Chi volesse sapere quale sia la tutela prevista dall’ordinamento per il licenziamento disciplinare illegittimo per tardività della contestazione degli addebiti e facesse una ricerca nella giurisprudenza di legittimità, troverebbe facilmente la risposta che cerca: nelle imprese con più di 15 dipendenti, e per un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 (dunque, con applicazione dell’art. 18 L. 300/1970, come modificato dalla L. n. 92/2012), spetta la tutela indennitaria “forte” prevista dall’art. 18, 5° comma, secondo il quale «il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi … della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto …».
In questo senso, infatti, è il principio di diritto affermato da Cass. S.U. 27.12.2017 n. 30985, e recepito da numerose sentenze successive della Suprema Corte: «la dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare conseguente all’accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base dello stesso provvedimento di recesso, ricadente ratione temporis nella disciplina dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, così come modificato dal comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92 del 28.6.2012, comporta l’applicazione della sanzione dell’indennità come prevista dal quinto comma dello stesso art. 18 della legge n. 300/1970» (in senso conforme, v. Cass. nn. 12231, 19089, 20163, 21162, 23769, 24360/2018 e n. 17428/2021).
Chi, tuttavia, non si accontentasse e volesse allargare la ricerca alla giurisprudenza di merito, resterebbe sorpreso nel leggere una recente ordinanza del Tribunale di Ravenna nella quale, invece, è stato ritenuto applicabile l’art. 18, 4° comma, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con il limite di 12 mensilità.
Il giudice ravennate dà espressamente atto di essere «in disaccordo con le conclusioni (ma non con buona parte delle motivazioni) delle SS.UU. della S.C. che nel 2017 hanno ritenuto applicabile il 5° comma (tutela indennitaria)», ed infatti, per sostenere la sua tesi, utilizza diverse argomentazioni tratte dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2017, svelandone così l’intima contraddittorietà.
L’ordinanza in commento muove da un dato certo – definito, non a caso, «un vero e proprio pilastro angolare della disciplina dei licenziamenti» – ossia dall’affermazione che «il fatto che deve rilevare per potere procedere al licenziamento è un fatto antigiuridico, un fatto di inadempimento, ossia un fatto disciplinarmente rilevante» (v., in tal senso, Cass. nn. 29072/2017, 10019/2016, 20540/2015); applicando tale principio al fatto che forma oggetto di una contestazione disciplinare tardiva, e utilizzando le stesse parole usate, in motivazione, da Cass. S.U. 27.12.2017 n. 30985, ne deduce che «l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse».
La validità di tale conclusione è ben spiegata, ancora, con le ineccepibili argomentazioni delle Sezioni Unite: «il fondamento logico-giuridico della regola generale della tempestività della contestazione disciplinare non soddisfa solo l’esigenza di assicurare al lavoratore incolpato l’agevole esercizio del diritto di difesa, quando questo possa essere compromesso dal trascorrere di un lasso di tempo eccessivo rispetto all’epoca di accertamento del fatto oggetto di addebito, ma appaga anche l’esigenza di impedire che l’indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori, nonché quella di tutelare l’affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente».
Ed allora, conclude lucidamente il Tribunale di Ravenna, «se un fatto non è stato tempestivamente represso, non avendo avuto il datore di lavoro alcun interesse a sanzionarlo in tempo utile, il licenziamento tardivo è evidentemente avvenuto non per quel fatto, sul quale si è appunto soprasseduto … Si tratta di un fenomeno che potrebbe chiamarsi di insussistenza giuridica sopravvenuta del fatto. Un fatto ‘perdonato’ (divenuto quindi disciplinarmente irrilevante) non può ritornare ad essere un fatto disciplinarmente rilevante e giustificare un licenziamento tardivo”; al contrario, esso non potrà che “essere considerato giuridicamente insussistente laddove posto a fondamento di un licenziamento tardivo, con conseguente applicazione del 4° comma dell’art. 18», cioè della tutela reintegratoria attenuata, che il Giudice deve applicare, appunto, quando «non ricorrono gli estremi … della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato».
La coerenza logica e giuridica della soluzione a cui è pervenuto il Tribunale di Ravenna si apprezza anche alla luce delle norme civilistiche che regolano i contratti, in base alle quali lo scioglimento del vincolo contrattuale non può giustificarsi se non per una causa riconosciuta dall’ordinamento come meritevole di tutela. La contestazione disciplinare tardiva dimostra, viceversa, l’irrilevanza della condotta del lavoratore ai fini della prosecuzione del rapporto di lavoro, e tale valutazione di irrilevanza proviene dallo stesso datore di lavoro che, pur essendo venuto a conoscenza del fatto commesso dal suo dipendente, sceglie di non chiedergli giustificazioni e manifesta la volontà di proseguire il rapporto di lavoro, semplicemente tacendo[1].
L’ordinamento non può autorizzare la reviviscenza di un diritto al recesso già consumatosi con la rinuncia, perché il suo esercizio successivo non potrebbe essere sorretto da buona fede, non potendosi riconoscere effetto risolutivo ad un inadempimento contrattuale già considerato di «scarsa importanza» (art. 1455 c.c.) dallo stesso contraente che voglia avvalersene.
Con specifico riferimento al contratto di lavoro subordinato, ciò significa che il potere di recesso non può essere esercitato quando l’inadempimento del lavoratore – conosciuto, ma non contestato tempestivamente dal datore di lavoro – è già stato da quest’ultimo valutato come non incompatibile con la prosecuzione del rapporto (art. 2119 c.c.), perché non tale da ledere l’elemento fiduciario, ovvero il suo affidamento nel futuro corretto adempimento della prestazione da parte del lavoratore.
L’ordinanza del Tribunale di Ravenna, dunque, ha il pregio di portare alla luce le contraddizioni e le insufficienze della sentenza delle Sezioni Unite del 2017, che afferma contestualmente, da un lato, che la tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare è violazione di un principio generale di carattere sostanziale e, dall’altro, applica la sanzione indennitaria, propria dei vizi formali o procedurali del licenziamento e delle fattispecie nelle quali il fatto contestato sussiste, configura un illecito disciplinare, ma non è così grave da costituire una giusta causa di recesso.
Se, come riconoscono le Sezioni Unite, la tardività della contestazione disciplinare può sottendere un effetto intimidatorio, se può consentire l’esercizio arbitrario del diritto di recesso, se genera il legittimo affidamento del lavoratore su un comportamento concludente di rinuncia all’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, non è affatto coerente che un licenziamento disciplinare intimato a seguito di una contestazione tardiva venga assimilato alle ipotesi di tutela minore previste dal 5° comma dell’art. 18, di sproporzione tra sanzione espulsiva e inadempimento, e non venga, invece, ricondotto alla insussistenza del fatto (art. 18, 4° comma), inteso come inadempimento giuridicamente rilevante, con conseguente tutela reintegratoria, sia pure attenuata[2].
La sentenza n. 30985/2017 delle S.U. ha l’effetto di realizzare un ampliamento dei poteri del datore di lavoro in un ambito che non è quello della libertà di organizzazione dell’impresa per la sua più economica gestione (art. 41, 1° comma, Cost.), ma è quello dell’esercizio del potere disciplinare che, incontrando i limiti della libertà e della dignità umana (art. 41, 2° comma, Cost.), deve pur sempre assicurare al lavoratore un assetto del rapporto che non comporti la sua soggezione, anche temporalmente illimitata, al datore di lavoro.
L’attribuzione al datore di lavoro del potere disciplinare, infatti, caratterizza il contratto di lavoro subordinato come l’unico contratto in cui una parte può imporre all’altra una valutazione unilaterale di quale sia l’esatto adempimento della prestazione che soddisfa il proprio interesse. Questo potere di incidere sul rapporto, modificandone unilateralmente il contenuto (poiché anche la sanzione più blanda, come il rimprovero verbale, è idonea ad incidere sul rapporto, determinando la possibilità di contestare la recidiva), ha una finalità conformativa per la realizzazione dell’interesse che costituisce la causa concreta del contratto, ma tale finalità costituisce anche il limite all’esercizio del potere.
Il sistema, prevedendo sanzioni conservative e un obbligo (non una facoltà) di proporzione (art. 2106 c.c.), esprime chiaramente questo concetto e, altresì, un favor per la prosecuzione del rapporto di lavoro: anche le sanzioni conservative devono essere correlate ad un inadempimento e, quindi, ad una lesione dell’interesse del datore di lavoro. Appare, pertanto, intrinsecamente contraddittorio, non solo rispetto alla condotta del datore di lavoro ma anche rispetto ai valori costituzionali, considerare rilevante un fatto che non ha leso in maniera significativa l’interesse tutelato dal contratto: consentendo di recuperare come rilevante un fatto risalente nel tempo e non tempestivamente contestato verrebbe legittimato – per il solo rapporto di lavoro, e con riferimento alla più grave delle sanzioni – il mero arbitrio del contraente forte, in violazione del principio dell’affidamento, degli obblighi contrattuali di correttezza e buona fede e della stessa civiltà del lavoro.
[1] M. Nardin, Il datore di lavoro e l’asso nella manica. Il licenziamento per giusta causa e la tardività della contestazione, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-datore-di-lavoro-e-l-asso-nella-manica_il-licenziamento-per-giusta-causa-e-la-tardivita-della-contestazione_20-02-2017.php
[2] A. Terzi, Quale sanzione per il licenziamento tardivo? Commento alla sentenza della Cassazione n. 30985/2017 (Sez. Unite), in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/quale-sanzione-per-il-licenziamento-tardivo-commento-alla-sentenza-della-cassazione-n-309852017-sez-unite_21-05-2018.php, e, della stessa Autrice, La nuova disciplina dei licenziamenti e le categorie del diritto civile. Una nuova stagione per il diritto del lavoro?, commento a Corte appello Firenze 2 luglio 2015, RG 322/15, est. Bronzini, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-nuova-disciplina-dei-licenziamenti-e-le-categor_17-02-2016.php