Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

La scommessa “culturale” della sospensione con messa alla prova alla verifica delle aule di tribunale

di Roberto Arata , Alessandra Salvadori
giudici Tribunale di Torino
Per far sì che la messa alla prova sia effettiva e funzioni e per evitare che essa sia una vuota declamazione di principio è indispensabile costruire "ponti" tra giurisdizione, uffici esecuzione penale esterna e soggetti della società civile. In questo contributo si delinea un possibile percorso che non ignora le criticità che si presentano a chi vuol far funzionare le cose
La scommessa “culturale” della sospensione con messa alla prova alla verifica delle aule di tribunale

1. La necessità di una risposta organizzata da parte degli uffici giudiziari e dell’elaborazione di soluzioni applicative uniformi e condivise 

Negli ultimi mesi il legislatore ha fornito numerosi segnali di un’inversione di rotta rispetto alla tradizionale impostazione che tende, anche in caso di reati di minore allarme sociale[1], ad affidare alla detenzione la risposta dello Stato alla criminalità.

In questa direttrice si inserisce la legge n.67/2014, che, introducendo la messa alla prova tra gli esiti ordinari dei procedimenti penali per reati “minori”, scommette su questo istituto per realizzare gli obiettivi di riduzione del sovraffollamento carcerario e di deflazione del carico degli uffici giudiziari.

Ma, proprio per la sua valenza fortemente innovativa, la sospensione con messa alla prova è destinata a misurarsi, oltre che con le difficoltà interpretative ed applicative connaturate ad ogni riforma, con la necessità di superare inevitabili resistenze culturali e modificare atteggiamenti ed abitudini consolidati.

Per farlo, prima ancora di affrontare le numerose questioni conseguenti alla formulazione non sempre chiara del testo normativo, occorre, in primo luogo, predisporre percorsi che consentano di realizzare soluzioni organizzative “uniformi”, capaci di rendere concreta e far funzionare la riforma nella pratica quotidiana degli uffici.

Solo in tal modo, si riesce a non affidare la soluzione di problemi complessi e destinati a ripetersi nel tempo all’approfondimento estemporaneo del singolo, magistrato o cancelliere, e, conseguentemente, a prevenire il proliferare di modalità applicative e prassi disomogenee, che generano confusione ed ingigantiscono i problemi anziché risolverli.

In secondo luogo, il successo di questa - come di ogni altra - significativa riforma, passa attraverso la forte e convinta partecipazione dei soggetti coinvolti, nel senso che solo la condivisione ragionata di problemi e punti di vista da parte di tutti coloro (magistratura inquirente e giudicante, avvocatura e Uepe) che sono chiamati ad applicare un nuovo istituto consente di elaborare proposte operative valide e capaci di superare obiezioni e difficoltà inevitabilmente conseguenti ad ogni prima applicazione. 

2. L’efficacia del metodo: i risultati conseguiti a Torino nell’applicazione della legge n.120/2010.

Proprio la recente esperienza torinese in tema di lavoro di pubblica utilità avviata a seguito dell’ultima  modifica del codice della strada (legge 29 luglio 2010 n.120), peraltro collegata alla genesi stessa dell’istituto della sospensione con messa alla prova[2], dimostra l’efficacia di un approccio contraddistinto da queste due linee-guida.

Anche in quel caso, infatti, la riforma era stata salutata con diffidenza: lasciava perplessi il ricorso ad uno strumento, il lavoro di pubblica utilità, che aveva alle spalle solo un’ininterrotta sequenza di fallimenti. Ed, in effetti, a fronte di molteplici previsioni normative[3], la concreta applicazione dell’istituto era stata fino a quel momento pressoché nulla, a Torino[4] come nel resto del territorio nazionale[5].

Ed, invece, a partire dal 2010, è stato possibile far uscire il lavoro di pubblica utilità dall’agonia, proseguita, invece, senza sussulti fino ad oggi nella maggior parte degli uffici giudiziari italiani.

I numeri parlano chiaro: a Torino i condannati che hanno usufruito del lavoro di pubblica utilità, a partire dall’1.1.2011 ad oggi, sono complessivamente 2736[6] secondo un andamento crescente anno dopo anno. In relazione a tali applicazioni, i casi di revoca costituiscono una percentuale assolutamente irrilevante[7].

Le convenzioni attualmente in corso con il Tribunale di Torino, stipulate dal settembre del 2010 ad oggi, sono 129 per un totale di 369 posti disponibili[8]: non ve ne era nessuna nel 2010, ve ne erano 50, con 230 posti disponibili, a febbraio del 2012. E’ significativo, poi, che, allo scadere annuale, le convenzioni siano state tutte rinnovate, che molti enti abbiano offerto un maggior numero di posti e che alcune associazioni abbiano espressamente manifestato soddisfazione o, addirittura, dichiarato di essere riuscite a realizzare i propri obiettivi anche grazie al contributo fornito dai lavoratori di pubblica utilità. In alcuni casi, poi, i condannati hanno continuato a svolgere attività di volontariato anche dopo la conclusione del periodo di lavoro di pubblica utilità.

A Torino, dunque, il lavoro di pubblica utilità ha subito, negli ultimi tre anni, una radicale trasformazione: da istituto marginale e pressoché ignorato a strumento efficace e diffuso di sanzione alternativa.

La coincidenza temporale tra la riforma del codice della strada e l’incremento dei casi di applicazione del lavoro di pubblica utilità potrebbe ingenerare l’equivoco di ritenere che l’ottimo risultato raggiunto trovi spiegazione esclusivamente nella modifica legislativa introdotta nel 2010.

Non è così.

Non v’è dubbio che il lavoro di pubblica utilità ha nella materia dei reati del codice della strada un ambito privilegiato di applicazione[9], ma i dati dimostrano che, a legislazione immutata, anche negli altri settori l’incremento è stato notevole a partire dal 2010. Infatti, per l’ipotesi di seconda sospensione condizionale si è passati da meno di un caso all’anno ad oltre cinquanta.

L’istituto ha cominciato a trovare applicazione sistematica persino nell’ipotesi prevista dall’art.73 comma 5 bis del dpr 309/90, sebbene essa coinvolga persone ritenute di regola “socialmente” poco affidabili e, dunque, di solito guardate con diffidenza dagli enti convenzionati.

Il che dimostra che il successo dell’istituto nella realtà torinese si deve, in realtà, proprio alle soluzioni organizzative adottate.m All’indomani dell’entrata in vigore della riforma, infatti, per impedire che la stessa rimanesse sulla carta, era stato istituito presso il Tribunale un “gruppo di lavoro”, che aveva affrontato gli aspetti controversi e problematici posti dalla nuova normativa ed aveva instaurato un’interlocuzione diretta con i responsabili degli enti da convenzionare, essenziale a far emergere, quindi a risolvere, i principali motivi di resistenza. Grazie a questo metodo sono stati elaborati in modo condiviso gli accorgimenti, pratici, logistici e “giuridici”, che, di fatto, hanno garantito il successo e la diffusone del lavoro di pubblica utilità[10].  

Tra l’altro, proprio il ragionamento collettivo dei soggetti coinvolti nell’applicazione dell’istituto ha consentito di aggiungere alla sequenza procedurale normativamente prevista ulteriori passaggi, poi dimostratisi indispensabili strumenti per la sua attuazione concreta.

Ciò è stato riconosciuto anche dal legislatore che ha disegnato l’assetto procedurale della sospensione con messa alla prova muovendo dalle esperienze positive pregresse ed, in particolare, recependo normativamente gli accorgimenti pratico-organizzativi adottati presso il Tribunale di Torino [11].

3. Il nuovo istituto della sospensione con messa alla prova: necessità dello stesso metodo per risolvere problemi analoghi. 

La sospensione con messa alla prova ci pone di fronte a problemi sovrapponibili a quelli affrontati per il lavoro di pubblica utilità.

Proprio per questo al Tribunale di Torino si è deciso di ripercorrere il metodo già collaudato in sede di applicazione della legge n.120/2010, affidando ad un laboratorio composto da magistrati, avvocati e personale dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna il compito di predisporre, in tempi brevi, delle linee guida condivise.

Il successo o il fallimento dell’istituto dipendono anche in questo caso, innanzitutto, dalla capacità dei magistrati di affrontarne la concreta attuazione come ufficio e non come singoli e, dunque, di elaborare, insieme agli altri soggetti coinvolti, accorgimenti pratici capaci di rimuoverne gli ostacoli e risolverne le criticità, così prevenendo il proliferare di risposte individuali differenziate in relazione ai profili organizzativi e procedimentali controversi.

Per garantire uniformità di applicazione alla nuova normativa, il gruppo misto si è occupato di:

- far emergere attraverso il confronto diretto dei rappresentanti delle varie componenti le esigenze reciproche;

- disaggregare il complesso iter finalizzato alla sospensione con messa alla prova individuando le singole fasi ed analizzandone i passaggi;

- ricomporre una sequenza procedimentale strutturata, riempiendo di contenuto i vari momenti e le diverse fasi del percorso ed attribuendo ad ogni soggetto mansioni e compiti maggiormente appropriati alle caratteristiche di ciascuno, sì da evitare qualunque dispendio di risorse ricollegabile all'espletamento di attività inutili o inefficaci.

A seguito del confronto, particolarmente critici sono risultati tutti i momenti di “contatto” tra i vari soggetti coinvolti nella procedura quali:

- la presentazione della domanda di messa alla prova all’U.e.p.e.;

- l’istanza di sospensione avanzata al giudice;

- il parere del pubblico ministero;

- la richiesta di informative alla polizia giudiziaria e agli altri enti;

- la concreta predisposizione del singolo programma.

Un motivo ulteriore di difficoltà è dato proprio dal carattere innovativo ed “atipico” dell’istituto, che chiede, all’U.e.p.e., di operare con utenti diversi da quelli su cui ha maturato una pluriennale esperienza[12] e, alla magistratura di merito, di confrontarsi sul terreno inconsueto della rieducazione e del trattamento.

Ciascun soggetto ha, dunque, evidenziato i nodi più sensibili dal proprio punto di vista:

per gli avvocati, individuare contenuti predefiniti certi della domanda, nonché avere garanzia dell’inserimento dell’istanza nell’ambito di un percorso procedurale standardizzato ed, in quanto tale, idoneo ad assicurare tempi di risposta  adeguati e prevedibili;

per l’Uepe, non essere travolti dalle richieste di informazioni e dalle domande di predisposizione di programmi, non essere costretti a predisporre programmi destinati a rimanere sulla carta ed essere supportati da magistrati ed istanti nel reperimento dei dati necessari per la predisposizione dei programmi;

per i magistrati, essere chiamati ad  esaminare richieste complete, essere in grado di prevedere i tempi di risposta dell’Uepe e, più in generale, attingere alle altrui esperienze per poter affrontare problematiche pratico-giuridiche connesse all’applicazione di un istituto estraneo al perimetro di conoscenza usualmente richiesta nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.

Sono anche emerse esigenze comuni quali:

- la predisposizione presso i diversi uffici (Uepe, Tribunale, Procura) di ‘sportelli’ o, comunque, l’individuazione di soggetti stabilmente incaricati delle mansioni connesse all’applicazione dell’istituto;

- l’approntamento di un meccanismo capace di garantire in modo costante un numero adeguato di disponibilità per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.

Individuati gli obiettivi, ci si è proposti di definire:

- gli ambiti di intervento di ciascun soggetto, risolvendo le ambiguità conseguenti ai vuoti normativi attraverso una regolamentazione articolata dei passaggi procedurali lasciati in ombra dal legislatore;

- i contenuti della domanda, la documentazione da allegare, modi e tempi di presentazione all’autorità giudiziaria e all’Uepe, specificando i compiti di ciascuno e prevedendo scansioni temporali predeterminate.

I lavori del gruppo hanno, fino ad ora, portato all’approvazione di un vademecum per l’applicazione della messa in prova nelle fasi dell’udienza dibattimentale e dell’udienza preliminare, che, dopo essere stato integrato con i suggerimenti provenienti dai magistrati penali del circondario, è stato distribuito negli uffici giudiziari torinesi e diffuso dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino con l’invito a tutti gli operatori a seguirne le indicazioni.

Peraltro i lavori del gruppo proseguono allo scopo sia di predisporre analoghe linee guida in relazione alla fase delle indagini preliminari sia di monitorare gli effetti pratici dell’applicazione del vademecum nelle fasi dell’udienza dibattimentale e dell’udienza preliminare in vista di eventuali aggiustamenti e modifiche[13]

In questa sede appare opportuno concentrare l’attenzione su alcuni dei principali snodi problematici affrontati nella predisposizione dell’iter procedimentale compendiato nel vademecum - che si allega nella versione contenente le proposte di integrazione ed alla cui lettura si rinvia - in modo da rendere comprensibili le ragioni delle scelte adottate.

1) Il principale problema pratico che la nuova normativa impone di affrontare è costituito dalla fisiologica inadeguatezza dell’Uepe a svolgere il ruolo che alcuni interpreti pretendono di attribuirgli. Si fa, ad esempio, riferimento alla ricostruzione, prospettata anche nella relazione predisposta dal massimario della Cassazione, secondo la quale l’istante dovrebbe di regola allegare alla richiesta di sospensione il programma già elaborato d’intesa con l’Uepe, con la conseguenza che il Giudice interverrebbe solo in un momento successivo.

Una simile interpretazione, sebbene non contrastante con la lettera della legge, riverserebbe sull'Uepe un numero enorme di richieste (tutte quelle avanzate da qualsiasi difensore, indagato od  imputato, anche in via meramente esplorativa), senza alcun filtro di ammissibilità e senza indicazioni sul contenuto del programma.

Tantissimi programmi da predisporre 'al buio', dunque.

Tra l’altro, l'impegno richiesto all'Uepe sarebbe tanto gravoso, quanto scarsamente  utile.

Va, infatti, considerata la complessità propria dell’elaborazione di un programma di messa alla prova: presuppone la valutazione del caso concreto, comporta contatti con l’interessato e con l’Ente presso cui svolgere il lavoro di pubblica utilità, richiede la raccolta di informazioni anche attraverso incontri con la famiglia dell’istante e con le persone offese.

A ciò si aggiunga che un numero imponente di programmi verrebbero elaborati inutilmente in quanto destinati a non avere alcun seguito, essendo prevedibile un’ampia percentuale di rigetti delle istanze da parte del giudice.

Peraltro, anche rispetto ai casi di istanza ritenuta ammissibile, il contenuto del programma predisposto dall'Uepe sarebbe comunque destinato a subire modifiche ed integrazioni.

Innanzitutto, sul contenuto del programma ha, per ragioni intuitive, un peso decisivo la sua durata, la cui determinazione è rimessa al giudice nell’ambito di una cornice temporale estremamente ampia (da 10 giorni a 2 anni), che la rende imprevedibile per l’istante e per l’Uepe (trattandosi di una probation giudiziaria e non di un caso di sostituzione di una pena già irrogata).

Inoltre, compete al giudice intervenire sul programma trattamentale indicando quelle prescrizioni facoltative rese necessarie dalla specificità del caso concreto e dalla molteplicità delle modulazioni possibili degli interventi riparatori.

In conclusione, alle prevedibili, frequenti richieste di modifiche ed integrazioni del programma conseguirebbe un ulteriore carico di lavoro per l'Uepe, che si troverebbe, a distanza di tempo ed alla luce delle indicazioni emerse a seguito della comparizione delle parti davanti al giudice, a dover riformulare buona parte dei programmi già elaborati.

Pressoché certo, dunque, che, aderendo a tale impostazione, l'Uepe si troverebbe nell’impossibilità di evadere tutte le richieste in tempi compatibili con il processo penale, con conseguente inevitabile fallimento dell'istituto.

Queste riflessioni hanno portato il gruppo di lavoro a ritenere preferibile una sequenza procedimentale caratterizzata da un’anticipazione del momento di intervento del giudice.

In particolare, si è previsto che:

- all’istanza di messa in prova presentata al giudice sia allegato non il programma, ma la sola attestazione della presentazione all’Uepe della richiesta di elaborazione dello stesso;

- il giudice, così investito dell’istanza, effettui un vaglio preliminare di ammissibilità, compia a tal fine gli atti ‘istruttori’ strettamente necessari ed infine individui, previo contatto con le parti, i contenuti minimi del programma;

- solo a questo punto l'Uepe intervenga, predisponendo i programmi richiesti dall'autorità giudiziaria sulla base delle indicazioni da questa fornite.

In definitiva, una semplice anticipazione nello svolgimento dei propri compiti da parte del giudice in un’ottica di collaborazione tra i soggetti coinvolti può garantire tempi ragionevoli di definizione della procedura di ammissione di messa alla prova, limitando l’intervento dell’Uepe all’elaborazione dei programmi effettivamente utili.

2) E’ risultata particolarmente controversa, anche all’interno del gruppo di lavoro, l’inserimento tra i contenuti minimi del programma dell’indicazione da parte del giudice della durata ritenuta prevedibile nel caso concreto del periodo di messa alla prova.

Si è, infatti, obiettato che una simile indicazione, in una fase così iniziale del procedimento, rischierebbe di risolversi in una sorta di anticipazione di giudizio, con conseguente futura incompatibilità del giudice nella prosecuzione del processo in caso di esito negativo del vaglio di ammissibilità.

Si tratta, a nostro avviso, di preoccupazioni infondate, posto che tale indicazione, formulata solo allo scopo di rendere possibile all’Uepe la elaborazione di un concreto programma trattamentale, è fondata su una valutazione “allo stato degli atti” e “non vincolante”, volta unicamente a fornire un parametro di riferimento all’Uepe, che, altrimenti, dovrebbe provare ad ‘inventarsi’ una durata del programma, avventurandosi in una prognosi che presuppone strumenti e conoscenze di cui non dispone (gravità in concreto del fatto, cornice edittale del reato ipotizzato, etc.).

D’altra parte, sono frequenti i casi in cui il giudice è chiamato ad effettuare simili valutazioni nell’ambito della stessa fase di giudizio senza, ovviamente, diventare incompatibile: basti pensare alla prognosi imposta dall’art. 275 comma 2 bis c.p.p. al giudice investito di un processo per direttissima nei confronti di un imputato in vinculis.

In ogni caso, si è, alla fine, optato per l’introduzione nel vademecum di una soluzione intermedia, che affida all’imputato l’onere di indicare al giudice, nell’ambito dell’interlocuzione svolta nel corso dell’udienza in cui presenta l’istanza, la durata del periodo in cui si rende disponibile a svolgere il lavoro di pubblica utilità.

3) Nella stessa logica di ottimizzazione delle risorse si inserisce la proposta di introdurre nel vademecum relativo alla fase delle indagini preliminari, in corso di elaborazione, un’anticipazione dell’intervento del pubblico ministero rispetto al deposito dell’istanza di messa alla prova presso l’ufficio G.I.P., introducendo una presentazione preliminare dell’istanza all’ufficio inquirente in modo che lo stesso provveda a trasmetterla al G.I.P., eventualmente dopo aver svolto gli adempimenti istruttori strettamente indispensabili, unitamente alla manifestazione di consenso o dissenso.

In caso contrario, infatti, il deposito della richiesta presso l'ufficio G.I.P. comporterebbe una doppia attività (iscrizione di un nuovo fascicolo non previamente pendente presso tale ufficio ed invio degli atti al pubblico ministero) onerosa quanto inutile nelle ipotesi (che non è azzardato prevedere numerose) di dissenso del pubblico ministero.

In proposito va ricordato che la richiesta di messa alla prova concerne quasi esclusivamente reati a citazione diretta e che, in fase di indagine, il consenso del pubblico ministero, indispensabile e vincolante per il G.I.P. (solo il giudice del dibattimento potrà, ove lo ritenga ingiustificato, ammettere successivamente l’istante alla messa alla prova), può essere negato per ragioni attinenti alle indagini.

Viceversa, il deposito delle istanze di sospensione del procedimento con messa alla prova presso gli uffici della Procura ne consente una prima scrematura, con conseguente alleggerimento dell’ufficio G.I.P., che non sarà impegnato su richieste destinate a non avere seguito, e senza che ciò neppure determini un significativo aggravio di incombenti per il pubblico ministero.

4) Il successo dell’istituto della messa alla prova, ovviamente, passa anche attraverso la disponibilità di un numero sufficientemente ampio di posti per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità.

L’esperienza torinese maturata in sede di applicazione della legge n.120/2010, di cui si è in precedenza riferito, indica un possibile percorso, utile a garantire la moltiplicazione delle convenzioni e, con essa, dei posti disponibili per coloro che aspirano ad essere messi alla prova.

Ciò dimostra ancora una volta l’importanza della collaborazione e dello scambio di informazioni tra i soggetti chiamati dal legislatore ad applicare un istituto.

Proprio dal costante confronto tra gli uffici giudiziari e gli enti convenzionati (da ultimo è stato organizzato dal Presidente del Tribunale di Torino un incontro plenario in data 9 luglio 2014) sono emerse ulteriori indicazioni utili, poi tradottesi in suggerimenti recepiti nel vademecum.

Gli Enti, infatti, hanno lamentato di incontrare difficoltà progressivamente crescenti nella propria organizzazione interna con l’aumentare dello spazio temporale intercorrente tra il momento in cui forniscono la disponibilità e quello di inizio del lavoro di pubblica utilità.

L’attesa della copertura effettiva dei posti già riservati a specifici istanti in progetti elaborati dall’Uepe può essere causa dell’alternarsi di periodi in cui nessuno presta lavoro di pubblica utilità a periodi in cui troppi soggetti dovrebbero contestualmente svolgerlo: ciò rende difficile la pianificazione interna ed induce gli Enti a fornire disponibilità inferiori alle effettive potenzialità.

Di questa esigenza si era già tenuto conto in passato in occasione dell’introduzione dell’orientamento, poi seguito nella prassi dalla quasi totalità dei giudici torinesi, di consentire nel caso di cui agli artt.186 co.9 bis e 187 co. 8 bis Codice della strada, di iniziare l’attività socialmente utile anche prima del passaggio in giudicato della sentenza[14].

In questa sede, e cioè in relazione all’applicazione del nuovo istituto della messa alla prova, si è ritenuto di superare tale inconveniente specificando nel vademecum che “non deve essere allegata alcuna disponibilità dell’Ente presso il quale svolgere il lavoro di pubblica utilità” dall’istante “in quanto l’individuazione dello stesso sarà effettuata solo al momento della formulazione del programma d’intesa con l’Uepe”.

Al soddisfacimento dell’esigenza di ottimizzare l'impiego di posti disponibili e di ridurre lo spazio temporale intercorrente tra manifestazione di disponibilità ed inizio del lavoro contribuisce anche la sopra ricordata scelta organizzativa di posticipare l’elaborazione del programma da parte dell’Uepe al previo vaglio di ammissibilità compiuto dal giudice: infatti la sequenza procedimentale ipotizzata dal gruppo di lavoro torinese fa sì che la disponibilità venga richiesta all’Ente solo quando è ormai prossimo e prevedibile l'inizio dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità.

5) Un ulteriore profilo meritevole di approfondimento riguarda l’individuazione di accorgimenti volti a prevenire il rischio che la possibilità di presentazione contemporanea di più istanze da parte del medesimo soggetto nell’ambito di procedimenti penali diversi (facoltà  non esclusa dal legislatore e comunque giustificabile, sul piano dell’interesse dell’istante, alla luce della fisiologica eventualità di un rigetto da parte dell’autorità giudiziaria) si traduca in una pluralità di ammissioni.

Il legislatore ha previsto uno strumento, consistente nell’iscrizione sul casellario giudiziario del provvedimento di ammissione alla messa in prova, la cui efficacia dipende dalla tempestività della sua attivazione.

L’importanza di tale prescrizione ha indotto il gruppo di lavoro ad introdurre nel vademecum un richiamo specifico sul punto, congiunto all’esortazione al magistrato procedente ad acquisire un certificato penale aggiornato immediatamente prima di decidere sull’ammissione dell’istanza.

Malgrado ciò, le prime applicazioni ci hanno indotto a riflettere sull’eventualità che la contemporaneità dell’attivazione delle procedure, magari presso uffici giudiziari diversi, non consenta al giudice, chiamato a pronunciarsi sulla messa in prova, di venire tempestivamente a conoscenza dell’analoga decisione assunta da altro magistrato.

Ciò premesso, allo scopo di evitare che, in simili casi, lo stesso imputato venga ammesso più di una volta, si è pensato di proporre un’integrazione del vademecum già approvato, puntando sulla collaborazione e sul generale dovere di correttezza dell’istante e, così, richiedendogli di autocertificare nell’istanza l’eventuale presentazione di altre richieste di messa alla prova, con specificazione del numero di procedimento penale e dell’autorità giudiziaria procedente.

 

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[1] Si fa riferimento, ad esempio, alle modifiche relative ai limiti massimi di pena che consentono l’applicazione della custodia cautelare in carcere (art.280 comma 2 c.p.p.), alla rideterminazione dei limiti edittali della pena per l’art.73 comma 5 Dpr 309/90, all’individuazione della pena inferiore a tre anni come ostacolo all’accesso in carcere anche a titolo di custodia cautelare (art.275 bis c.p.p.).

[2] Come meglio si illustrerà in seguito, l’esperienza torinese è stata considerata dal legislatore nella predisposizione della legge in esame.

[3]  Il lavoro di pubblica utilità era già previsto:

- dall’art. 105 della legge 689/1981 (cd depenalizzazione) come sanzione applicabile in caso di conversione della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità;

- dal decreto legge 26 aprile 1993, n. 122 convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, come pena accessoria che il giudice può applicare con la sentenza di condanna per i reati di cui al comma 6 dell’art.2 della Legge 13 dicembre 1989, n. 401 (mancata ottemperanza al divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive), nonché per la propaganda di idee o istigazione ad atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e per i delitti di cui alla legge sul genocidio;

- dall’articolo 54 del D.Lgs 28 agosto 2000 n. 274, come pena irrogabile dal giudice di pace, su richiesta dell’ imputato, in alternativa alla detenzione domiciliare;

- dall’articolo 165 c.p. come modificato dalla legge 2004 n.145, come una delle condotte cui può (nel caso di prima concessione)  o deve (nel caso di seconda concessione) essere subordinata la sospensione condizionale della pena;

- dall’articolo 73 comma 5 bis inserito dall’art. 4 bis, comma 1, lett. g), del D.L. 30 dicembre 2005 n. 272, come pena sostitutiva della reclusione e della multa nei reati in tema di sostanze stupefacenti;

- dall’articolo 224 bis del D.Lgs 285 del 1992, come modificato dalla Legge 21 febbraio 2006 n. 102, come sanzione amministrativa accessoria applicabile in caso di condanna alla pena della reclusione per un delitto colposo commesso con violazione delle norme del Codice della Strada.

[4] Le statistiche ci consegnano tre sole applicazione del lavoro di pubblica utilità da parte del giudice di pace, tutte concentrate nel 2001, e quattro casi di lavoro di pubblica utilità disposto ai sensi dell’art. 165 c.p. dalla sua introduzione (2004) all’inizio del 2010. Le convenzioni stipulate dal Tribunale di Torino si contavano sulle dita di una mano e, addirittura, nel 2010, nessuna era stata rinnovata

[5] Si apprende da uno scritto del prof. Francesco Caprioli che i risultati sono stati “sconfortanti”: sui circa 300.000 procedimenti penali di pace, la sanzione del lavoro di pubblica utilità è stata applicata nel 2005  in 43 casi, nel 2008 in 125 casi.

[6] Questi i dati scomputati per anno:

Negli ultimi mesi del 2010: 8 condannati  art. 73 dpr 309/90

Dall’  1.1.2011 al 31.12.2011:   121 condannati art.186/187 e 17 condannati art.73 dpr 309/90

Dall’ 1.1.2012 al 31.12.2012:   592 condannati art.186/187 e 12 condannati art.73 dpr 309/90

Dall’ 1.1.2013 al 31.12.2013: 1247 condannati art.186/187 e   6 condannati art. 73 dpr 309/90

Dall’1.1.2014 al 30.6.2014:   726 condannati art.186/187 e   2 condannati art. 73 dpr 309/90.

[7] Otto nei primi tre anni.

[8] I dati si riferiscono al 16 luglio 2014

[9] I responsabili delle violazioni del codice della strada sono generalmente soggetti socialmente inseriti che non ‘spaventano’ gli enti convenzionati e che “sentono” l’importanza dell’effetto estintivo del reato. Non va poi dimenticato che la restituzione del veicolo sequestrato, possibile conseguenza dell’applicazione dell’istituto, rappresenta un forte incentivo economico a ricorrere alla sanzione sostitutiva.

[10] Sinteticamente, si fa riferimento a

- la creazione di un ufficio unico, comune tra Procura e Tribunale, che funge da intermediario necessario tra ente e richiedente;

- un colloquio preventivo tra interessato ed ente;

- la facoltà dell’ente di concedere e negare la disponibilità caso per caso;

- la semplificazione delle procedure burocratiche;

- l’accentramento di tutti i controlli presso l’U.E.P.E.

- la predisposizione di un accurato “Protocollo condiviso” interno tra uffici, nel quale sono stati preventivamente e congiuntamente affrontati tutti i principali nodi che potevano porsi. Tra l’altro è stato approntato anche uno schema di ciò che il dispositivo di sentenza deve necessariamente contenere per non creare dubbi o problemi nella fase esecutiva. Ad esempio è stato previsto di considerare espressamente la possibilità che il lavoro venga espletato prima del passaggio in giudicato della sentenza e, comunque, la necessità di stabilire un termine ultimo (sul punto, vedi infra).

[11] La nuova normativa prevede opportunamente che tutte le competenze - sia in fase di predisposizione del programma sia in fase di controllo - vengano concentrate in capo all’UEPE.

Nella legge è anche stato dato il giusto risalto all’onere di attivazione a carico dell’interessato, prevedendo che questi debba allegare all’istanza un programma di trattamento elaborato d’intesa con l’UEPE, così dimostrando fin da subito la serietà delle sue intenzioni. Soltanto quando non sia stato possibile all’imputato munirsi per tempo di questo allegato, la norma consente che la richiesta sia presentata senza allegare il programma.

Pienamente condivisibile, in quanto altrettanto funzionale a rendere massima la possibilità di pratico impiego del nuovo istituto, è la formulazione testuale della legge laddove – a differenza dell’art.54 D.Leg. 74/2000 - non indica la convenzione quale presupposto indispensabile.

Ciò potrà consentire agevolmente di istaurare prassi - analoghe a quella diffusasi presso il Tribunale di Torino, ove la disciplina è stata interpretata estensivamente, introducendo il concetto di convenzione in itinere - finalizzate a rendere più semplice il reperimento di disponibilità.

Al riguardo, si era indicata come proficua soluzione proprio quella di prevedere la possibilità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità anche presso enti non convenzionati, purché in possesso dei requisiti previsti.

D’altra parte, l’assenza di una previa obbligatoria convenzione, implica la necessità di ottenere dall’ente un consenso specifico per ogni singolo caso. Il che dovrebbe consentire altresì di estendere l’ulteriore modalità operativa – che ha dato ottima prova di sé sul campo - del previo colloquio o, quantomeno, del previo coinvolgimento dell’ente nella collocazione dei vari indagati/imputati.

Infine, il disposto dell’art. 8 che –pur non indicandole come necessarie- prevede l’emissione di un regolamento del Ministero per regolare le convenzioni porta a ritenere che il sistema (che ha comunque fornito ottimi risultati, garantendo un numero minimo di disponibilità attraverso il rapporto continuativo con alcuni enti) non sia del tutto superato.

[12] Si fa riferimento al fatto che l’U.e.p.e. ha finora operato insieme alla Magistratura di Sorveglianza ed in relazione a soggetti già condannati.

[13] Si segnala, sotto quest’ultimo profilo, che le prime applicazioni hanno già suggerito l’introduzione di alcuni correttivi rispetto alla versione del vademecum pubblicata sul sito del Consiglio dell’ordine forense di Torino (sul punto vedi infra)

[14] La possibilità per l’imputato di presentarsi ed iniziare l’attività anche subito dopo la pronuncia della sentenza si ricava dal testo del comma 9 bis nella parte in cui attribuisce alternativamente al “giudice che procede” (cioè al giudice di cognizione) o al giudice dell’esecuzione la competenza a revocare la sanzione sostitutiva in caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di p.u.. Tale attribuzione al giudice procedente, infatti, implica necessariamente che la sanzione sostitutiva possa venire eseguita anche prima della conclusione della fase di cognizione (e, dunque, in pendenza di ricorso per cassazione avverso la sentenza). 

Si riporta, di seguito, uno stralcio di un modello di dispositivo relativo a tale previsione

Visto l’art. 186 comma 9 bis D.lvo 285/92,

sostituisce la pena così come sopra determinata con quella della prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, da svolgere presso …, sita in .. per la durata di …, corrispondenti rispettivamente a … ore pari a complessive ore …,  nei giorni di … per una durata di 2 ore ogni volta o comunque secondo il calendario che sarà indicato dall’ente, sentito il condannato, compatibilmente alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute di quest’ultimo e comunicato a cura dell’imputato e dall’ente convenzionato all’UEPE di Torino e alla cancelleria di questo giudice per il conseguente inserimento nel fascicolo processuale

Invita l’imputato a presentarsi presso l’ente indicato nel termine massimo di mesi due dalla data del passaggio in giudicato della presente sentenza e comunque ad iniziare la citata attività lavorativa in un periodo compreso tra il lunedì successivo alla pronuncia della presente sentenza e il termine ultimo di mesi quattro dalla data del passaggio in giudicato della presente sentenza.

 

17/10/2014
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