Sono 50 anni che lo Statuto dei lavoratori ci tiene compagnia. Fa parte della storia collettiva ed individuale della mia generazione.
Storia collettiva, perché nel corso degli anni sessanta l’Italia e il mondo intero si trasformarono con una sequenza incredibile di cambiamenti delle condizioni economiche, politiche, culturali. Storia individuale, perché per me, e penso per molti altri che leggono queste pagine, i cambiamenti che portarono allo Statuto, influirono sulle scelte di vita, di studio, di lavoro.
In molti scegliemmo giurisprudenza pensando che da giurista, avvocato o giudice, avremmo dovuto studiare e applicare leggi belle come quella. Per me la fortuna ci mise del suo perché a Bari in quegli anni insegnava Gino Giugni. Fui l’ultimo dei suoi laureati baresi. Scelsi di fare il magistrato, ma conservai un rapporto intenso con lui e i suoi allievi; fra l’altro, per trent’anni, con Gianni Garofalo e Lauralba Bellardi, abbiamo collaborato alle varie edizioni del suo manuale, sul quale si sono formate generazioni di studenti.
Potrei scrivere pagine e pagine sui dialoghi con Giugni e con gli altri amici della scuola barese (oltre ai due che ho citato: Edoardo Ghera, Bruno Veneziani, Franco Liso, Silvana Sciarra e tanti altri). Fermo qualche pensiero, tra i molti che mi vengono in mente.
Giugni, che era uomo acuto ed autoironico come pochi, non amava essere definito il padre dello Statuto anche perché gli sembrava di sottrarre qualcosa al vero padre politico.
Di Statuto dei diritti dei lavoratori si parlava dai primi anni cinquanta. Di Vittorio aveva lanciato l’idea nel 1952, ma era rimasta un’idea. Solo molti anni dopo, notevolmente ripensata, sarebbe diventata legge, sotto la spinta di una società profondamente cambiata, e grazie ad alcuni uomini, politici e intellettuali, che sono stati in grado di riconoscere e interpretare il cambiamento.
Alla fine degli anni sessanta, nel nuovo governo che mirava a rilanciare l’esperienza del centrosinistra, diventa ministro del lavoro Giacomo Brodolini. Proviene dal mondo sindacale ed è vicepresidente del partito socialista. Ha una forte determinazione. Con lui vengono abolite le c.d. gabbie salariali e si procede ad un’epocale riforma delle pensioni. Ma il suo disegno è più ambizioso, lo enuncia ad Avola il 4 gennaio del 1969, recandosi nel luogo in cui un mese prima la polizia aveva sparato sui lavoratori che protestavano per i bassi salari, uccidendo due braccianti e ferendone molti altri.
I cardini del discorso di Avola sono: Statuto dei diritti dei lavoratori e riforma del sistema di giustizia del lavoro.
Si reca poi in Parlamento e preannuncia un disegno di legge del governo chiedendo di essere sostenuto “da una volontà politica molto ferma e decisa, capace di far sì che le disposizioni di legge si attuino seriamente e che i provvedimenti di carattere amministrativo vadano nel senso voluto dal legislatore”.
Quindi, nomina una commissione, presieduta da Giugni e composta, oltre che da alcuni consiglieri politici e funzionari, da un sociologo, De Rita, e da alcuni giuslavoristi: Mancini, Prosperetti, Spagnuolo Vigorita, Ventura e Pera (che rinuncerà all’incarico). Il mandato del ministro era di “fare presto”, per ragioni politiche e perché gli era stato diagnosticato un cancro ai polmoni che gli lasciava poco tempo. E così, in soli quattro mesi, i lavori della commissione vennero portati a termine.
In una bellissima pagina Giugni descrisse il pomeriggio di fine maggio ’69 in cui si recò dal ministro con l’elaborato della commissione. Brodolini apportò alcune modifiche su punti salienti e in serata venne annunciato che il progetto del ministro era pronto.
Scrive Giugni: “… Eravamo, noi collaboratori, animati da una euforica soddisfazione, attraversata, però, da pesanti dubbi ed interrogativi. Si sarebbe mai arrivati alla fine del lungo cammino legislativo, o ci si sarebbe fermati per strada, come accade per la maggior parte dei progetti? Soprattutto un dubbio si affacciava a tutti, ma nessuno lo professava se non a se stesso: Brodolini avrebbe visto il compimento di questa sua opera? Gli eventi si mossero con rapidità maggiore del previsto, nel male come nel bene. Meno di due mesi sarebbero trascorsi e Brodolini ci avrebbe abbandonati, ma solo un anno dopo lo Statuto dei lavoratori sarebbe diventato una realtà normativa tra le più significanti, dopo la Costituzione del 1948, nella marcia del progresso della classe lavoratrice”[1].
Il progetto naviga in acque agitate, dentro e fuori il Parlamento. L’Italia vive momenti importanti e drammatici, basti pensare all’autunno caldo e alla strage di piazza Fontana. Tutto il mondo è in trasformazione; negli Stati Uniti dilagano le manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam, in Cile diventa presidente Salvator Allende.
Carlo Donat Cattin, il nuovo ministro del lavoro, è un democristiano, ma sceglie di portare a termine il lavoro di Brodolini, di cui, contravvenendo ad una prassi consolidata, conserva i collaboratori, a cominciare da Giugni, che svolgerà un ruolo cruciale tanto sul piano tecnico che politico[2]. Dopo un percorso tutt’altro che facile, il 15 maggio 1970 la Camera dei deputati approva definitivamente il testo, con 217 voti a favore (socialisti, democristiani, repubblicani, liberali) e l’astensione dei comunisti.
Qualche giorno dopo sulla Gazzetta ufficiale viene pubblicata la legge 20 maggio 1970, n. 300, “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà ed attività sindacale sui luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. È composta da 41 articoli, divisi in sei titoli, in cui si fondono almeno due linee di pensiero: il riconoscimento di diritti individuali dei lavoratori e il sostegno dell’attività sindacale in azienda. Una dimensione individuale ed una dimensione collettiva.
Critiche, a volte molto pesanti, vennero da un ampio arco di posizioni, che andava dalla Confindustria alle frange estreme della contestazione; ne fece un quadro impietoso Giovanni Tarello nell’appendice alla seconda edizione di un suo famoso libro[3].
Il medesimo ufficio legislativo lavorò ad un progetto di riforma del processo del lavoro, che fu oggetto anch’esso di censure, specie da parte dell’accademia, sino a quando Virgilio Andrioli non lo prese sotto la sua ala. In un appassionato intervento al congresso dei processualcivilisti affermò che la riforma dava attuazione ai principi chiovendiani, di cui l’oralità, spiegò, è il “più appariscente ma meno significativo”, mentre sono “più sostanziosi” la concentrazione e l’immediatezza[4]. Fu così approvata la legge 11 agosto 1973, n. 533, “Disciplina delle controversie di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie”.
Mi fermo qui, perché parlare di ciò che è successo nel mezzo secolo che ne è seguito è francamente troppo impegnativo[5]. Sono stati anni intensi e drammatici, in cui molti tra coloro che hanno dedicato la vita a questi problemi hanno pagato un prezzo pesante, da Giugni stesso a Tarantelli, da D’Antona a Biagi.
Oggi, 20 maggio 2020, in un mondo più che mai disorientato, è giusto semplicemente fermarsi a ricordare quelli che sono stati i protagonisti di una storia importante, che è stata anche la nostra storia.
[1] Giugni, Prefazione a Stolfi, Da una parte sola. Storia politica dello Statuto dei lavoratori, Milano, Longanesi, 1976, p. 10.
[2] Su questo ruolo, v. ora l’introduzione di S. Sciarra alla raccolta di scritti: Giugni, Idee per il lavoro, Bari-Roma, Laterza, 2020.
[3] Teorie e ideologie del diritto sindacale, II ed., Milano, Edizioni di comunità, 1972.
[4] L’intervento di V. Andrioli al convegno di studio sul progetto di riforma delle norme sul processo civile del lavoro può essere letto in Qualegiustizia, 1971, p. 447 e ss.
[5] Sulle molte, e gravi, questioni attualmente aperte, rinvio a Curzio (a cura di), Diritto del lavoro contemporaneo. Questioni e tendenze, Bari, Cacucci, 2019.