1) Gestire le interdipendenze
Il titolo di questa sessione inizia ponendo la questione: “Gestire le interdipendenze”.
Si tratta, a me pare, della madre di tutte le questioni, ossia del nodo culturale, prima ancora che organizzativo, intorno al quale la magistratura italiana – in tutte le sue articolazioni, singoli magistrati, titolari di uffici direttivi e semidirettivi, componenti degli organi di autogoverno – si arrovella da una ventina di anni per cercare di dare una risposta dal basso alla crisi di funzionalità del processo civile.
E non è evidentemente un caso se gli organizzatori di questo corso hanno posto la questione della gestione delle interdipendenze come incipit della sessione introduttiva; perché questa questione costituisce il filo rosso che attraverserà le varie tematiche (strumentazione tabellare, ruolo dei presidenti di sezione, ufficio per il processo, tecnologia informatica, forma degli atti) che costituiranno oggetto delle singole sessioni del corso.
Né evidentemente è un caso che il titolo di questa sessione si concluda con le parole: “Visione, cultura strumenti”. Perché, per poter effettivamente valorizzare i vari strumenti che ormai fanno parte della cassetta degli attrezzi del giudice civile – a partire da quelli di utilizzo più immediato e quotidiano, come la tecnologia informatica o la collaborazione dei tirocinanti, fino agli strumenti di secondo livello, come i supporti statistici, le banche dati di giurisprudenza, i protocolli di udienza o sulla forma degli atti – è necessario prima di tutto una “visione”, cioè una consapevolezza del ruolo del giudice civile diversa rispetto a quella diffusa tra i magistrati italiani fino a dieci o quindici anni fa. Una consapevolezza che tenga conto, e qui torniamo alle parole con cui esordisce il titolo della sessione di oggi pomeriggio, della interdipendenza tra l'attività del singolo giudice civile e l'attività di tutti gli altri attori dell'attività giurisdizionale; nonché della necessità che tale interdipendenza vada “gestita” con consapevolezza e con avvedutezza.
Il mio obiettivo non è, allora, quello di illustrare i singoli attrezzi presenti nella cassetta del giudice civile (tale illustrazione sarà svolta nelle singole sessioni in cui il corso si articola), ma è quello di provare a cercare di individuare, insieme a voi, il senso complessivo della evoluzione culturale che la magistratura italiana ha vissuto e sta vivendo in relazione ai temi dell'organizzazione.
Proverò a partire, per dare concretezza al discorso, da una sentenza e, precisamente, dalla sentenza delle S.U. della Corte di cassazione n. 2948/16.
Con questa sentenza la Corte suprema si è pronunciata sulla richiesta di cassazione di una sentenza della Sezione isciplinare del Csm che aveva condannato un giudice civile di tribunale per i ritardi in cui era incorso nel deposito di sentenze ed ordinanze.
Secondo l'incolpato, ricorrente per cassazione, la Sezione disciplinare non aveva adeguatamente considerato come i ritardi a lui addebitati non dipendessero né da scarsa laboriosità (perché anzi le sue definizioni, con e senza sentenza, erano tra le più alte del proprio ufficio e largamente superiori alle medie nazionali), né da incapacità organizzativa ma, al contrario, costituivano l'effetto di una scelta organizzativa precisa, tendente a spostare il collo di bottiglia del giudizio civile dalla fase istruttoria a quella decisoria, riducendo al massimo la durata del rinvio per precisazione conclusioni.
Nel motivo di ricorso si argomentava, in sostanza, che, poiché il contenzioso gestito all'incolpato presentava marcate caratteristiche di serialità e si caratterizzava per una forte asimmetria tra le parti (si trattava infatti, prevalentemente, di contenzioso bancario legato alle vicende delle crisi del 2008 Cirio, Argentina, etc.), non sarebbe stato conveniente avvalersi del meccanismo normalmente utilizzato dai giudici civili per rendere i flussi di entrata compatibili con la propria agenda, vale a dire l’allungamento dei tempi del rinvio per precisazione delle conclusioni; il trattenimento quasi immediato delle cause in decisione, infatti, avrebbe sottratto alla parte “forte” del rapporto il vantaggio di poter speculare sulle lungaggini del giudizio, costituendo, in presenza di indirizzi giurisprudenziali univoci, un potente stimolo alla ricerca di soluzioni transattive.
Nel ricorso per cassazione, quindi, la sentenza del Csm veniva censurata per non aver valutato l'andamento complessivo del ruolo gestito dall’incolpato, omettendo di considerare il massiccio abbattimento di pendenze da lui realizzato, nonché la circostanza che – pur al lordo dei tempi, indubbiamente lunghi, di deposito delle sentenze – la durata media delle sue cause risultava comunque allineata alle medie dell’ufficio (con la differenza che l'anno o l'anno e mezzo che nelle sue cause intercorreva tra l’assunzione in decisione ed il deposito della sentenza, nelle cause della maggior parte dei suoi colleghi intercorreva tra l’ultima udienza istruttoria e l’udienza di precisazione delle conclusioni).
Le Sezioni unite della Cassazione hanno accolto il ricorso e cassato la sentenza disciplinare del Csm.
In questa sede non ci interessa parlare della vicenda disciplinare, di cui ho tratteggiato sommariamente alcuni aspetti solo al fine di rendere pienamente comprensibile la portata della sentenza della Cassazione, ma ci interessa ciò che le Sezioni unite hanno detto nella loro sentenza: perché i principi affermati in tale sentenza, pur se collocati in una prospettiva di carattere disciplinare, sono molto rilevanti ai fini della definizione del modello deontologico del giudice civile di oggi, che è radicalmente diverso dal modello deontologico del giudice civile di anche soltanto una quindicina di anni fa.
Le Sezioni unite hanno detto: «A tale proposito è necessario precisare che in linea di principio il magistrato è responsabile della gestione del proprio ruolo e quando, come nell'ufficio giudiziario in cui lavorava l'incolpato e nella gran parte degli uffici giudicanti civili, la consistenza del ruolo risulta sproporzionata rispetto alle possibilità di smaltimento del magistrato assegnatario determinando perciò solo l'accumularsi dei processi e la conseguente irragionevole durata dei medesimi, questa responsabilità assume valenza più grave e profonda sia perché impone valutazioni di priorità che non possono essere casuali sia perché esige dal magistrato assegnatario importanti scelte organizzative intese, per quanto possibile, a contenere un arretrato destinato, in mancanza, ad accrescersi sempre più nei tempo, anche attraverso la allocazione delle limitate risorse (temporali, personali e materiali) a sua disposizione nel modo più razionale e funzionale possibile».
Qui, a mio avviso, c’è, in nuce, il cuore della nostra sessione e, direi, di tutto questo corso.
La giurisprudenza disciplinare – che è uno dei modi, direi uno dei più incisivi, attraverso cui il sistema dell’autogoverno disegna il profilo deontologico dei magistrati – ci dice che il giudice civile è responsabile non più soltanto, com’era fino a venti anni fa, della gestione di ciascuno dei procedimenti a lui affidato, vale dire del rispetto, il cui controllo è rimesso al sistema delle impugnazioni, delle regole procedimentali che disciplinano il modo in cui si decide e delle regole sostanziali a cui si deve uniformare il contento della decisione; ma che egli oggi è chiamato a rispondere anche della gestione del suo ruolo, cioè dell’intero portafoglio dei procedimenti a lui affidati, inteso come complesso unitario; gestione che segue regole diverse da quelle della gestione di ciascuno dei procedimenti compongono il ruolo ed impone “valutazioni di priorità” e “scelte organizzative”.
Ecco dunque il salto culturale che il giudice civile devono compiere per affrontare le esigenze imposte dalla crisi di funzionalità che il giudizio civile sta da molti anni attraversando: trasformarsi da decisore di casi singoli in gestore dell’intero portafoglio delle cause a lui assegnate; comprendere che la propria funzione non è più limitata a dare una risposta alle parti litiganti di una controversia, ma si estende fino a cercare di dare una risposta, nei limiti imposti dalla situazione di ciascun ufficio, all’intera platea dei litiganti le cui sorti gli sono affidate, a tal fine procedendo, secondo le parole delle S.U. alla «allocazione delle limitate risorse (temporali, personali e materiali) a sua disposizione nel modo più razionale e funzionale possibile».
2. Conoscere il proprio ruolo
La precondizione per una gestione consapevole del proprio ruolo è la conoscenza del suo contenuto. Quando io ho cominciato a fare questo mestiere, i giudice civili non avevano, mediamente, alcuna idea di cosa tenessero in pancia. Le udienze venivano formate, rinvio dopo rinvio, sulla base di un generico criterio cronologico, che teneva conto delle contingenti esigenze delle agende del giudice e dei difensori delle parti. Non c’era, in altri termini, alcuna cultura della programmazione del lavoro, alcuna riflessione su cosa trattare prima e cosa trattare dopo, alcun tentativo di realizzare economie di scala mediante la creazione di udienze tematiche o l’accorpamento di filoni omogenei. Il giudice subiva passivamente il ruolo e cercava di proteggersi dalla pioggia delle sopravvenienze aprendo l’ombrello dei rinvii e confidando sul fatto che una parte non trascurabile del contenzioso era destinato ad estinguersi spontaneamente per il raggiungimento di accordi conciliativi, non di rado favoriti dalla stessa inefficienza del giudizio. Acquisire conoscenza del proprio ruolo, del resto, era operazione assai faticosa in epoca preinformatica, nella quale l’unico modo di sapere quale fosse il contenuto dei procedimenti pendenti era andare materialmente ad esaminarli in cancelleria.
Oggi, invece, si richiede al magistrato si saper gestire il proprio ruolo, ciò di fare, e saper fare, scelte: scelte di priorità nella trattazione dei procedimenti, scelte di allocazione delle proprie risorse.
Del resto, se prendiamo in considerazione l’altro principale canale, accanto alla giurisprudenza disciplinare, attraverso cui il Csm definisce il profilo deontologico dei magistrati, vale a dire la disciplina delle valutazioni di professionalità, vediamo che nel testo aggiornato (con le modifiche ed integrazioni successive all’edizione originaria) della circolare n. 20691/07, che detta i criteri di tali valutazioni, tra gli indicatori di capacità si indica, tra l’altro, «l’attitudine del magistrato ad organizzare il proprio lavoro».
3. Chi sceglie cosa. Court management e case management
Un primo punto su cui vorrei richiamare l’attenzione è il rapporto tra court management e case management, cioè tra la sfera delle decisioni che competono al presidente del tribunale e ai presidenti di sezione e la sfera delle decisioni che competono al singolo giudice.
Se infatti, come abbiamo visto sopra, ogni giudice civile porta la responsabilità della gestione del proprio ruolo, tuttavia, l’esercizio dei poteri correlati a tale responsabilità non si esplica in uno spazio vuoto, ma si inserisce in una rete di vincoli – e qui torna il tema delle interdipendenze – che derivano dalle scelte gestionali operate a livello di sezione ed a livello di ufficio.
La figura del dirigente e del semidirigente giudiziario si è radicalmente trasformata negli ultimi dieci/quindici anni, aggiungendo al ruolo, pur sempre fondamentale, di garante della legalità tabellare (fino agli anni ’90 il buon presidente era quello che predisponeva ed osservava – e faceva osservare ai suoi presidenti di sezione – strumenti tabellari funzionali alla precostituzione del giudice, inteso come persona fisica, secondo criteri oggettivi verificabili ex post ) l’ulteriore ruolo di manager dell’azienda-tribunale, capace di migliorare la performance, di interloquire con gli stakeholders, di interagire dinamicamente con il territorio, in certi casi, perfino, di reperire risorse.
Nella prospettiva del miglioramento della perfomance, lo strumento principale a disposizione del presidente del tribunale, vale a dire lo strumento principale del court management, è il programma di gestione ex art. 37 D.l. 98/11, destinato ad affiancare, costituendone la concreta e parcellizzata realizzazione annuale, il Dog (Documento di Organizzazione Generale, che accompagna le tabelle triennali) del quale rappresenta anche una concreta modalità di attuazione e di verifica nel tempo.
L’idea sottesa all’articolo 37 D.l. 98/11 è che l’efficienza della giustizia può essere perseguita (anche) chiedendo ai dirigenti degli uffici comportamenti gestionali analoghi a quelli che caratterizzano l’attività dell’imprenditore, ossia la programmazione della attività finalizzata al raggiungimento del miglior risultato con le risorse date, vale a dire del miglior rendimento (parola che si ritrova, infatti, nel testo del citato articolo 37).
Naturalmente questa idea può essere seriamente criticata sia su un piano più ideologico (l’esercizio della giurisdizione non costituisce erogazione di un servizio ma esercizio di un potere volto all’attuazione coattiva della legge) sia su un piano più pragmatico (il dirigente di un ufficio giudiziario non può essere accostato ad un imprenditore, perché, a differenza di questi, non ha il potere né di scegliersi i collaboratori, né di definire il budget, né di selezionare il target).
Ma su un punto, io credo, l’opzione culturale sottesa all’articolo 37 meriti condivisione: nella direzione di un ufficio giudiziario la distribuzione delle (poche) risorse tra le (molte) esigenze (la c.d. coperta corta) dev’essere il risultato di uno sforzo programmatico, vale a dire di un esercizio di riflessione che conduca a sostituire la regola del “si fa così perché si è sempre fatto così” con la regola “si fa così perché secondo me così si possono raggiungere i risultati a, b e c e vi spiego perché; e vi spiego anche perché ritengo preferibili i risultati a, b e c rispetto allo stato attuale, oppure rispetto ai possibili risultati d, e ed f”.
Il legislatore ha cioè voluto formalizzare con una prescrizione normativa l’obiettivo di dare un governo razionale ai flussi di lavoro degli uffici; obbiettivo, vorrei sottolineare, che la magistratura – ed il suo sistema di autogoverno – avevano già fatto proprio, se si considera che il primo passo per governare razionalmente i flussi di lavoro è conoscerli e che fin dal 2005, con la circolare sulle tabelle 2006/07, il Consiglio aveva provveduto a istituire le Commissioni flussi distrettuali (che peraltro, nella realtà di diversi uffici, erano già state precedute da esperimenti spontanei di rilevazione dei flussi di lavoro) .
Non mi soffermo sulla disciplina legislativa dei programmi di gestione e sulla lettura che ne ha dato il Csm; di questo si parlerà nella prima sessione di domattina.
Ciò che desidero sottolineare è che le scelte di gestione che ciascun giudice è chiamato a compiere in relazione al proprio ruolo devono inserirsi armonicamente nel quadro disegnato dal programma ex art. 37 D.l. 98/11, sia in relazione agli obbiettivi quantitativi di abbattimento delle pendenze che in relazione alle selezioni qualitative relative alle priorità; la procedura di formazione del programma di gestione, del resto, è una procedura partecipata e proprio in quella sede i giudici possono e debbono comunicare al capo dell’ufficio i programmi e le idee che ciascuno di loro ha elaborato in relazione alla gestione del proprio ruolo, onde consentire una sintesi unitaria, che tenga conto del contributo di tutti i magistrati, prima a livello sezionale e poi a livello di ufficio. È necessario, in sintesi, un raccordo forte tra court management dell'ufficio e case management del singolo magistrato.
4. Case management: gli strumenti di gestione del ruolo da parte del giudice civile
Vorrei ora dare un’occhiata agli strumenti – ho parlato prima di “cassetta degli attrezzi” – con cui il giudice civile può concretamente attuare le scelte di gestione che abbia assunto. Quando parlo di strumenti di gestione del ruolo non mi riferisco agli apparati di supporto del lavoro del giudice civile, siano essi di carattere tecnologico, come la struttura informatica del processo civile telematico (con le utilità offerte dalla consolle magistrato e dalla consolle dell'assistente), o di carattere ordinamentale, come l’ufficio del processo costituto con l’ausilio di tirocinanti e giudici onorari. Di tali temi altri parleranno ampiamente nelle prossime sessioni del corso. Mi riferisco invece specificamente agli strumenti gestionali che appartengono più immediatamente e direttamente al proprium del lavoro giurisdizionale, ossia gli strumenti processuali che consentono al giudice di diversificare, in ragione della diversa complessità dei procedimenti, da un lato, lo svolgimento del procedimento e d‘alto lato lo stile redazionale del provvedimento decisorio.
4.1 Lo svolgimento del procedimento
Sotto il primo profilo osservo che il modello processuale italiano si risolve in una successione sequenziale di udienze che, dal punto di vista organizzativo, può essere descritto come una «somma di sequenze parallele che procedono secondo un reticolo di interdipendenze sequenziali reciproche» (così G. Rana, La governance della giustizia civile, Ariccia, 2014, pag. 315). Le sequenze possono essere gestite in parallelo dal magistrato in numero molto ampio, tanto più se il magistrato gode del supporto di un buon ufficio del processo, ma inevitabilmente alcuni passaggi di ciascuna sequenza (in particolare l'istruttore orale, eventuali sub procedimenti incidentali e, il più importante fra tutti, la stesura del provvedimento decisorio finale) non possono essere gestiti in parallelo ma devono necessariamente essere gestiti in sequenza. Da qui l'effetto collo di bottiglia.
Diventa allora essenziale cogliere dove sono i pedali dell'acceleratore del freno con cui il giudice governa la velocità del processo. A questo riguardo risulta evidentemente decisivo l'utilizzo dei poteri discrezionali del giudice civile, sia di quelli preordinati alla formazione della decisione (decidere se vi sia necessità di procedere ad atti di istruzione e, eventualmente, calibrare l'ampiezza dell'espletanda istruttoria) sia dei poteri meramente ordinatori che fanno capo all'articolo 175 c.p.c. - i quali, a differenza dai precedenti, sono sottratti a qualunque forma di sindacato in sede di impugnazione. I primi due commi dell'articolo 175 c.p.c., infatti, recitano: «Il giudice istruttore esercita tutti poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento. Egli fissa le udienze successive e i termini entro i quali debbono compiersi gli atti processuali».
Ed è proprio nell'esercizio dei poteri meramente ordinatori (penso, tra le tante, alla decisione se differire o meno la prima udienza ex art. 168 bis c.p.c., alla scelta se provvedere sulle istanze delle parti in udienza oppure riservarsi la decisione fuori udienza, alla scelta se sollecitare o meno la comparizione personale delle parti all'udienza di trattazione, alla scelta se far precisare le conclusioni subito dopo la chiusura dell' istruttoria o rinviare la precisazione delle conclusioni ad altra udienza, alla scelta se decidere la causa nelle forme di cui all'articolo 281 quinquies c.p.c. o all'articolo 281 sexies c.p.c.) che si concentra il potere del giudice civile di imprimere al processo il ritmo che egli ritiene funzionale ai fini della gestione; non, voglio sottolineare, della gestione del singolo processo (in relazione al quale il ritmo migliore é sempre, almeno tendenzialmente, quello più veloce) ma della gestione del portafoglio di processi a lui assegnato, cioè del suo ruolo (in relazione al quale è necessario conoscere le proprie cause, distinguerle in ragione delle diverse esigenze di celerità, accorpare quelle con le esigenze analoghe e, infine, operare scelte conseguenti con l'uso dei pedali del freno dell'acceleratore).
Ma a questo punto è necessaria una riflessione ulteriore. Se è vero che l'esercizio dei poteri ordinatori, essendo insindacabile in sede di impugnazione, rappresenta l'ambito di massima espansione dell'autonomia organizzativa di cui gode il giudice civile, è pur vero che, proprio per questo, in tale ambito si concentra la massima responsabilità del giudice civile nella gestione del proprio ruolo. Il che implica che la modalità di esercizio di tali poteri dev’essere non soltanto coerente, come si è già detto, con il court mangement, ma anche prevedibile (ossia ispirato a criteri oggettivi, calibrati sulle specifiche caratteristiche del ruolo del singolo giudice) e trasparente, ossia caratterizzato dalla pubblicità dei criteri seguiti; pubblicità realizzabile in forme diverse (comunicazione all’ordine degli avvocati, affissione nell’ufficio del giudice, pubblicazione sul sito del tribunale o del consiglio dell’ordine).
In una situazione in cui la maggior parte dei tribunali italiani è gravata da un carico di lavoro che impone rinvii di mesi o addirittura di anni tra una udienza e un'altra, è infatti essenziale, per la credibilità dell'istituzione giudiziaria, che il cittadino sappia qual è la situazione del ruolo del giudice, quante cause introita annualmente, quante ne definisce, quante cause sono pendenti sul suo ruolo, quali sono i tempi previsti di definizione. Il cittadino edotto delle situazioni dell'ufficio e delle scelte organizzative del giudice accetta di dover attendere mesi o anni per la decisione della sua causa molto più facilmente del cittadino a cui nulla viene spiegato sullo stato dell'attività del giudice ed al quale la data di rinvio, magari a uno o due anni, arriva come un verdetto oracolare che non può che suscitare sconcerto e sfiducia.
4.2 Lo stile redazionale dei provvedimenti
Il secondo dei due strumenti di gestione del ruolo su cui mi sembra interessante una riflessione è quello dello stile redazionale dei provvedimenti. Faccio una premessa. Fino ad una ventina di anni fa il problema della forma degli atti del difensore del giudice non esisteva. A nessuno sarebbe venuto in mente di mettere in discussione la libertà dell’estensore di conformare la redazione di tali atti al proprio stile personale; fermi, naturalmente, i contenuti necessari fissati dalle specifiche disposizioni regolative di ciascun atto (art. 163 c.p.c per la citazione, art. 167 c.p.c per la comparsa di risposta, art. 125 disp. att. c.p.c per la comparsa di riassunzione, artt. 132 c.p.c e 118 disp. att. c.p.c, per le sentenze e così via).
È alla fine degli anni ’80, con l’esplosione della crisi di funzionalità del processo civile, che nasce una specifica attenzione alle modalità di redazione degli atti; attenzione derivante dalla diffusa convinzione che una delle strade percorribili per tentare di recuperare quella funzionalità perduta (o forse mai avuta) – ossia, detto brutalmente, per aumentare il numero di sentenze pronunciate annualmente dai giudici civili – fosse quella di lavorare sulle modalità di redazione degli atti defensionali e giudiziali per ridurre i tempi necessari al giudice per la lettura dei primi e la scrittura dei secondi.
Questa nuova attenzione alle modalità redazionali degli atti processuali è stata declinata, nel tempo, secondo tre distinte linee di intervento:
1) La prima di tali linee è ravvisabile nei ripetuti interventi normativi sulla redazione degli atti del processo. Per fare solo due esempi, rispettivamente riferiti agli atti di parte e agli atti del giudice: la previsione dell'indicazione, nell'atto di appello, «delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuto dal giudice di primo grado» (articolo 342 c.p.c., come modificato dal decreto legge 83/12); gli interventi dalla legge n. 69/09 con i quali, tra l’altro, si elimina lo «svolgimento del processo» dai contenuti della sentenza indicati dall’articolo 132, primo comma, n. 4 c.p.c e si modifica il primo comma dell’articolo 118 disp. att. c.p.c introducendovi l’aggettivo «succinta» (riferito all’esposizione dei fatti rilevanti e delle ragioni giuridiche della decisione) e canonizzando il rinvio ai precedenti conformi.
Questo versante, peraltro, non si è ancora esaurito, se si considera che nel disegno di legge di delega n. 2953/2015, approvato dalla Commissione Giustizia della Camera, si prevede, per la riforma del giudizio di cassazione, «l’adozione di modelli sintetici di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, se del caso mediante rinvio a precedenti, laddove le questioni non richiedano una diversa estensione degli argomenti» e che nel 2016 il Ministro della giustizia ha ritenuto di dover costituire, presso il Ministero, un apposito Gruppo di lavoro sulla sintetici da degli atti processuali, coordinato dall'allora Capo dipartimento per gli affari di giustizia, Antonello Mura; tale gruppo ha depositato in data 1 dicembre 2016 la propria relazione finale contenente, tra l'altro, ulteriori proposte di intervento sulle disposizioni del codice di procedura civile.
2) La seconda delle suddette linee si può individuare nelle iniziative autonome dei dirigenti degli uffici giudiziari volte ad orientare le modalità di redazione delle sentenze da parte dei magistrati dell’ufficio. Su questo versante proprio il mio ufficio, la Cassazione, è stato particolarmente attivo, se si considera che già nel 1989 il presidente Brancaccio, in un documento intitolato Appunto sulla motivazione in cassazione invitava a non «tramutare la sentenza in un articolo di dottrina, infarcito di copiose e non necessarie argomentazioni ad adiuvandum»; che il presidente Lupo, nell'esercizio del potere di auto organizzazione della Corte, adottò in data 22 marzo 2011 un decreto con il quale si invitavano i consiglieri delle sezioni civili, quando i chiamati a decidere su ricorsi che non richiedono l’esercizio della funzione di nomofilachia, a redigere sentenze ordinanze «a motivazione semplificata, di tipo estremamente sintetico con riferimento ai vizi di motivazione, o con richiamo dei precedenti conformi in caso di prospettazione di questioni giuridiche già risolte dalla giurisprudenza della Corte». Ulteriore impulso su questa strada è poi stato impresso dal presidente Canzio con il decreto del 14 settembre 2016 intitolato La motivazione dei provvedimenti civili: in particolare, la motivazione sintetica, nel quale si prevede che per i provvedimenti non aventi valenza nomofilattica vengano adottate «tecniche più snelle di redazione motivazionale», comprendenti la possibile eliminazione dell’esposizione dei fatti di causa e dei motivi di ricorso (quando gli uni o gli altri emergano dalle ragioni della decisione), nonché l’utilizzazione di appositi moduli, da elaborare con l’apporto del Ced, per specifiche questioni su cui la giurisprudenza delle Corte risulti consolidata.
3) Da ultimo, il terzo versante di intervento è ravvisabile nella devoluzione del tema delle modalità di redazione degli atti del processo – defensionali e giudiziali – al confronto tra magistrati, avvocati e dottrina sviluppatosi, a partire dalla metà degli anni ’90, nell’esperienza degli Osservatori della giustizia civile, sorti a macchia di leopardo in molte realtà italiane, a partire dalle esperienze pioneristiche di Bologna, Firenze e Bari; penso in particolare, al lavoro sulla motivazione degli atti svolto negli Osservatori di Firenze e di Milano.
Personalmente ho sempre ritenuto che la strada delle prassi condivise tra magistrati e avvocati sia quella più feconda.
Le modalità di redazione degli atti giudiziari, sia degli avvocati che dei giudici, dipendono infatti da modelli culturali profondamente radicati e lungamente sedimentati nei ceti professionali dei giuristi. Per sovvertire quei modelli è necessario un lavoro culturale di lungo periodo, che parta già dall’università e prosegua nelle strutture di formazione, iniziale e permanente, degli avvocati e dei magistrati (in Francia, ad esempio, ai magistrati si insegna fin dall’accesso in carriera a redigere sentenze secondo format rigidamente determinati).
Nel breve periodo, tuttavia, ritengo che il modo più producente per incidere sul costume di redazione degli atti sia quello del coinvolgimento volontario di tutti i soggetti del processo, basato su tecniche di soft law e fondato sull’utilità che è possibile ricavare dalla modifica delle proprie abitudini; si pensi, ad esempio, alla inevitabile relazione tra modelli di redazione degli atti e processo civile telematico.
5) Il valore della prevedibilità/condivisione delle prassi
Chiudo con una considerazione finale sulle modalità di esercizio dei poteri e delle responsabilità di gestione del ruolo del giudice civile.
Lo studioso di organizzazione giudiziaria Luca Verzelloni, in uno scritto del 2010 che presentava i risultati di un'indagine etnografica (così da lui stesso definita) protrattasi per due anni sulle prassi procedimentali dei giudici del lavoro, pubblicato con il titolo Stanza che vai, prassi che trovi sulla rivista Nel merito scrisse: «Le rilevanti difformità comportamentali che caratterizzano l’attività dei giudici producono effetti che non si limitano a riflettere la naturale autonomia interpretativa dei magistrati, ma danno luogo a chiare ed evidenti ricadute sul sistema giudiziario italiano e sulla sua capacità di fornire una risposta adeguata e uniforme alla domanda di giustizia proveniente dai cittadini. In termini generali, i giudici impegnati nel rito del lavoro oggi non condividono in alcun modo un insieme di metodologie e tecniche specialistiche comuni su come tradurre “in modo opportuno” le norme procedurali in pratica. La comunità professionale dei giudici non ha ancora autonomamente definito degli “standard prestazionali” (Hughes, 1958), impliciti o espliciti, che devono essere garantiti da tutti i magistrati. Le corti di giustizia, in particolare, si configurano spesso come una sorta di “condominio” (Zan, 2003). I giudici appaiono “monadi” che condividono unicamente comuni spazi fisici di lavoro, ovvero “artigiani” che autonomamente producono, sperimentano e mettono in pratica delle loro autonome e solipsistiche interpretazioni della legge».
Ecco, a me pare, spero di non sbagliare, che se volessimo provare a sintetizzare il percorso fatto dalla magistratura italiana nell'ultima decina di anni si potrebbe dire che tale percorso si è risolto, in ultima analisi, nell'acquisizione della consapevolezza che i giudici civili non sono monadi e che il loro lavoro non si esaurisce con il deposito di un certo numero annuale di sentenze tendenzialmente idonee a resistere all’impugnazione, ma che essi sono parte di una rete che comprende gli altri giudici della sezione e dell'ufficio, il presidente di sezione e il presidente del tribunale, i funzionari amministrativi, i giudici onorari, i tirocinanti, gli avvocati; e che gli effetti positivi o negativi del loro lavoro si valutano all'interno di questa rete, per le ripercussioni che tale lavoro produce nell'intero sistema; e che quindi, in definitiva, ciascun giudice risponde, per quota indivisa, dell’andamento complessivo del servizio giustizia nel territorio.
Da qui la necessità di una forte condivisione delle prassi organizzative (e, sotto diverso aspetto, anche di prassi interpretative, ma qui si entrerebbe in un altro discorso), prima di tutto, ovviamente, con i colleghi della stessa sezione e con gli indirizzi generali dell'ufficio, ma poi anche con le cancellerie, i giudici onorari, i tirocinanti, essendo evidente la necessità di un raccordo tra questi soggetti per far funzionare efficacemente i modelli virtuosi di ufficio del processo; e infine anche con l'avvocatura locale, perché le opzioni organizzative, le scelte di priorità, la gestione della tempistica del processo, il lavoro sulla redazione degli atti del giudice e del difensore risultano tanto più efficienti quanto più l'avvocatura coopera con il giudice. Si pensi, per fare un esempio solo, a quanto è fondamentale la cooperazione dell'avvocatura e la disponibilità di un efficiente ufficio del processo (con l'assistenza al magistrato in udienza che tale ufficio può garantire) per far decollare il modello di decisione contestuale ex articolo 281 sexies c.p.c. (con i consistenti vantaggi che tale modello comporta non solo in termini di produttività ma anche in termini di benessere organizzativo del giudice). Ma è evidente che la cooperazione dell'avvocatura e dei soggetti che concorrono a far funzionare l'ufficio del processo (cancellieri, tirocinanti, giudici onorari) sarà tanto maggiore quanto più alto sarà il grado di condivisione e, quindi, di consenso sulle opzioni gestionali del giudice.
*Intervento tenuto presso la Scuola Superiore della Magistratura l'8 marzo 2017