1.
In un intervento pubblicato su La Repubblica del 30 aprile (L’obbedienza e la responsabilità), il Presidente Emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, ha posto alcune questioni che meritano forse una parola di commento. Le questioni che discuterò si pongono sul piano della teoria del diritto, ma hanno a che fare con il significato dei comportamenti che tutti noi stiamo tenendo, come ormai si suol dire, “nell’epoca del coronavirus”.
Constatando che i dpcm che stanno governando le nostre vite si occupano di dettagli minimi relativi ai nostri comportamenti quotidiani, Zagrebelsky fa innanzi tutto alcune considerazioni interessanti in tema di rapporti tra diritto e costume ("abitudini"). Egli nota giustamente a) che le abitudini sono cosa profonda che non si cambia a colpi di decreti, e b) che la regolamentazione di ogni piccolo dettaglio relativo alle nostre vite e ai nostri spazi ha alla base la considerazione dell’essere umano «non come essere naturalis capace di autodeterminazione, bensì come persona legalis forgiata dalla legge». Entrambe le considerazioni si possono accogliere senza problemi: perché è vero che tra legge e abitudini c’è un rapporto complesso, e che le seconde non sono semplicisticamente forgiabili dalla prima; ed è vero che i provvedimenti del governo si sono spinti in luoghi, fisici e comportamentali, dove forse mai avrebbero pensato di inoltrarsi - se non nella mente di qualche costruttore di distopie ultramoderne -, e che ciò comporta una giuridicizzazione esageratamente spinta della nostra vita fisica e persino sentimentale.
2.
Dove il discorso di Zagrebelsky appare a mio avviso criticabile è nella distinzione che egli intravvede dentro le norme dei decreti tra quelle che sono da considerare vere e proprie “norme giuridiche” e quelle che invece sarebbero meri “consigli”. Qui Zagrebelsky riprende una distinzione classica, sulla quale si era soffermato in un saggio famoso dei primi anni ’60 anche il suo maestro, Norberto Bobbio. Le prescrizioni giuridiche sarebbero dunque solo quelle che hanno annessa una «comminazione di sanzioni», mentre tutte le altre, di cui i decreti sono piene, non sarebbero altro che «consigli ed esortazioni», che «di giuridico hanno poco o nulla, ma riguardano l’assunzione di condotte autonome e responsabili». Mentre nel primo caso avremmo a che fare con questioni di “ubbidienza”, nel secondo caso abbiamo a che fare con la “responsabilità”, e dunque con una sfera che è etica e nient’affatto giuridica.
Ora, in questa sede non discuto sull’opportunità o meno di regolamentare questo o quel comportamento: mi limito ad ammettere che vedo in generale con sospetto l’appropriazione progressiva delle nostre vite da parte del diritto. Discuto invece la visione giuridica che emerge dalle considerazioni di Zagrebelsky, perché mi paiono frutto di una visione che occorre superare proprio in nome del valore invocato dal giurista torinese: la responsabilità.
Entro in un campo nel quale i teorici del diritto discutono, talora ferocemente, da decenni, se non da secoli. Si tratta del rapporto tra diritto e (minaccia della) sanzione, e di tutto ciò che consegue dall’assumere una tesi piuttosto che un’altra. Preciso anche che non è mia intenzione mettere in discussione il rapporto tra diritto e sanzione: si può ammettere senza problemi che il diritto non può fare a meno di comminare punizioni (e talvolta assegnare premi). Da ciò non discende, tuttavia, necessariamente che il diritto debba essere ridotto (e ricondotto) esclusivamente alla sua dimensione coattiva. Mi spiego: dal fatto che una norma ci chieda di tenere un comportamento discende per noi un obbligo, il quale esiste in virtù della norma che lo pone, e non perché siamo minacciati di una sanzione nel caso in cui ci sottrarremo al nostro obbligo. Il fatto della sanzione non sta perciò a fondamento dell’obbligo, ma consegue alla sua violazione. Ciò significa che l’obbligo — la normatività del diritto, possiamo dire - non è fondato sulla sanzione, ma ne è piuttosto la premessa. Detto in termini diversi e (forse) più semplici: non siamo obbligati a fare qualcosa perché, altrimenti, saremo sanzionati; ma siamo obbligati perché una norma ci impone di tenere un determinato comportamento, e proprio perché veniamo meno a un obbligo stabilito potremo poi essere sanzionati.
Tutto ciò significa, ovviamente, che a fondare l’obbligo dev’essere qualcos’altro, che forse possiamo riassumere proprio in quella responsabilità che Zagrebelsky pone fuori dal diritto, riconducendola alla sfera morale. Anche se sembra incredibile a tanti, il diritto si rivolge innanzi tutto al nostro essere responsabili, alla nostra possibilità e volontà di adempiere alle sue norme: la nostra ubbidienza (o disubbidienza) perciò non deriva affatto dalla paura della sanzione, ma esattamente dal rispondere o meno a quella chiamata di responsabilità che, nell’articolo di Zagrebelsky, rappresenta l’altrove del diritto.
3.
Il discorso è complesso, me ne rendo conto benissimo, e meriterà approfondimenti adeguati. Le mie sono affermazioni lapidarie, il cui intento donchisciottesco è di contrastare un’opinione assai diffusa. Qui mi interessa però trarne qualche corollario, che ci aiuta a capire meglio il tempo che stiamo vivendo.
Ricondurre il diritto (e l’ubbidienza al diritto) esclusivamente alla minaccia della sanzione vuol dire, non solo assumere il punto di vista del “bandito” (criticato da Herbert Hart nel suo Il concetto di diritto), in base al quale non si distingue più la condizione di chi è obbligato (appunto, in base ad una norma) da quella di chi è costretto (mediante una forza fisica) a fare qualcosa; ma vuol dire anche, e soprattutto, considerare l’uomo come un oggetto che “deve essere spinto” a fare qualcosa che altrimenti non farebbe (il rapporto tra gli uomini e il diritto risponderebbe in sostanza al secondo principio della dinamica…).
Ma viene da chiedersi: come sarebbe possibile fondare un intero ordinamento giuridico - che, come nota lo stesso Zagrebelsky, non può sussistere senza il conseguente comportamento dei consociati -, su una premessa di questo genere? Togliere la responsabilità dal diritto vuol dire innanzi tutto togliere al diritto la sua relazionalità, il fatto cioè che io adempio ad una norma non solo perché me lo chiede lo Stato, ma perché quella norma regola i miei comportamenti nei confronti di altri. Una dimensione che viene spesso occultata, questa, perché il diritto viene schiacciato sulla linea verticale che lega lo stato al cittadino, dimenticando che esso ha una funzione fondamentale, e forse primaria, nel coordinamento dei rapporti sociali, e nel far sì che attraverso le sue forme si possano stabilire e mantenere determinate relazioni, che sono relazioni giuridiche indipendentemente dalla minaccia di una sanzione. Per quanto possa sembrare incredibile, anche attraverso il diritto avviene quel riconoscimento dell’altro che non è puramente etico: ed è quello che Zagrebelsky stesso afferma indirettamente quando scrive che, in questo tempo difficile, difendere la nostra salute e la nostra libertà non è possibile senza difendere anche la salute e la libertà degli altri (ma gli esempi potrebbero essere infiniti).
Ammettere che nel diritto esiste una dimensione ‘orizzontale’ è perciò l’unica via per includere nel diritto anche le dimensioni della solidarietà e della fraternità, che una teoria del diritto "coattivistica" sarà costretta sempre a rincorrere ma non riuscirà mai a catturare. Forse questo tempo ci può aiutare a riconoscere che la solidarietà non è un valore esterno al diritto, ma un suo valore interno, direi addirittura costitutivo (lo sosteneva un autore come Léon Duguit all’inizio del Novecento). Utilizzando una preziosa distinzione zagrebelskyana, dovremmo passare quanto meno dal considerare la solidarietà come un valore, al considerarla come un principio.
4.
Infine, una considerazione che ha a che fare con la politica del diritto. Togliere alla sanzione il suo potere di “costituire” il diritto non comporta affatto un generale arrendersi all’anarchismo e alla incapacità dei cittadini (in particolare italiani) di seguire "spontaneamente" il diritto. Anzi. Il comportamento dei cittadini è forse condizionato in negativo da una cultura giuridica nella quale si avverte l’esistenza dell’obbligo solo in presenza della sanzione. Come dire: se non c’è il pericolo della sanzione — se il poliziotto non mi vede, se posso eludere i controlli — allora non sono più obbligato a comportarmi in quel determinato modo. Una cultura giuridica che invece insistesse anche sulla “orizzontalità del diritto” potrebbe recuperare una efficacia maggiore proprio valorizzando la responsabilità di chi è chiamato ad ubbidire.
I cittadini, come ben sapeva Platone, vanno innanzi tutto convinti, non costretti. E se riusciamo a convincerli — come in gran parte è riuscito a fare il governo con i suoi pur, per tanti aspetti, ‘esagerati’ decreti — allora vuol dire che ci abbiamo guadagnato anche in termini di civiltà giuridica. Non serve, e anzi sarebbe una perdita, mandar fuori dal diritto ciò che di meglio abbiamo saputo esprimere in questo tempo. Ubbidienza e responsabilità non sono due cose distinte, ma si richiamano l’una con l’altra. Una ubbidienza senza responsabilità possiamo chiederla soltanto agli automi.