E’ intuitivo che le norme di diritto sostanziale esprimono scelte valoriali. La latitudine della famiglia come istituto giuridico, i limiti sociali imponibili alla proprietà, la facoltà del recesso datoriale e le conseguenze in caso di illegittimità – per fare esempi sensibili – alimentano dibattiti che hanno attraversato le generazioni.
E’ meno vistoso che il fenomeno riguarda pure le norme processuali, ma è altrettanto vero. Lo abbiamo appena sentito, con ampiezza di spunti di riflessione, grazie alla bella disamina di Rita Sanlorenzo[1] sulla nascita del rito del lavoro, che è stata uno dei risultati normativi di un periodo politico improntato all’attuazione degli articoli fondamentali della Costituzione, mentre sino agli anni ’70 il legislatore ordinario si era quasi del tutto sottratto a tale dovere istituzionale.
La stessa esistenza di una pluralità di riti civili – prima e dopo il d.lgs. n. 150 del 2011, che avrebbe dovuto sfoltire e semplificare il quadro, ma non è andata proprio così – prova l’intenzione di favorire l’emersione e di garantire la tutela di alcuni diritti piuttosto che di altri.
Non intendo affermare che vi sono riti significativamente sbilanciati nella struttura del processo, nel senso di avvantaggiare una parte a discapito dell’altra. Mi limito a rilevare che vi sono riti dedicati alla realizzazione di diritti nominati, la cui vigenza di sicuro soddisfa l’interesse collettivo alla sollecita attuazione delle situazioni soggettive legittimate a valersene, ma, insieme e ineludibilmente, fornisce a classi di consociati, portatori dei diritti abilitanti, strumenti processuali che sono preclusi alla generalità dei potenziali utenti del servizio giustizia.
Senonché, allo stesso modo che nella materia sostanziale, la configurazione e l’introduzione di un rito speciale non bastano ad assicurare il risultato verso il quale il legislatore intende indirizzare l’esercizio della giurisdizione.
Questo perché i frutti dell’interpretazione giudiziaria sono prodotti, almeno in parte, stagionali. Nonostante la tecnica rimanga uguale e la procedura sia la stessa, il sentire sociale del momento ne condiziona la maturazione, influenzando sensibilmente il significato che viene attribuito alle norme. Detto meglio: la «ricerca» della «più adeguata disciplina» «si concretizza … in una invenzione, che è un procedimento contrario a quello sillogistico», coinvolgendo «soprattutto qualità di intuizione percezione comprensione, tutte segnate sul piano assiologico[2]».
L’effetto consiste in una relativa mutevolezza del novero delle posizioni soggettive che in concreto risultano riconosciute; ma possono anche aversi variazioni sotto il profilo del tipo e dell’intensità della tutela accordata. Queste oscillazioni sono fisiologiche, perché «la legge, essendo sempre quale interpretata, non esiste affatto al di fuori delle interpretazioni che sempre la integrano e la ricreano[3]».
«Tuttavia, le differenti delimitazioni in via ermeneutica del campo di operatività delle norme», sia sostanziali sia processuali, «hanno una diversa incidenza, individuale e collettiva, secondo la materia e i destinatari delle sentenze. Se si tratta di soggetti in difficoltà economica o bisognosi, come sovente sono i lavoratori subordinati e i richiedenti delle prestazioni previdenziali e assistenziali, le contrazioni possono risultare molto afflittive; per di più, ciò può avvenire in un rilevante numero di casi, sino a interessare categorie di persone, a causa del carattere ripetitivo di alcune basilari componenti dei contenziosi».
«Pertanto, è esigibile che l’interprete si faccia carico pure di tali caratteristiche delle fattispecie litigiose, così rimanendo nel solco indicato dalla stessa vigenza vuoi delle disposizioni sostanziali di favore vuoi dei riti dedicati»[4].
Si registrano, invece, plurimi segnali, pure nel governo giurisprudenziale del rito del lavoro, significativi di un approccio – è la mia opinione – scarsamente consapevole delle peculiarità delle materie dedotte in lite; con la conseguenza negativa della ricrescita di un formalismo che è insidioso, in quanto non è sbagliato in sé, ma si rivela involutivo sul versante degli approdi decisionali, cioè delle sentenze.
In altre parole, anche i giudici del lavoro, talvolta, o sovente (non so), si comportano come meri preposti alla direzione del traffico delle deduzioni attoree e delle eccezioni del convenuto, senza l’impegno della ricerca, logico-giuridica e probatoria, indispensabile alla piena chiarificazione dei fatti e, di riflesso, all’emersione dei diritti nel processo – beninteso – ove esistenti e meritevoli.
Ho volutamente parlato di una scarsa consapevolezza del giudice, ma la franchezza impone di ipotizzare, in coerenza con le premesse di questo intervento, che possa trattarsi di una scelta di campo di tipo valoriale.
Come dicevo, non sono in grado di quantificare questi fenomeni inappaganti, rispetto ai casi in cui la spesa delle energie del giudice è commisurata al suo alto ruolo istituzionale; però, ho imparato a riconoscerli, quale componente di un collegio di appello. A riprova di quanto è importante l’apporto individuale della persona del giudice.
Per dare contezza dell’andamento instabile della giurisprudenza lavoristica, in particolare, nell’applicazione delle norme processuali, riferisco di una sola questione tecnica, derivante dall’esistenza in seno al rito ex lege 533/73 di contraddizioni e persino di conflitti, che sono un terreno in cui è difficile coltivare l’univocità delle interpretazioni.
E’ emblematica la dicotomia secondo la provenienza dell’impulso per la raccolta dei riscontri probatori, fra le controversie nelle quali l’iniziativa delle parti condizioni ed esaurisca l’attività istruttoria, sicché la decisione dipende dalla concreta attuazione del principio dispositivo, e le controversie in cui si verifica anche il fenomeno processuale, peculiare del rito del lavoro e previdenziale, che consiste nell’acquisizione di ulteriori elementi di valutazione su ordine del giudice, ai sensi dell’art. 421, in particolare, 2° comma, c.p.c.
E’ disponibile un’ampia gamma di studi e approfondimenti dedicati all’intervento officioso del giudice del lavoro e previdenziale sulle prove[5], grazie ai quali sono stati compiutamente indagati e chiariti lo scopo della disciplina, il tasso di discrezionalità, i limiti, il momento dell’intervento rispetto alla maturazione delle preclusioni, le caratteristiche del provvedimento che lo dispone, etc.
Secondo le Sezioni Unite, «è caratteristica precipua del detto rito speciale il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione»[6].
Così delineato l’istituto processuale in rassegna, alla stregua di una lezione che rimane tuttora insuperata e solida[7], un caposaldo è che la fondazione del rito speciale del lavoro nel 1973 tenne presente e assecondò la «tendenza evolutiva diretta ad accentuare il carattere razionale del processo civile moderno» mediante – si legge in un commento assai tempestivo – «la scelta politica di fondo di un processo dominato dal principio inquisitorio quanto all’acquisizione dei mezzi di prova relativi ai fatti allegati dalle parti»[8].
In seguito questa diagnosi si è stemperata, in sede dottrinale, sul presupposto della funzione complementare dell’art. 421 c.p.c.[9], e soprattutto in ambito giurisprudenziale, perché, fermo il principio che la norma speciale configura «un potere dovere del cui esercizio o mancato esercizio il giudice è tenuto a dar conto, tuttavia, per idoneamente censurare in sede di ricorso per cassazione l'inesistenza o la lacunosità della motivazione sul punto della mancata attivazione di tali poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato l'esercizio, in quanto diversamente si introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di merito»[10].
Nonostante l’attenuazione, rimane vera e manifesta la matrice politica della consentita ingerenza del giudice del lavoro nel gioco processuale fra i litiganti, dei quali è il lavoratore, l’assicurato, l’assistibile che normalmente assumono la veste di attore/ricorrente e, quindi, sono tenuti per primi a fornire le prove del loro assunto e sono più esposti all’effetto negativo dell’eventuale inottemperanza a tale onere.
«Se si tiene conto della valenza in concreto che l’esercizio dei poteri istruttori di solito assume per tal via, è chiaro che il giudice interveniente deve essere motivato ad affrontare e a sostenere il disagio, se non il sospetto, di apparire vicino alla posizione della parte» attrice, «prevedibilmente ausiliata dalle prove aggiuntive. In altre parole e più esplicite, il giudice che applica l’art. 421 c.p.c. è un giudice sensibile ai diritti del lavoratori subordinati, dei cassintegrati, dei pensionati, degli invalidi»[11]; ma non mi sembra che il sentire comune, negli ultimi dieci, venti e più anni sia andato in questa direzione.
Sicuramente la normativa sostanziale di tutela si è spostata nella direzione opposta. E questo ha inciso sulla cultura giuridica – a mio parere, in senso regressivo, come indicano alcuni altri segnali rintracciabili in questo scritto – che non è soltanto tecnica. Invero, «… il processo non è pura tecnica e la sua conoscenza non si esaurisce nella cultura tecnica. La tecnica serve a fabbricare lo strumento processuale, mentre l’ideologia determina gli scopi che il processo dovrebbe conseguire. Entrambe sono congiuntamente necessarie e disgiuntamente insufficienti: la tecnica senza l’ideologia è vuota, mentre l’ideologia senza la tecnica è impotente»[12].
Si consideri pure che l’eventuale acquisizione di prove ulteriori – dopo che si sia esaurita la spinta probatoria delle parti, sicché la causa già potrebbe essere definita – prolunga la durata del processo, mentre la prescrizione ormai costituzionalizzata e tutti i dettami gestionali impongono di pervenire sollecitamente a sentenza.
Pertanto, non mi sorprende il depotenziamento dell’art. 421 c.p.c. che traspare dalle applicazioni recenti, orientate verso un utilizzo della disposizione speciale essenzialmente in funzione agevolatoria di verifiche istruttorie che sarebbero comunque consentite, senza comminatoria di nullità.
Nei repertori si rinvengono casi concernenti: il CCNL applicabile[13] (che è una fonte normativa di generale conoscibilità, ancorché negoziale), il requisito dimensionale ai fini della tutela reale[14] (al riscontro del quale può pervenirsi in vario modo: non contestazione, presunzioni), la consulenza medico-legale[15] (sempre nella disponibilità del giudice che ne ravvisi la necessità), la riformulazione ex novo delle prove testimoniali[16] (al fine di regolarizzarne i capitoli in conformità all’art. 244 c.p.c., risultato cui il giudice può pervenire ex se mediante un’ordinanza selettiva).
L’attuazione più rilevante, basata sulla versione normativa del potere istruttorio officioso contenuta nell’art. 437, in particolare, 2° comma, c.p.c., risulta quella che abilita l’acquisizione di nuovi documenti in appello; ma al riguardo non c’è concordia, perché tale deroga al divieto dei nova in sede di gravame alcune volte è ammessa (anche con motivazione implicita)[17] e altre negata[18].
Non basterebbe il triplo del tempo che ho a disposizione per fare soltanto l’inventario delle difficoltà, degli imbarazzi e persino dei travagli, nonché dei pregi e degli errori, che possono caratterizzare l’attività accertativa e decisionale dei giudici di merito nel divenire inarrestabile della cultura e della politica; in particolare, dei giudici investiti della cognizione circa i diritti primari e talvolta i bisogni dedotti nelle controversie lavoristiche, previdenziali e assistenziali.
Bisognerebbe, infatti, declinare le evocazioni della traccia mediante numerosi distinguo, procedendo con un metodo non dottrinale e classificatorio degli istituti del processo, ma casistico e pragmaticamente desunto dall’esperienza giudiziaria.
Ritornando al tema generale, ho parlato sinora di processo del lavoro come se si trattasse di un monolito, ma non è così, perché sono più d’uno i riti che attendono alla gestione giudiziaria delle materie riconducibili agli artt. 409 e 442 c.p.c.
Una bipartizione è genetica, perché al vero e proprio processo del lavoro si affianca sin dal 1973 quello che – forse in un impeto di creatività – ho definito processo previdenziale, sforzandomi poi di delinearne i contorni[19].
Mi riferisco alle «controversie in materia di previdenza e di assistenza», sia «obbligatorie» (art. 442, 1° co., c.p.c.) sia derivanti da «contratti e accordi collettivi» (art. 442, 2° co., c.p.c.), alle quali si applicano le specifiche disposizioni e regole che stanno innanzitutto nei sei articoli da 443 a 447 c.p.c. e negli articoli da 144 ter a 152 bis disp. att. c.p.c., nonché in molte leggi speciali di comparto.
Il rapporto fra il processo civile ordinario e il processo del lavoro si qualifica in termini di specialità. Configurando un'ulteriore derivazione, in particolare, rispetto al processo del lavoro, le disposizioni e le regole specifiche del processo previdenziale partecipano di una specialità – per così dire – di secondo livello.
Nel processo previdenziale si verificano variazioni di diversa entità delle regole processuali da applicare in concreto. Ciò avviene soprattutto per l’esistenza di disposizioni specifiche concernenti, in particolare, le procedure conciliative ante causam, la competenza per territorio, il trattamento degli accessori sul capitale e il regime differenziato delle spese processuali.
Anche sul piano dell’accertamento del fatto, più peculiarità connotano le controversie previdenziali: per esempio, un forte condizionamento subiscono mezzi di prova come l’interrogatorio formale e la confessione; la prova documentale di certi fatti è vincolata (la consistenza del montante contributivo, l’interpello dell’ente gestore mediante l’istanza amministrativa, l’iscrizione negli elenchi bracciantili, etc.); nelle cause in tema di contribuzione entrano in gioco i verbali ispettivi; etc.
D’altro canto, la riforma del 1973, da un lato, non ha toccato la vigenza del procedimento bifasico, ex art. 28 dello Statuto, finalizzato alla repressione della condotta antisindacale; dall’altro, è compatibile con la pronuncia dei provvedimenti d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c.
In seguito, piuttosto che ritoccare l’impianto codicistico configurato con la novella ex lege n. 533, il legislatore ha preferito disporre, sul versante delle regole processuali, ulteriori scorpori in seno alle materie lavoristica e previdenziale.
Questa opzione – già attuata mediante l’introduzione dei riti antidiscriminatori (cfr. art. 44 d.lgs. 286/98, art. 4 d.lgs. 215/03, art. 4 d.lgs. 216/03, art. 3 l. 27/06, art. 55 quinquies d.lgs. 98/06) poi confluiti nel rito sommario di cognizione per volontà dell’art. 28 d.lgs. 150/11 – ha assunto una dimensione vistosa nell’anno 2012:
- in gennaio, è entrato in vigore il procedimento per accertamento tecnico preventivo (atp) ex art. 445 bis c.p.c. (introdotto dall’art. 38 d.l. n. 98 del 2011), per effetto del quale la trattazione della maggior parte del contenzioso di invalidità, civile e in regime assicurativo, è stata consegnata a un procedimento tipico, nella competenza del giudice previdenziale, innovativo; un ‹‹procedimento giurisdizionale sommario … a carattere contenzioso[20]››, che impone un ‹‹atto d’istruzione preventiva[21]›› come ‹‹condizione di procedibilità[22]›› della domanda di merito;
- in giugno, i commi da 47 a 68 dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012, c.d. Legge Fornero, hanno introdotto una differente disciplina processuale per la trattazione delle controversie «aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro».
Queste sono state modifiche legislative importanti sul terreno del processo in materia di lavoro e previdenziale, sia perché entrambe hanno interessato settori in cui è elevata la rilevanza sociale delle questioni, sia perché l’atp di cui all’art. 445 bis c.p.c. ha una notevole incidenza statistica sul contenzioso.
Quanto agli effetti sortiti da tali riforme, può forse dirsi conseguita la finalità, dichiarata nell’incipit dell’art. 38 d.l. n. 98 del 2011, di «deflazionare il contenzioso in materia previdenziale» e «di contenere la durata dei processi in materia previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processi, previsti ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; mentre la sorte del c.d. rito Fornero è stato l’accantonamento, pochi anni dopo, per effetto dell’art. 11 d.lgs. n. 23 del 2015 c.d. Jobs act, sicchè è legittimo dubitare della sensatezza della novella processuale del 2012 in materia di licenziamenti.
Una riflessione che vorrei aggiungere al riguardo, prendendo qualche rischio, è che le riforme del 2012, probabilmente, hanno compromesso la relativa armonicità dell’assetto precedente, nel quale era più agevole per il giudice del lavoro cogliere e interpretare bene il suo compito di tutore giurisdizionale di interessi primari e di bisogni esistenziali.
Quanto all’atp previdenziale, non ha giovato alla conservazione di tale necessaria consapevolezza la lunga discussione sui poteri cognitivi del giudice, che si occupa soltanto di un frammento delle fattispecie concernenti l’invalidità civile e assicurativa (il requisito sanitario), in un intermezzo giudiziario tra una fase amministrativa antecedente e una successiva, con potestà di soltanto delibare l’eventuale mancanza palese di altri elementi costitutivi del diritto. Non è passata la prima tesi dell’automatica predisposizione della consulenza tecnica, ma credo sia oggettivamente visibile che una certa notarizzazione del ruolo giurisdizionale l’atp previdenziale l’abbia apportata.
Il rito c.d. Fornero è più macchinoso (fase iniziale, giudizio di opposizione e reclamo) e meno rigoroso nel regime delle preclusioni rispetto al rito del lavoro ex lege 533/73, per cui ha forse complicato il percorso processuale di chi domanda (il lavoratore licenziato) e moltiplicato e ampliato le occasioni e le forme della difesa del convenuto (il datore di lavoro recedente). Il rito c.d. Fornero, pertanto, risulta stancante e difficile da sostenere per il lavoratore, il quale, per di più, nella maggioranza dei casi, sa che il processo non garantisce una tutela piena del diritto di conservare il posto e il reddito, se infine risulti illegittima l’estromissione dall’azienda, ma porta soltanto un ristoro di tipo economico.
Combinandosi fra loro, questi elementi comportano che la controversia sovente non arriva alla conclusione naturale, che è la sentenza, ma si conclude prima mediante una conciliazione, sovente, vantaggiosa per l’azienda piuttosto che per il lavoratore.
Ritornando al ruolo del giudice, questi pilota la negoziazione e così finisce con il leggere la vicenda con attenzione alla modalità mercantile immanente alle trattative che precedono la stipula della transazione. Non so se abbiamo guadagnato in tempistica e smaltimenti, ma a me sembra che il giudice del lavoro abbia perduto, quanto meno, in consapevolezza del ruolo, se non anche in autorevolezza.
Leggo nei documenti da ultimo approntati in sede ANM che le riforme del 2012 avrebbero prodotto l’effetto di una «valorizzazione del ruolo del giudice», ma, per quello che ho detto, non condivido questa valutazione (della quale, peraltro, non ho compreso la motivazione).
Circa la probabilità che una mutazione si sia verificata, bisogna considerare anche il ricambio generazionale fra i giuristi e, in particolare, fra i giudici; un fenomeno naturale e sempre benvenuto, ma connotato ordinariamente da una certa difficoltà di trasmettere le scelte valoriali fondanti; difficoltà che si accresce se le nuove leve maturano ed esordiscono nella vigenza di ambienti normativi configurati all’insegna di una sensibile riduzione della potestà giurisdizionale.
Un altro aspetto da rimarcare è quello, ancora attuale, consistente nella normativa speciale derogatoria elaborata per fronteggiare l’epidemia da Covid.
Ho sostenuto da subito e continuo a essere convinto che, in particolare, la trattazione scritta ai sensi dell’art. 83, 7° comma, lett. h, d.l. 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. cura Italia), dovesse essere applicata anche al rito del lavoro.
Non poteva non prevalere l’eccezionalità della fase storica dominata dalla pandemia, con l’effetto di considerare la disciplina emergenziale: 1) legittima, perché mirata a salvaguardare un bene primario di rango costituzionale come è la salute; perché promulgata mediante una legge generale dello Stato; perché temporanea; 2) derogatoria, rispetto alla normativa processuale applicabile in precedenza, che veniva così proporzionalmente disattivata pro tempore; 3) idonea a salvaguardare il contraddittorio, che è irrinunciabile, mentre l’oralità costituisce una caratteristica non essenziale.
L’esigenza di diradamento sociale, sottesa alla disciplina emergenziale, imponeva modifiche a tutti i riti civili e persino al processo penale, che è sicuramente il prototipo dell’oralità; per cui non poteva trovare giustificazione una lettura che sottraesse una classe di utenti del servizio giustizia alla protezione collettiva perseguita dal legislatore.
Ciò ribadito e confermato, era e rimane oggettivamente vero che il rito del lavoro, fra i tipi del processo civile, è quello che, rinunciando di regola all’oralità della discussione conclusiva, tende a perdere una sua caratteristica qualificante. Ne deriva un’ulteriore amplificazione del fenomeno omologativo del rito ex lege 533/73, che è il tema di questo intervento – confesso a questo punto – preoccupato.
Da più parti si propugna di conservare, anche dopo il superamento della pandemia, sia la trattazione cartolare sia la trattazione in video collegamento, ma – condividendo le perplessità che già si sono manifestate nel dibattito – considero entrambe tali forme processuali, quanto alla materia del lavoro e previdenziale/assistenziale, come il portato di una necessità non diversamente resistibile; al cui superamento potrebbe accompagnarsi il ritorno a modalità di trattazione e di discussione sicuramente più idonee a consentire l’effettività dell’interlocuzione personale fra i soggetti del processo; quindi, una migliore comprensione dei fatti e delle tesi; in definitiva, pronunce più – c’è un aggettivo fuori lessico cui non so resistere – «rotonde».
In disparte: (a) l’oggettiva compatibilità dei video-collegamenti con la chiamata – diciamo – di cinque o, al massimo, forse, dieci controversie per udienza, mentre la regola, in moltissimi uffici giudiziari, contempla un moltiplicatore fra 5 e 10, se non maggiore; (b) che udienze miste, cioè in parte con la presenza in aula per alcune cause, in parte cartolari per altre cause e in parte in video-collegamento per altre cause, sarebbero ingestibili e, comunque, aumenterebbero il rischio correlato a possibili violazioni del contradditorio e della difesa; (c) che un collegio di appello in video-collegamento comporta problemi tecnici aggiuntivi; (d) quello che ho già segnalato sui limiti della trattazione cartolare applicata alla materia lavoristica.
Ricordo che il rito del lavoro è nato come un processo che attribuisce un peculiare significato alla presenza fisica del giudice, il quale – segnalo emblematicamente – può accedere al luogo di lavoro e può disporre che ivi avvenga l’audizione dei testimoni (art. 421, 3° co., c.p.c.), se questo impegno supplementare sia «necessario al fine dell’accertamento dei fatti».
Nel sistema del processo ex lege 533/73, le conciliazioni sono valide soltanto se vengono siglate dinanzi al giudice oppure in sede sindacale, non ritenendosi garantita, altrimenti, la tutela della parte più debole, che è il lavoratore.
Nessun problema, quindi, a incentivare stabilmente il deposito in via telematica di tutti gli atti del processo, sia delle parti, sia del CTU, sia del giudice; ma sarei cauto, una volta superato lo stato di bisogno collettivo indotto dall’emergenza epidemiologica, nel considerare il dissolvimento dell’udienza soltanto come una questione risolvibile con la tecnica del computer.
Riproponendo un frasario – in parte non originale – che ho già utilizzato in un’altra occasione di confronto, concludo con l’avvertenza – un po’ antica e me ne scuso – che i diritti non stanno nel processo come i prodotti a vista sugli scaffali di un supermercato: bisogna cercarli. E l’esperienza giudiziaria suggerisce che l’attività di selezione, ammissione e acquisizione delle prove – per quelle costituende, il c.d. espletamento, come scriviamo nelle sentenze – nonché di valutazione delle risultanze istruttorie, può rappresentare la componente del processo più difficile e faticosa.
E’ una necessità ineludibile che il sistema processuale sia dotato di un criterio idoneo a rendere comunque una pronuncia, ma, come giudice di merito del lavoro, previdenziale e assistenziale, dichiaro la mia avversione per il rigetto della domanda – del lavoratore, dell’assicurato, dell’assistibile – basato sul principio decisionale dell’onere della prova. Credo che il giudice di merito del lavoro debba compiere ogni sforzo consentito, prima di alzare le spalle, a fronte di rivendicazioni portate da un’utenza che la precarizzazione strutturale e la crisi economica hanno ulteriormente indebolito.
Soprattutto bisogna evitare che la lusinga di un metodo conforme a legge per esitare (ma ormai si dice smaltire) comunque la controversia (una pendenza, dal punto di vista dei numeri dell’ufficio giudiziario, magari risalente) faccia calare l’attenzione verso vicende litigiose che possono presentare difficoltà processuali sproporzionate rispetto alla modesta entità economica del bene in contestazione, ma sono soggettivamente e socialmente di rilievo costituzionale.
[1] https://www.editorialedomani.it/autore/rita-sanlorenzo-bb02xfjt
[2] P. Grossi, La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2017, 831.
[3] L. Lombardi Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, 501.
[4] S.L. Gentile, L’identità della normativa previdenziale e assistenziale alla prova dell’interpretazione omologatrice, in Foro it., 2021, V, 26.
[5] G. Trisorio Liuzzi, La riforma del c.p.c. - Art. 421 e 429, in Nuove leggi civ., 2010, 1036; G. Vidiri, Poteri istruttori del giudice del lavoro nel processo civile rinnovato, in Giust. civ., 2010, 2, 147; S. L. Gentile, I poteri istruttori del giudice del lavoro, in Giur. merito, 2009, supplem. vol XLI, 102; G. Massetani, Prove indispensabili e prove necessarie. i poteri del giudice, in Foro it., 2009, I, 2093; P. Lambertucci, Poteri istruttori del giudice nel rito del lavoro, in Giust. civ., 1990, 554.
[6] Cass., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353.
[7] Cfr. Cass. 6 ottobre 2016, n. 20055.
[8] A. Proto Pisani (G. Pezzano, C. M. Barone, V. Andrioli), Le controversie in materia di lavoro, Zanichelli, Bologna, 1974, 309.
[9] Nel senso che nel rito del lavoro ha mantenuto «vigore la regola di giudizio fondata sull’onere della prova»: G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Giuffrè, Milano, 1980, 39.
[10] Cass. 31 luglio 2014, n. 17470; v. anche R. Bolognesi, Il prudente esercizio dei poteri istruttori officiosi da parte del giudice del lavoro, in Judicium, 2014.
[11] S.L. Gentile, Le regole probatorie per l’accertamento del fatto nel processo del lavoro tra effettività e deflazione, in Lavoro giur., 2018, 1113.
[12] M. Taruffo, Cultura e processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, 71.
[13] Cass. 14 marzo 2017, n. 6610.
[14] Cass. 23 maggio 2017, n. 12907.
[15] Cass. 7 maggio 2017, n. 14197.
[16] Cass. 5 ottobre 2016, n. 19915.
[17] Cass. 8 novembre 2016, n. 22630.
[18] Cass. 21 novembre 2016, n. 23652, che ha vietato all’INPS la produzione in appello di un atto interruttivo della prescrizione, nonostante la relativa controeccezione fosse stata sollevata in primo grado dall’ente previdenziale.
[19] S.L. Gentile, Il processo previdenziale, Milano, 2015.
[20] Corte cost. 28 ottobre 2014, n. 243.
[21] Cass. 7 ottobre 2020, n. 21535, che, muovendo da tale qualificazione, ha escluso che al difensore, in particolare, dell’assistibile, possa liquidarsi il compenso professionale in base ai criteri dettati per i giudizi ordinari o sommari davanti al tribunale.
[22] Sancisce il 2° comma dell’art. 445 bis c.p.c.; quindi, non condizione di proponibilità.
Il testo riproduce la relazione svolta al seminario organizzato da Questione giustizia e da Magistratura democratica, “Il nocchiere… in gran tempesta”: il giudice e la giustizia del lavoro fra testo normativo e contesto culturale, 14 maggio 2021, la cui registrazione si trova in https://www.radioradicale.it/scheda/636765/il-nocchiere-in-gran-tempesta-il-giudice-e-la-giustizia-del-lavoro-fra-testo-normativo