Secondo una definizione tecnica, “La mia classe” rientra nella categoria della «docu-fiction»: ossia, un film di finzione che sceglie di ospitare frammenti di realtà.
La trama (della fiction): Valerio Mastandrea è un maestro che insegna l’italiano a una classe di migranti extra-comunitari che puntano a superare l’esame per ottenere la carta di soggiorno.
Davanti a lui, tutte le sere, un caleidoscopio di facce, di colori, di storie, alcune delle quali, addirittura indicibili per il dolore che riportano a galla (una delle alunne, la ragazza iraniana, non riesce a vincere il proprio pianto mentre risponde agli interrogativi dell’insegnante che vuole così far esercitare i suoi allievi).
Ma si coglie che le ore passate in classe costituiscono per tutti – anche per il maestro – il riparo accogliente dalla durezza del mondo esterno, grazie alla corrente di umanità e di solidarietà che si stabilisce tra tutti loro.
Ad un certo punto della narrazione, fa la sua irruzione nel film la realtà, nella sua variabile più scontata, visto l’argomento di cui si parla, quella di un permesso di soggiorno non rinnovato ad uno degli “attori”.
La troupe e il cast devono decidere della sorte del loro film: continuare o abbandonare tutto?
La legge non ammette deroghe, e nonostante le comuni buone intenzioni, il film (“quel” film) non si può più fare: ne va in scena un altro, che prende il largo rispetto all’ispirazione di partenza, ed ai buoni propositi, rivelatisi inutili, che l’avevano originata.
“La mia classe” procede allora per una narrazione parallela, che accompagna i suoi interpreti attraverso gli sviluppi, veri o immaginari, delle loro storie: ma l’aver affiancato la realtà alla rappresentazione non solo non toglie drammaticità alla storia, piuttosto la carica della consapevolezza di quella regola, che da spettatori non dovremmo mai dimenticare, per cui se il “prodotto” cinematografico deve sempre riuscire a gratificare il suo pubblico, almeno un po’, la realtà, quella, invece, no.
Il regista Gaglianone non sembra farsi illusioni, e mette in scena, accanto alle storie individuali, l’imbarazzo e la frustrazione del cinema “d’impegno” che al di là delle intenzioni non riesce ad andare, perché la vita vera è altra cosa.
La vita vera si gioca sulle difficoltà di tutti i giorni che, per chi è nato altrove, sono ancora più crudeli ed insensate, più della malattia e della solitudine: e che sanno di controlli casuali di polizia, di detenzioni al CIE e poi di espulsioni verso il paese d’origine da cui si è fuggiti per cercare di evitare la morte e la violenza, solo evocate nella classe dai ricordi degli alunni, ma evidentemente presenti e vive nelle loro esperienze di vita.
Valerio Mastandrea, nel ruolo del professore, riesce ad arricchire il suo personaggio di umanità e di empatia anche nell’impartire le regole grammaticali della nostra inarrivabile lingua patria: ma soprattutto, con tutta la misura di cui è dotato, e di cui offre anche in quest’occasione un saggio notevole, centra l’obbiettivo di rappresentarel’impotenza e la frustrazione di chi, armato delle migliori intenzioni, vuole testimoniare contro l’ingiustizia ma non riesce a cambiare il corso della realtà.
Per il pubblico, un insegnamento che va oltre la storia de “La mia classe”: perché nessuno di noi può illudersi di rimanere spettatore, di fronte all’immigrazione ed alle tante storie umane che ne fanno il fenomeno saliente della nostra epoca.