corte di cassazione e in genere all’evoluzione giurisprudenziale; tuttavia, la ragione di quella attenzione risiede non nel riconoscimento della funzione nomopoietica della giurisprudenza, ma nella speranza di indovinare i temi degli esami scritti, i quali hanno il vezzo di proporsi nell’astratto e nel concetto e quindi di non vertere su problemi della vita. Da questo punto di vista la coerenza è manifesta: la Corte di cassazione enuncia principi di diritto i quali, quasi per definizione, prediligono l’astratto e il concetto. Le massime relative a sentenze che non enunciano principi di diritto si adeguano e così il discorso si chiude: il giovane magistrato non avrà esperienza di problemi della vita fino a quando sarà chiamato a risolverli, senza essere stato per ciò formato.
Nell’odierno approfondimento del fenomeno giurisprudenziale sembra manifestarsi un avvicinamento alle tecniche conoscitive della common law, del quale potrebbe essere una spia il frequente ricorso all’espressione “ratio decidendi”, riportata in uso da Gino Gorla negli anni Sessanta del secolo scorso. Egli, che ben padroneggiava l’esperienza della common law, impresse uno scossone al rapporto fra giurisprudenza e evoluzione del diritto; la sua lezione si è attenuata nel corso del tempo sebbene l’avesse ripresa e attualizzata Francesco Galgano: l’uno e l’altro avevano richiesto che la giurisprudenza fosse studiata (non solo subita) e che lo studio muovesse non dai principi affermati nelle singole pronunce, ma dai fatti all’origine delle rispettive controversie. Ecco finalmente in primo piano i problemi della vita, uno penserebbe.
E invece no. Il cammino legislativo di questi ultimi anni ha regolarmente svalutato i fatti dai quali originano le controversie, raccomandando all’estensore della sentenza la “concisa esposizione” delle “ragioni di fatto” della decisione (art. 132 cod. proc. civ.) mentre il ricorrente in Cassazione è passato dalla “esposizione sommaria dei fatti di causa” alla “chiara esposizione”, ma soltanto dei “fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso” (art. 366 cod. proc. civ.). Può sembrare poco, ma non è poco se si osserva che in questi ultimi anni alcune riviste di giurisprudenza sono tornate agli “omissis” che proprio Gorla aveva denunciato e cioè all’amputazione delle pagine iniziali delle sentenze, quelle dedicate ai fatti (e in passato allo “svolgimento del processo”).
4. La raccomandazione che le massime siano redatte con riferimento ai fatti di causa (da ultimo, Andrea Di Porto) è caduta nel vuoto perché la massima appartiene alla cultura giuridica del “principio di diritto”, non a quella della ratio decidendi. Queste due nozioni delineano distinti fenomeni. Il principio di diritto, fin dal Tribunal de cassation rivoluzionario, appartiene ai meccanismi di integrazione dell’ordinamento normativo vigente ed è la moderna manifestazione delle esigenze manifestate da Giustiniano nella costituzione Tanta; la ratio decidendi è invece opera dell’interprete e svolge funzione conoscitiva della ragione di una specifica decisione: se correttamente formulata, è inscindibilmente legata ai fatti di causa e ha portata generalizzatrice ristretta; infatti, essa si è sviluppata, prima nel nostro diritto comune e poi in Inghilterra, nel contesto di sistemi con una forte tendenza allo stare decisis, ove quindi operano tecniche che mirano a non pregiudicare la soluzione di controversie successive se non contraddistinte dalla medesima base fattuale del caso precedente.
Manca in Italia un quadro teorico all’interno del quale collocare un corretto approccio a quella “giurisprudenza della Corte” che ha assunto nell’art. 360-bis cod. proc. civ. un ruolo para-legislativo. In Francia si impiega l’espressione doctrine de la Cour, ma in Francia sono in grado di pubblicare Les grands arrêts de la jurisprudence civile dal 1934 (tredici edizioni in novanta anni, originariamente un solo volume, ora due) mentre da noi una analoga iniziativa sarebbe impossibile come, per non dire altro, mostrano gli interventi delle Sezioni Unite modificativi di proprie precedenti statuizioni e le frequenti pronunce delle sezioni semplici che adottano soluzioni in contrasto con altre passate.
Siamo quindi nel peggiore dei mondi possibili.
5. Ho sinora brevemente descritto alcune ragioni strutturali per le quali nessuno sottopone i problemi della vita né allo studente di giurisprudenza né al giovane laureato in attesa del concorso in magistratura e posso ora proporre due linee di approfondimento.
La prima è che normalmente un caso della vita non può essere risolto sulla base delle nozioni appartenenti a una sola materia di insegnamento universitario; la seconda è che la concorrenza fra le materie di insegnamento rispetto a un caso specifico porta naturalmente a concentrarsi sui fatti perché sono essi, non i problemi giuridici astratti, ad avere creato il “caso”, quello che il giudice deve decidere.
Queste considerazioni motivarono un inusuale piano didattico della Scuola per le professioni legali di Genova alcuni anni fa: a fianco degli insegnamenti tradizionali furono introdotti nel secondo anno nuove materie, ciascuna affidata a più docenti sotto il coordinamento di uno di essi. Riferisco qui di seguito due esempi.
Materia: “La formazione della volontà della persona” (31 ore); svolgimento didattico: i vizi della volontà e la protezione del consumatore; i vizi della volontà nella realtà informatica; la tutela della libertà testamentaria; l’autodeterminazione nel trattamento medico (diritto civile), idem (diritto penale); truffa, violenza privata, circonvenzione di incapace; parere di diritto civile; parere di diritto penale.
Materia: “Le unioni diverse dal matrimonio (57 ore); qui la didattica era estremamente complessa e coinvolgeva diritto costituzionale, diritto civile, diritto internazionale privato e processuale, diritto comparato, diritto penale, diritto amministrativo, diritto dell’Unione europea oltre a due pareri e alla redazione di un atto di citazione.
Gli allievi accolsero bene queste novità e i primi che completarono il biennio ottennero ottimi risultati all’esame di ingresso nella magistratura. I “fatti” emergevano naturalmente a cura del docente coordinatore, il quale li poneva alla base del corso e li proponeva ai singoli docenti per assicurare che gli allievi cogliessero l’interrelazione fra i vari rami del diritto con riferimento a un numero limitato di fattispecie.
L’esperienza si interruppe dopo due anni perché richiedeva un enorme impegno di programmazione e vincolava i docenti a seguire i temi specifici dell’insegnamento interdisciplinare con le precise scadenze previste dal calendario.
6. Onde completare i caratteri della didattica per problemi della vita è opportuno accennare all’analisi, magari in sede di esercitazioni o di ore complementari, di una singola sentenza o di più sentenze sul medesimo tema (è l’unico portato stabile della contestazione studentesca degli anni Settanta!). Questa è una attività utilissima se condotta con attenzione ai fatti della causa o delle cause, se pone in risalto l’interrelazione fra gli aspetti processuali e quelli sostanziali e infine se colloca la sentenza o le sentenze nel quadro dei precedenti, mostrando come si rapportano gli uni con gli altri (nella SSPL genovese era stato introdotto, riprendendo una proposta di Gorla, anche un insegnamento sulla giurisprudenza e sulla lettura delle sentenze); l’analisi della giurisprudenza per principi è invece dannosa, prima che inutile, perché è funzionale alla didattica astratta e per concetti.
7. È lecito chiedersi quanto le evoluzioni didattiche verso un insegnamento per problemi di vita siano efficaci per migliorare il rendimento del candidato al concorso in magistratura e poi del giovane magistrato.
Il candidato che ha fatto l’esperienza della didattica per problemi della vita – come in common law, ma con in più la formazione teorica tipica delle nostre Facoltà - approccia qualsiasi tema teorico e nozionista, come sono abitualmente quelli dei nostri concorsi, con ben altra consapevolezza della interconnessione fra i rami del diritto e quindi con ben altra padronanza di approccio e di svolgimento: egli è comunque un passo più in là di tutti gli altri. Il giovane magistrato avrà intravisto quanto poi vedrà tutti i giorni: sarà stata una anticipazione di metodo e una indicazione per il futuro.
Per chi ha trascorso una vita in Università rimane l’insoddisfazione di non essere riuscito a smuovere un sistema che ottunde le individualità e non sempre produce giustizia.