Il dolore irrisolto di una relazione paterna fallita e di un padre inabitabile, così come un incontro fuggevole ed improbabile con una donna insignificante possono davvero alterare il corso della vita anche delle persone apparentemente più integrate?
Ecco, allora Locke, un film del 2013 scritto e diretto da Steven Knight già fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia, impegnato a raccontarci la storia di un vero naufragio delle certezze e della loro possibile incandescenza vitale.
Ivan Locke, felicemente sposato e padre di due figli, nell’eterna metafora del viaggio come conquista di sé, abbandona inaspettatamente il cantiere di un enorme grattacielo in costruzione alla vigilia della colossale colata di cemento del basamento di cui ha la responsabilità, per raggiungere, quella sera stessa, una donna che sta per partorire il figlio inaspettato di una relazione iniziata e finita in una sola sera.
Si mette al volante, deviando improvvisamente dall’itinerario dalla strada di casa, ed inizia il suo viaggio reale ed esistenziale nello stesso tempo.
Un tragitto quasi onirico illuminato, a tratti, dalle luci sfocate dei segnali e dei fari che lo incrociano, seguito da uno sciame di telefonate destinate a mettere ordine in un crocicchio emotivo apparentemente senza uscita.
Potrebbe essere un eroe moderno questo Ivan che corre verso la sua amata, ma il protagonista spiega bene all’incredula moglie Katrina e alla stessa Ethan, che lo cerca al telefono già in travaglio, che non è l’amore che lo spinge al viaggio, ma è la paternità, quella che, apprenderemo nel viaggio, dovrà conquistarsi uccidendo simbolicamente l’odiato padre, perché solo così potrà rinascere padre lui stesso, dentro ad un macchina invasa dalle telefonate,ormai più simile ad una gabbia che è anche metafora dell’individualità apparentemente incapsulata del protagonista.
Ivan non potrà cambiare il passato, ma potrà cambiare se stesso, sovvertendo un progetto esistenziale che sembrava ormai definito, ma che lui vuole irresistibilmente arrestare in nome della responsabilità che il proprio padre gli ha negato, allontanandolo da se stesso.
Il grattacielo sorgerà ugualmente anche nella sua assenza, qualcun altro potrà sostituirlo, ma quel viaggio va intrapreso- adesso - sbaragliando, apparentemente, la logica e il mondo relazionale costruito faticosamente negli anni per trovare, con quello stesso viaggio, un nuovo posto nelle cose.
Ma c’è da delegare qualcun altro per la giornata lavorativa cruciale, occorre annunciare la sua partenza improvvisa al datore di lavoro (che lo licenzierà per telefono) avvertire la famiglia che lo attende per la cena in un gomitolo d’incertezze fatte di domande eluse e di confessioni strangolate dalla tensione.
Tom Hardy unico attore, macchina da presa fissa sul suo volto non sa, forse non comprende esattamente l’origine della scelta compulsiva che lo spinge a resistere a richiami, a rimproveri e minacce per tentare di raggiungere quella sconcertante certezza che diventerà leggibile quasi al termine del viaggio e darà un senso alla sua apparente fuga: seppellire finalmente e simbolicamente il padre morto il cui ricordo lo insegue come un demone che colloquia silenziosamente con lui sul vuoto sedile posteriore, per assumersi una paternità non voluta, ma che lo riscatta nella responsabilità e nella cura dell’altro, ossia in quel legame filiale che lui stesso si è visto negato e che, come in un riverbero emotivo, ritrova nel figlio che lo chiama durante il viaggio raccontandogli la partita che non hanno visto insieme quella stessa sera.
Per questo Ivan deve correre in ospedale da Ethan, donna non giovane che, come spiega il protagonista per telefono alla moglie attonita, è sola e senza nessuno che possa prendersi cura di lei, incarnata verità di uno sbaglio al quale lui sente di dovere riparare in una sorta di umanità postuma e ritrovata nell’imminente nuova paternità.
Nel viaggio dantesco-tecnologico di Ivan alle prese con il flusso telefonico delle proprie confessioni e dei propri impegni lavorativi, con interlocutori di cui conosceremo solo la voce, emerge la serendipità di una rinascita dell’identità rigenerata del protagonista, incalzato dall’incompetenza amorosa della moglie tradita, forse incapace di comprendere ed interpretare quel viaggio e che trafiggendo Ivan, con le sue intransigenti certezze, si nega e gli nega una possibilità di crescita.
Katrina, a differenza di Ivan, non conoscerà il naufragio delle certezze che trasfigura l’esistenza, né sembra capace di comprendere i vuoti relazionali del marito.
Piuttosto, preferirà inchiodare Ivan all’impossibilità di un cambiamento, proprio quello che per lei appare ora più difficile: come le tracce di cemento lasciate in casa da lui, quelle che lei non riusciva a pulire e che, gli sibila al telefono, come un velenoso vaticinio: Io non troverò più in casa.