1. La decisione
Con il decreto emesso ai sensi dell’art. 37 del d.lgs. n. 198 del 2006 su un ricorso proposto in via d’urgenza il Tribunale di Bologna ha accolto la domanda svolta dalla Consigliera Regionale di Parità per la Regione Emilia Romagna, la quale lamentava che la società LIS Group, appaltatrice di un servizio di movimentazione di capi di abbigliamento per la vendita on line presso un magazzino logistico di proprietà dell’impresa appaltante, avesse posto in essere un comportamento discriminatorio di carattere collettivo nei confronti in particolare di dipendenti con mansioni di “addette al magazzino”, per essere state destinate ad un turno lavorativo non più con fascia oraria “centrale” dalle 8.30 alle 17.30, bensì a due turni alternanti, con fasce orarie il primo dalle 5.30 alle 13.30, il secondo dalle 14.30 alle 22.30.
La Consigliera ricorrente aveva illustrato come tale turnazione, in un primo periodo indicata dalla datrice di lavoro come temporanea, era di fatto divenuta definitiva, a nulla essendo approdati gli incontri sindacali tra la società e le OOSS per trovare una idonea soluzione del problema. Era stata quindi dedotta una discriminazione di natura indiretta, con la richiesta al Tribunale di accertarne la sussistenza e di rimuoverne gli effetti, in particolare ordinando alla società la cessazione della condotta illegittima, nonché la definizione di un piano di rimozione degli effetti, che la giudice ha individuato, in linee generali, nell’attribuzione alle lavoratrici madri con figli in tenera età – fino a 12 anni - di un unico turno centrale o a scorrimento, nei limiti della capienza massima dei locali aziendali, con le limitazioni compatibili con la funzionalità aziendale, in ragione anche delle eventuali limitazioni dovute all’emergenza sanitaria covid.
Il provvedimento, ricostruita la vicenda, affronta e risolve le varie questioni in causa, scaturite prevalentemente dalle eccezioni sollevate dalla società convenuta, offrendo un convincente quadro interpretativo sul tema in discussione.
Siamo in presenza, come prima precisato, di una controversia agita in giudizio dalla Consigliera di Parità secondo la procedura d’urgenza definita dall’art. 37 co. 4 d.lgs. n. 198 prima citato, che consente la promozione di un’azione collettiva, in rappresentanza e difesa di più lavoratori che, nel caso in esame, avevano lamentato una discriminazione indiretta. Il Tribunale, superando le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla convenuta per mancata attualità della condotta, ha ritenuto sussistere il carattere di urgenza, escludendo che la situazione pandemica covid, pur avendo imposto presenze limitate di lavoratori in servizio, avesse alcuna correlazione con l’abolizione del turno unico centrale e la predisposizione dei due turni distinti, risalendo tale diversa organizzazione a disposizioni antecedenti che rispondevano di fatto a ragioni di modifiche organizzative di carattere permanente, che la società intendeva comunque perseguire.
La vicenda giudiziale aveva avuto una pregressa fase di consultazione sindacale, conclusasi nel marzo 2021 con due accordi aziendali tra la società e CGIL, CISL e UIL finalizzati a trovare uno sbocco positivo della questione dei turni avvicendati, esito non raggiunto appieno, rimanendo di fatto inalterato l’estremo disagio delle dipendenti con prole di età sino ai 12 anni, tenute comunque ad osservare turni spezzati ed avvicendati.
Richiamando l’art.25 del d.lgs. n. 198 del 2006 che regolamenta la discriminazione diretta ed indiretta (nel testo in vigore prima delle modifiche apportate dalla recente legge n.162 del 2021), la sentenza definisce discriminazione indiretta di carattere collettivo la disposizione aziendale che disciplina i turni di lavoro, perché non pone divieti a determinati dipendenti, né esclude alcuni di essi ma applica appunto indistintamente a tutti l’identico orario su due turni spezzati, oltre che a turnazione, utilizzando quindi una disposizione apparentemente neutra, ma che in concreto può mettere alcuni lavoratori o lavoratrici in una “posizione di particolare svantaggio” rendendo gravosa, se non addirittura per alcuni di fatto impraticabile, la cura dei figli minori; ciò proprio in orari in cui la presenza del genitore è particolarmente necessaria, per impossibilità o estrema difficoltà di demandarne ad altri la cura.
E il provvedimento in esame tiene conto proprio della caratteristica tipica delle discriminazioni indirette: la potenzialità della disposizione datoriale di mettere alcuni dipendenti in posizione di “particolare svantaggio”, nonostante l’apparente parità di trattamento nei confronti di tutti.
Come è stato infatti osservato, nella discriminazione indiretta il pregiudizio non deve necessariamente essersi già realizzato, in quanto ciò che va dimostrato non è il pregiudizio concreto sofferto, ma quello potenzialmente verificabile, così che la comparazione può operarsi anche in astratto[1].
Quanto al fattore discriminatorio, di cui si dirà successivamente, il provvedimento aggiunge poi al fattore sesso (o comunque di genere) quello previsto dal comma 2 bis dell’art.25 del d.lgs. n.198/ 2006 relativo alla maternità o paternità.
In punto di onere probatorio il Tribunale richiama la più recente regola prevista dall’art. 28 del d.lgs. n. 150/ 2011, relativo alle controversie in materia di discriminazione, che prevede per il ricorrente un c.d. "alleggerimento probatorio” disponendo che, in presenza di elementi di fatto desunti anche in base a dati statistici, vi sia l’inversione dell’onere probatorio a carico del soggetto convenuto che pone in essere la discriminazione.
All’accertamento della discriminazione e all’ordine di cessazione della condotta pregiudizievole, il Tribunale fa seguire altresì il richiesto ordine di definizione di un piano di rimozione da realizzare nel termine di tre mesi, con audizione sia delle rappresentanze sindacali aziendali e sia della consigliera di parità.
Come spesso accade per le questioni che hanno ad oggetto condotte discriminatorie, la decisione risente della relativa non organicità della normativa che regola questa fattispecie, la cui disciplina legislativa si è stratificata negli anni, anche in ragione della normativa europea che ne costituisce in buona parte l’architrave.
Ed infatti mentre la definizione di discriminazione indiretta, nel solco dell’ultimo arresto della Cassazione con la sentenza n.21801 del 2021 è certamente ineccepibile, non del tutto appropriato risulta il richiamo alla disciplina dell’onere probatorio adottata, che il Tribunale rinviene nell’ art. 28 co. 4 del d.lgs. n.150/2011, dove si valorizza in particolare il criterio statistico.
La norma, che applica la formula di un netto alleggerimento probatorio in capo alla parte denunciante, liberandosi finalmente da ogni richiamo al regime delle presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c., avrebbe dovuto riferirsi ad ogni procedimento avente ad oggetto le condotte discriminatorie. Tuttavia questa, sacrosanta, riunificazione sotto l’unico identico rito – sommario di cognizione - di tutti i giudizi in tema di discriminazioni, ha escluso proprio quelle previste dal d.lgs. n.198/2006 (con la sola espressa eccezione per le discriminazioni di cui all’art. 55-quinquies in tema di accesso a beni, servizi e loro fornitura), in cui ricade la fattispecie esame, che rimane paradossalmente ancora assoggettata alla distribuzione dell’onere probatorio sancito dall’art.40 del citato d.lgs. n.198/2006, dove si adotta una tecnica probatoria che richiama in parte ancora il regime, più gravoso, delle presunzioni semplici, richiedendone «la precisione e la concordanza».
Nell’art. 28 del citato d.lgs. n.150 non sono infatti richiamate le controversie di cui agli artt. 36 - 41 bis d.lgs. n. 198/2006, la cui disciplina, modificata dal d.lgs. n.5 del 2010, è rimasta invariata: si tratta delle discriminazioni di genere e di “genitorialità”, sanzionate appunto dagli artt. 25 co.2 bis, 27-35 d.lgs. n.198/2006.
Tuttavia, non può dirsi che il più restrittivo onere probatorio, a cui la fattispecie esaminata andava assoggettata, abbia indebolito l’impianto argomentativo del provvedimento che si esamina, avendo il tribunale desunto, da un’attenta sia pur sommaria istruttoria testimoniale, gli elementi in fatto sufficienti per ritenere fondata la discriminazione indiretta così come prospettata dalla ricorrente Consigliera di parità.
Ed infatti dall’istruttoria testimoniale è emersa la estrema difficoltà di gestione dei figli minori di 12 anni da parte delle lavoratrici, sprovviste di mezzi per poter ovviare all’oggettivo grave svantaggio che le stesse pativano rispetto ad altri lavoratori o lavoratrici in situazione di prestazione lavorativa comparabile; mentre la datrice di lavoro non è stata in grado, secondo la valutazione del Tribunale, di fornire adeguata prova contraria che dimostrasse la estrema difficoltà o impraticabilità di prevedere l’introduzione di un unico turno centrale anche soltanto per coloro che si trovavano nella predetta penalizzante condizione.
2. Il fattore di discriminazione e le recenti modifiche legislative
Nel caso in esame non è in discussione l’esistenza del fattore discriminante, quanto piuttosto la sua esatta individuazione. Sia nelle conclusioni della consigliera di parità, riportate nel decreto, sia soprattutto nella motivazione e poi nella statuizione del provvedimento giudiziale, la condotta discriminatoria della società datrice di lavoro viene, ad avviso di chi scrive, in realtà collegata non soltanto al fattore di genere, ma in particolare a quello della “genitorialità”, ossia allo stato di paternità o maternità, annoverato tra quei fattori più specifici previsti dal già citato art.25 comma 2 bis del d.lgs. n.198/2006, nella formulazione vigente prima dell’emanazione della legge n.162 del 2021 che, come si dirà, ha ulteriormente allargato la gamma dei fattori discriminatori individuati da tale norma, con un approccio legislativo che si potrebbe in parte ricondurre al modello dalla dottrina definito “a lista aperta”, tipica del principio generale di uguaglianza.
Nella motivazione del decreto, infatti, viene preso in considerazione l’estremo disagio che i turni spezzati causano ai lavoratori con figli minori degli anni 12, termine peraltro usato anche nelle conclusioni del ricorso introduttivo dalla Consigliera di Parità e riportate nel provvedimento. L’uso generalizzato del termine soltanto “al maschile”, appare forse alquanto improprio, essendo inclusivo dei due generi, ma viene comunque poi dedotta e di fatto confermata nelle sommarie informazioni, una situazione in concreto penalizzante soltanto con riferimento alle lavoratrici madri.
Ad avviso di chi scrive appare comunque determinante il riferimento che il tribunale fa non solo al fattore di genere, quanto piuttosto a quello della genitorialità (maternità o paternità), previsto dal comma 2 bis dell’art.25 del d.lgs. n.198 nella formulazione vigente ratione temporis, norma attualmente integrata dalla recente legge n.162 del 5 novembre 2021.
E’ peraltro del tutto coerente e conseguente alla concreta realtà lavorativa in atto presso l’azienda che il Tribunale, nel disporre che la società datrice di lavoro provvedesse a definire e ad attuare un piano di rimozione con la particolare indicazione di assegnazione ad un unico turno centrale o ad orario concordato, abbia indicato come destinatarie di una diversa e non più penalizzante misura organizzativa espressamente le lavoratrici madri con figli in tenera età, le sole che allo stato risultavano in concreto soggette alla discriminante condizione lavorativa, proprio in quanto madri di figli non del tutto autosufficienti.
In proposito non può infatti non rilevarsi come, per le donne, l’intersezione del fattore di genere e di quello della maternità, o meglio ancora della genitorialità, aggravi in realtà l’effetto discriminatorio.
E’ pur vero che potrebbe anche obiettarsi che la scelta operata dalla ricorrente consigliera di Parità e seguita nel provvedimento, è stata ancora una volta quella di tutelare le donne perché sono coloro che si occupano maggiormente della cura dei figli in tenera età, così contribuendo in qualche modo a non intaccare una realtà familiare, e dunque sociale, che è ancora lontana dal raggiungere traguardi di condivisione familiare nei lavori di cura, soprattutto dei figli minori.
Tuttavia nel caso specifico l’obiettivo che la Consigliera di Parità era tenuta a perseguire era non tanto quello di promuovere un futuro cambiamento dei ruoli familiari in termini di condivisione, bensì quello di risolvere, attraverso il piano di rimozione, il concreto problema di conciliazione tra cura dei figli e lavoro di dipendenti lavoratrici, che la contrattazione aziendale non era stata in grado di risolvere.
Come prima rilevato la formulazione dell’art. 25 bis del d.lgs. n.198 applicabile al caso sottoposto all’esame del tribunale, è stata recentemente sostituita da quella introdotta con la legge n.162 del 2021 prima citata, che sembrerebbe a prima vista essersi in parte discostata da un approccio decisamente tassativo o chiuso dei fattori di discriminazione.
Tale tecnica normativa, propria dei trattati e delle direttive in materia, come anche delle normative nazionali di trasposizione, è stata ed è in parte ancora questione dibattuta, anche grazie alle varie pronunce sia della CGUE che della corte EDU[2].
Si tratta infatti di un modello, legato agli ambiti espressamente indicati dalla normativa che tali fattori prevede, che è stato spesso messo in discussione, proprio perché si presta in realtà ad una obiezione che si fonda su ragioni di giustizia sostanziale e cioè del perché alcuni fattori e non altri debbano godere di una tutela più ampia e articolata, anche processuale.
Frutto di mera elaborazione giurisprudenziale è invece il criterio che trova fonte nelle famose sentenze della CGUE sul generale principio di uguaglianza e non discriminazione insito nell’ordinamento sovranazionale, in particolare dell’art.21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[3].
A questi criteri si aggiunge quello definito “a lista aperta”, che rimanda alla tecnica seguita dall’art.14 CEDU, modello che contiene in sé l’elencazione anche a titolo esemplificativo, dei fattori discriminatori[4].
Sul punto vale la pena osservare come nella citata novella legislativa n. 162 del 2021, la quale, pur allargando sensibilmente i fattori di discriminazione, non adotta espressamente un modello a lista aperta, il metodo comparativo individuato non si limita alla sola laconica locuzione del «trattamento meno favorevole» in ragione del fattore discriminante. Il legislatore ha seguito infatti in questo caso una più proficua tecnica legislativa che chiarisce il concetto di trattamento meno favorevole, definendolo come «ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del fattore discriminante (sesso, età anagrafica, esigenze di cura personale o familiare, stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti) determina o può determinare quelle condizioni pregiudizievoli, sia concrete che possibili, in cui si sostanzia la discriminazione». Condizioni che questa volta vengono espressamente individuate dal legislatore[5].
3. L’azione collettiva della consigliera di parità ed il piano di rimozione
Non molte sono state negli anni le controversie collettive portate avanti dalla Consigliera di Parità, perché spesso non semplice si presenta l’acquisizione degli elementi necessari per disporre la definizione di un piano di rimozione.
Nel caso in esame si profilavano peraltro difficoltà correlate alla situazione organizzativa aziendale alquanto compromessa, che aveva portato alla conclusione di accordi aziendali che prevedevamo misure migliorative per le lavoratrici del tutto non soddisfacenti, perché escludevano di fatto l’unica misura idonea a rimuovere la discriminazione, ossia la reintroduzione di un turno unico centrale.
Il Tribunale nell’accogliere l’istanza ha fissato i criteri da osservarsi per l’attuazione del piano di rimozione in particolare con riferimento proprio a questa misura, come richiesto anche dalla Consigliera di parità. Tale disposizione ha riequilibrato di fatto una situazione che difficilmente avrebbe potuto trovare sbocco positivo in sede di negoziazione sindacale, attuando indirettamente una sorta di obbligata “supplenza giudiziaria” che tuttavia in questo caso, ad avviso di chi scrive, si è fondata su elementi obiettivi adeguatamente acquisiti e valutati attraverso un’accurata istruttoria testimoniale.
[1] Così M. Barbera, La nozione di discriminazione nel nuovo diritto antidiscriminatorio, in La tutela Antidiscriminatoria, 2019, Giapichelli, pag. 53 e ss.
[2] La natura tassativa dei fattori di discriminazione indicati nelle direttive 2000/278 /CE è affermata dalla famosa sentenza Chacon Navas del 2006 causa C13/15.
[3] Dalle prime famose sentenze Mangold del 2005, causa C-144/04 e, in parte anche Kukukdeveci causa C-555-7, alle più recenti Achatzi del 2019 causa -193/17 e Egenberger, del 2018, causa C-414/16.
[4] Per una attenta disamina in merito cfr. Strazzari e Militello I fattori di discriminazione, in La tutela antidiscriminatoria, cit. pag. 85-4 e ss.
[5] La norma richiede la sussistenza di almeno una di queste tre condizioni: «a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera».